L’autorialità ai tempi di internet
di Giuseppe Carrara
Nel 2005 Bret Easton Ellis diventa il protagonista di una delle sue storie: Lunar Park. Ad un certo punto del romanzo scrive: «l’autore del libro non è nel libro», frase che potrebbe adattarsi al panorama virtuale caratterizzato, secondo molti, dalla completa realizzazione della profezia di Roland Barthes: l’autore è morto. Ma se alla fine degli anni Sessanta il discorso del semiologo francese era più di metodologia critica e si guardava alla nascita del Lettore (con la L maiuscola), al tempo del web si delinea un terzo uomo. C’è chi, come Pierre Lèvy, ha parlato di intelligenza collettiva e di opera come attrattore culturale in cui la differenza fra ideatore e fruitore diventa sempre meno riconoscibile. Altri, come Benjamin Woolley, hanno parlato di wreader, crasi di writer e reader.
Senza dubbio il web ha favorito l’appropriazione delle storie da parte dei fruitori che hanno iniziato a dire la loro attraverso fan fiction e produzioni non autorizzate sugli universi finzionali a loro più cari. Contemporaneamente il cyberspazio ha permesso la creazione di universi immersivi e trans(cross)mediali.
Dall’uscita, nel 1977, del primo capitolo di Guerre Stellari abbiamo assistito a una cascata di derivati inimmaginabile: si è venuto così a configurare il prototipo di una narrazione profonda e multilivello. L’universo creato da George Lucas poteva essere esplorato in tutte le sue aree grigie lasciate in ombra dai film, sia in modi ufficiali (per esempio attraverso le due serie di fumetti lanciate rispettivamente dalla Marvel e dalla Dark Horse) che non ufficiali (attraverso le creazioni dei fan). Queste ultime ebbero anche una certa importanza: il Dvd di George Lucas in Love (1999) – potenzialmente la parodia più famosa di Star Wars – superò le vendite il Dvd di Star Wars Episode I: The Phantom Menace (1999), durante la prima settimana di uscita. Non minore fu il successo di Troops (1998) che, nella durata di dieci minuti (e dal costo di appena 1200 dollari), scimmiottava Stars Wars attraverso una sorta di parodia poliziesca. E le opere fan-made non si esauriscono qui: dal filmino amatoriale della quattordicenne Dana Smith Kid Wars (2000) al corto Les Pantless Menace realizzato con le action figures da Evan Mather, fino a Star Wars: Revelations (2005), prodotto da Shane Faleux in open source con l’apporto di centinaia di fan (per la durata di 40 minuti). E passando per le decine di migliaia di fan fiction presenti sul web (9351 sul solo sito fanfiction.net).
Alcuni di questi contributi sono entrati a far parte del “canone” e hanno contribuito in maniera significativa ad ampliare l’universo delle Guerre Stellari, altri creano discussioni e dibattitti (anche molto accesi) fra i fan – o tra i fan e la casa di produzione. Secondo Frank Rose, in questo panorama, è evidente che i media digitali abbiano creato «una crisi di autorialità. Quando il pubblico è libero di entrare in un mondo fittizio e influenzare il corso degli eventi, l’intera struttura dei mass media del ventesimo secolo comincia a sgretolarsi» (Immersi nelle storie, p. 68). Si passerebbe, in questo modo, da un modello command and control (comanda e controlla i gusti del consumatore) a uno sense e respond (dialogo, ascoltare e osservare per essere pronti a cambiare e ad adattarsi).
Ma la fan culture non è una conseguenza del web: come fa notare Henry Jenkins, pioniere della fanfiction theory, fanzine cartacee nascevano già nella fine degli anni settanta; il web ha contribuito solamente ad amplificare il fenomeno e garantire una maggiore visibilità. Nella cultura dei fan, i personaggi non sono più considerati proprietà dell’autore; per questo motivo, nell’agosto 2008, Helen Ross crea su Twitter un account a nome di Betty Draper (personaggio della serie TV americana Mad Men) e inizia a twittare in sua vece. Il fenomeno si moltiplica velocemente e iniziano a comparire su Twitter altri personaggi della serie che iniziano a interagire fra di loro e con il pubblico – e il tutto senza l’autorizzazione dell’AMC. Ross e gli altri twittatori sono diventati parte dello spettacolo.
I primi studi sulla fan culture lodavano questa presa di potere da parte del pubblico, non mancando di sottolineare (e lodare) l’indifferenza verso le leggi sul copyright (che hanno creato non pochi problemi ai fan: basti ricordare le Potter Wars), lo sprezzo verso i modelli capitalistici di lavoro artistico, l’insistenza sulla rappresentazione di aspetti oscurati dai media mainstream (soprattutto negli ambiti della cultura femminista e queer), il rifiuto della canonica distinzione fra autore e lettore. Sicuramente tutti aspetti lodevoli, ma che restano su un piano piuttosto sociologico e prendono poco in considerazione l’aspetto estetico. Geremiadi contro la sciatteria linguistica (o più in generale artistica) di questi prodotti si sono alzate da più fronti; gli entusiasti della rete hanno spesso risposto che il web fa sviluppare la capacità di problem solving collettivo, il dibattito pubblico e la creatività grassroots. Ma ancora sono due piani diversi di problemi e si schiaccia la questione estetica sotto i risvolti politici dell’operazione.
