Viaggio in Bosnia (1/2)
di Giovanni Accardo
Una domenica pomeriggio a Sarajevo
Il centro storico di Sarajevo, la nostra prima meta, non presenta tantissimi segni dei quasi quattro anni di assedio da parte dei serbi, anche la biblioteca nazionale incendiata nell’agosto del 1992 è stata completamente restaurata. Ogni tanto la facciata di un palazzo mostra i fori dei proiettili, mentre lungo i marciapiedi ci s’imbatte nei segni di una granata ricoperti di cera rossa: le chiamano le «rose di Sarajevo». Al ponte Latino una targa ricorda il punto in cui il 28 giugno 1914 il nazionalista serbo Gavrilo Princip attentò alla vita dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austroungarico, causando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Ecco, è più facile trovare targhe che ricordano i civili uccisi dai tanti cecchini che affollavano Sarajevo, attirati da tutte le parti del mondo. Negli anni della guerra c’era un’agenzia nelle Marche che organizzava week-end di guerra: partivi il venerdì, andavi in Bosnia a sparare, la domenica sera ritornavi a casa e il lunedì mattina andavi al lavoro, contento di avere partecipato ad una guerra e magari ammazzato qualcuno senza sapere il perché. L’atmosfera domenicale della città è rilassata, gli abitanti passeggiano o siedono nei caffè, l’architettura e le numerose moschee ricordano la lunga presenza turca, ma la vera natura di Sarajevo è multietnica e multireligiosa, come testimoniano le sinagoghe e la cattedrale cristiana. Sul tram che dopo cena ci riporta in albergo, osservo le ragazze che tornano a casa, non sono molto diverse dalle nostre studentesse, hanno gli stessi sorrisi e lo stesso abbigliamento; mi domando quanti morti ci sono stati nelle loro famiglie e cosa ha significato la guerra per loro. Noi ancora non ci siamo veramente entrati, abbiamo girato per Sarajevo come dei turisti in una qualunque capitale europea: potevamo essere a Istanbul o in un quartiere multietnico di Vienna.
Sarajevo tra guerra e pace
In periferia, dove ci spostiamo il giorno dopo, diversi palazzi appaiono ancora bucati dalle pallottole che i serbi sparavano quotidianamente dalle colline circostanti la città. Andiamo a visitare il tunnel che venne scavato clandestinamente sotto la pista dell’aeroporto su suggerimento di due iraniani andati a combattere al fianco dei musulmani; esso permetteva di far arrivare i rifornimenti attraverso l’unico punto della città non controllato dai serbi, di fronte al monte Igman. Se Sarajevo ha potuto resistere per così tanti giorni, è stato grazie al cibo, alle armi e alle truppe che passavano attraverso il tunnel, spesso in condizioni difficilissime, visto che era alto al massimo 160 centimetri e si allagava frequentemente, perciò spesso bisognava chiuderlo. Qui incontriamo Abid Jašar, dalla cui cantina partiva il tunnel, e vediamo le foto della sua complessa costruzione. Abid racconta agli studenti che gli hanno proposto più volte di entrare in politica, ma lui i politici non vuole neppure vederli, credo nelle persone, dice, ma non nei politici che parlano e fanno affari, senza preoccuparsi della gente comune. Poco prima di pranzo raggiungiamo il museo della Resistenza, dove una mostra fotografica documenta i lunghi mesi di assedio; a farci da guida è Elvir Mandra, scappato durante la guerra proprio attraverso il tunnel e arrivato, dopo un viaggio estremamente rischioso e senza un soldo in tasca, a Bolzano, dove venne aiutato dalla Caritas e dove per tre anni ha lavorato come operaio alla Finstral. Elvir, ritornato a vivere in patria, ci dice che il suo desiderio, come quello della gran parte dei suoi concittadini, è di vivere in pace e costruire un futuro per i propri figli. “Nessuno di noi pensava alla guerra, eravamo così immersi nella bellezza della vita che neppure ci preoccupavamo di capire cosa stava succedendo. Nessuno dei miei amici conosceva il nome di un politico, e i miei amici erano musulmani, cattolici, serbi, rom, eravamo fratelli, giocavamo a calcio e bevevamo acqua dalla stessa bottiglia, dividevamo il panino e qualche volta anche i vestiti. Se qualcuno ci avesse detto che sarebbe scoppiata una guerra e che Sarajevo sarebbe stata bombardata, nessuno di noi ci avrebbe creduto. Ora, invece, siamo senza soldi e senza lavoro, io sopravvivo facendo la guida, grazie alle offerte dei turisti cerco di crescere mio figlio, spero che diventi un bravo violinista.” Durante la guerra Elvir è stato ferito allo stomaco da un cecchino, mentre portava in ospedale il fratello ferito alle gambe. Sui cecchini ci racconta una storia terribile di cui è stato testimone: una mamma con un neonato in braccio stava per attraversare la strada, un cecchino ha mirato al neonato, facendogli saltare la testa con una tale precisione che la mamma quasi non si era accorta che il figlio era stato colpito; la mamma ha continuato a camminare, mentre la testa rotolava in terra. I ragazzi sono talmente inorriditi che non riescono neppure a fare domande.
Nel primo pomeriggio ci spostiamo nella parte collinare della città, qui ha sede l’associazione «L’educazione costruisce la Bosnia Erzegovina», fondata dal generale Jovan Divjak con lo scopo di aiutare i tanti orfani che la guerra ha causato. Il generale, che è stato membro della guardia personale di Tito e ha guidato la difesa di Sarajevo, ci racconta la sua storia; gli studenti si mostrano curiosi e affascinati dalla sua cordialità, lo tempestano di domande, vogliono capire come ha fatto la città a resistere tutti quei giorni senza cibo, acqua, riscaldamento e con armi di fortuna. I sarajevesi, dice il generale, non volevano permettere che la loro città venisse rasa al suolo dai serbi, e un ruolo fondamentale nella resistenza l’ha avuta la cultura. Durante l’assedio, infatti, si sono continuati a svolgere, in luoghi di fortuna e particolarmente protetti, concerti, spettacoli teatrali, mostre, rassegne cinematografiche per dare una parvenza di normalità, per far sentire che la città era ancora viva e credeva nella sua salvezza. Nonostante ciò i morti sono stati oltre 11 mila, di cui almeno mille bambini. Filippo gli chiede come mai, pur essendo serbo (Divjak è nato a Belgrado) ha difeso Sarajevo. “Che cosa avrei dovuto fare?”, risponde. “Vivevo qui da 27 anni e mi sentivo pienamente parte di questa gente. Credo che l’identità sia qualcosa che si costruisce giorno per giorno, vivendo in un posto e costruendo legami affettivi. Non la definisce la città in cui sei nato, magari per caso.” Stefania gli domanda se ha mai ucciso un uomo, Divjak si mette a ridere, mentre io temevo che si irritasse. “Non ho mai sparato neppure ad un animale”, confessa, “nell’esercito jugoslavo non ero molto amato, perché alle armi ho sempre preferito la musica, l’arte, la letteratura. Quello che amo più di tutto”, dice col suo tono affabile e a tratti scherzoso, “è la bellezza.” Alla domanda di Francesco, se non avesse avuto sentore dell’aria che tirava, risponde con sincerità: “Ricordo che un giorno, in occasione di una cerimonia ufficiale in Kosovo, il nostro presidente di allora, Milosevic, parlando di unità nazionale, disse che qualora fosse servito, saremmo ricorsi anche alle armi. Mi ricordo che pensai: ma cosa sta dicendo? Una guerra fra noi? Non può essere! Non avrei mai immaginato che il mio paese potesse vivere quello che poi ha vissuto, e ancora oggi me ne faccio una colpa.” Divjak spera che a costruire un futuro di convivenza sia la scuola, attraverso dei programmi condivisi tra le diverse etnie, anche se al momento esse sono rigidamente separate, l’unico esempio di scuole miste sono quelle cattoliche, ad esempio quelle dei francescani.
Manipolare la storia
Sul dramma della scuole separate e della mancanza di una storia condivisa concentra gran parte della sua conversazione con gli studenti la psichiatra di Tuzla Irfanka Pasagic, presidentessa dell’associazione «Tuzlanska Amica» che si occupa delle donne musulmane vittime degli stupri etnici e degli orfani che ne sono nati; è una delle più competenti psicoterapeute nella cura del Post-Traumatic Stress Disorder. Ancora una volta gli studenti domandano come sia potuta scoppiare una guerra così cruenta. La Pasagic accusa duramente il comportamento della stampa prima e durante la guerra, responsabile di una vera e propria disinformazione che ha fomentato l’odio e le violenze, attraverso articoli palesemente falsi e di parte che hanno stimolato l’irrazionalità delle persone. Le sue parole lasciano trasparire un forte pessimismo, soprattutto a causa delle scuole separate addirittura in dodici diversi distretti e con programmi completamente diversi. Il tema delle scuole etnicamente separate spinge gli studenti bolzanini a portare il discorso sulla nostra realtà, si domandano se in Alto Adige la convivenza è realmente raggiunta o se è possibile che un giorno possa esplodere un conflitto armato. Gli insegnanti li rassicurano. Io invece penso a quei partiti di lingua tedesca che lottano per l’autodeterminazione e la separazione dell’Alto Adige dall’Italia, ma non dico nulla. Penso ad Alexander Langer che per molti anni è stato giudicato un traditore del gruppo tedesco e perfino escluso dalla corsa a sindaco di Bolzano, perché si era rifiutato di dichiarare la propria appartenenza linguistica, ipocrita eufemismo per non chiamarla appartenenza etnica. Thomas chiede alla Pasagic se il tempo aiuterà a sistemare le cose. “Il tempo da solo non fa nulla”, risponde quasi seccata. Racconta poi di come serbi e musulmani abbiano iniziato a parlarsi dopo anni di silenzio. “All’inizio non avevano neppure il coraggio di guardarsi negli occhi”, dice. “Non è facile capire chi sta dall’altra parte, provare a vedere le cose dalla prospettiva dei carnefici. Non è facile ma bisogna lavorare affinché si possa parlarne. Noi ci siamo riusciti e abbiamo imparato i meccanismi che fanno parte di questo lavoro di riconciliazione, perciò adesso, quando osserviamo gruppi di altre nazioni farlo, ci viene da sorridere nel vedere che tutti si comportano nella stessa maniera: hanno le stesse reazioni emotive, dicono le stesse cose che dicevamo noi, fanno le stesse facce e le stesse espressioni. Poi, lentamente le cose cambiano, ci si riavvicina e si può ricominciare. Ma questo lavoro non lo fa lo scorrere del tempo, lo facciamo noi, col nostro impegno e la nostra consapevolezza. In tanti in Bosnia non credevano che sarebbe potuta accadere l’immane tragedia che poi si è consumata, la guerra fratricida che ha dissolto l’ex Jugoslavia”, continua, “ma l’uso manipolatorio della storia e della memoria, soprattutto da parte dei serbi, ha fatto sì che la tragedia covasse a lungo e infiammasse gli animi.”
Ancora oggi non mancano esempi di manipolazione, come la grande croce nera eretta dai serbi nella zona di Kravica, lungo la strada che porta a Srebrenica, dove il 7 gennaio 1993 un loro battaglione venne colpito dall’esercito bosniaco. Nell’attacco morirono 44 serbi, ma nella lapide commemorativa non c’è alcuna traccia dell’episodio: né la data, né i nomi dei morti. C’è scritto, però, che dal 1992 al 1995 le vittime serbe sono state 3267 e che tra il 1941 e il 1945 sono stati uccisi 6469 serbi; facendo la somma si ottiene la cifra di 9736 vittime, molte di più degli oltre 8000 musulmani uccisi a Srebrenica nel luglio del 1995. Dunque, sommando episodi diversi della storia, si fa credere al viandante che va a Srebrenica, magari per visitare il memoriale del genocidio, che le vittime serbe siano state più numerose di quelle musulmane.
Lo scorso mese di marzo, Giovanni Accardo, insegnante di italiano e storia al Liceo “Pascoli” di Bolzano, in compagnia delle colleghe Valentina Mignolli e Maristella Partipilo, ha accompagnato in Bosnia Erzegovina gli studenti della classe quinta D/E. A far loro da guida Andrea Rizza della Fondazione Alexander Langer Stiftung che ha curato anche la preparazione dei ragazzi. Questo suo reportage è apparso, in forma ridotta, sul quotidiano “Alto Adige” del 02.04.2016.
Le prime tre immagini, in ordine di apparizione:
Sarajevo
Il gen. Divjak con gli studenti e gli insegnanti
Gli studenti con Irfanka Pasagic
[…] Lo scorso mese di marzo, Giovanni Accardo, insegnante di italiano e storia al Liceo “Pascoli” di Bolzano, in compagnia delle colleghe Valentina Mignolli e Maristella Partipilo, ha accompagnato in Bosnia Erzegovina gli studenti della classe quinta D/E. A far loro da guida Andrea Rizza della Fondazione Alexander Langer Stiftung che ha curato anche la preparazione dei ragazzi. Questo suo reportage è apparso, in forma ridotta, sul quotidiano “Alto Adige” del 02.04.2016. La prima puntata si trova qui. […]