Forse sarebbe più giusto dire che si trovano tanto esempi virtuosi, quanto viziosi. The Sugar Quill è uno dei più importanti siti di fanfiction su Harry Potter, ogni storia pubblicata viene prima sottoposta a beta-lettori per un processo di revisione fra pari: i fan chiedono consigli sulle bozze dei loro lavori quasi completi in modo da migliorarne la stesura finale. Il sito nasce proprio con lo spirito di creare un posto dove gli autori di fan fiction possano confrontarsi e crescere assieme per migliorare il proprio modo di scrivere. Alcune piattaforme si danno anche regole contenutistiche: non contraddire il “canone”, limitarsi a espandere l’universo, trattare solo di aspetti poco approfondite dall’universo di partenza. Ma è difficile far rispettare queste regole ai fan più accaniti. Lesley Goodman nota come molte fan fiction nascano dalla volontà di “aggiustare” qualcosa che ai fan non è piaciuto: l’autore non sarebbe morto, ma fallisce, i fan allora si appropriano dell’universo da lui creato per aggiustarlo. È la così detta fix-it fic. Prendiamo, per esempio, Who killed Roger Ackroyd: The mystery behind the Agatha Christie Mystery di Pierre Bayard. Bayard riprende un romanzo di Agatha Christie The murder of Roger Ackroyd e decide che la soluzione data dalla sua autrice non lo soddisfa, per questo riscrive la storia e “aggiusta” quello che secondo lui c’era di sbagliato. La fix-it fic funziona esattamente così, ma possiamo dire che questo procedimento mina in qualche modo l’autorialità nei romanzi di Agatha Christie? Sarebbe come a dire che Guildenstern e Rosencratz are dead di Tom Stoppard in qualche modo sottrae l’Amleto al suo autore, oppure Wide Sargasso Sea di Jean Rhys, appropriandosi di Jane Eyre, impone di ripensare la categoria di autorialità. Ma tanto Tom Stoppard quanto Jean Rhys sono autori affermati e, a pieno titolo, nel canone letterario e storiografico del Novecento.
La saga Cinquanta sfumature nasce come fan fiction sul mondo di Twilight: visto il successo ottenuto online un editore piuttosto sveglio decide che forse vale la pena investirci su: vengono eliminati tutti i riferimenti al mondo di Bella e Edward e nasce così uno dei best seller più fortunati degli ultimi anni. Ma anche Cinquanta sfumature, come i testi di Stoppard e Rhys, è un’opera tutto sommato nuova in cui la funzione-autore (per usare una terminologia foucaultiana) funziona in modo del tutto indipendente dal mondo di Stephenie Meyer, la cui autorità autoriale non è, di fatto, sminuita in alcun modo dai romanzi di E. L. James.
Cosa c’è di diverso nelle fan-fiction?
Quando, nel dicembre 2008, la Del Rey ha pubblicato The Complete Star Wars Encyclopedia (tre volumi, più di 1200 pagine), Howard Roffman, executive producer di Guerre Stellari, ha consegnato l’opera a Luca e gli ha detto, scherzando, che probabilmente non conosceva il 60 percento di quello che c’era scritto lì dentro. E infatti, Wookieepedia, l’enciclopedia di Star Wars lanciata nel 2005 da Chad Barbry e compilata dai fan, era ben più approfondita di quella ufficiale, lo Star Wars Databank, disponibile sul sito web ufficiale della saga. «Lucas avrà anche creato Guerre Stellari – scrive Frank Rose – ma ha dovuto ammettere che ormai erano i fan i veri proprietari della saga». La domanda allora sorge spontanea: chi controlla una storia? Il suo autore o chi ne fruisce?
Se per uno strano gioco della sorte domani Conan Doyle dovesse trovarsi a camminare di nuovo su questa terra e si imbattesse in una tipica rappresentazione del suo Sherlock Holmes (oppure decidesse di guardare un episodio dell’omonima serie della BBC), avrebbe una reazione forse ancora più stupita di quella di Lucas; probabilmente faticherebbe non poco a riconoscere il detective londinese partorito dalla sua penna. In un’altra sede ho tentato di ripercorrere la creazione del mito-Sherlock: il famoso cappello stile deerstalker e il tipico cappotto sono entrati infatti nell’immaginario comune grazie alle illustrazioni di Sidney Paget sulla rivista The Strand a partire dal 1891. Riprendendo l’iconografia di Paget, Frederic Dorr Steel, illustrando le short stories apparse sul giornale americano Collier’s Magazine dal 1903, inserì un altro elemento destinato a far storia: la pipa calabash. Tutti questi elementi furono resi famosi ed entrarono ufficialmente nel mito-Holmes grazie agli spettacoli teatrali di William Gillette, che sdoganò un altro elemento che farà storia: la vestaglia da notte che il detective indossa abitualmente in casa. All’ultimo radiodramma di Gilette si deve anche la nascita della famosissima battuta «Elementare, Watson!», di cui non si trova traccia nei libri. La lente di ingrandimento entra nell’immaginario grazie all’interpretazione cinematografica e televisiva di Basil Rathbone. La storia potrebbe continuare a lungo, ma quello che interessa rilevare è che Sherlock Holmes come lo conosciamo e lo fruiamo noi oggi non è lo Sherlock Holmes di Conan Doyle. Dunque in questo caso l’autore è davvero morto? Sembrerebbe di sì, ma forse una correzione è necessaria. Tanto Sherlock Holmes quanto Star Wars hanno subito un destino simile: non si tratta più di una saga di libri o di un film, ma di un mito a tutti gli effetti e lo spiega bene Gianluca De Sanctis su doppiozero nel suo intervento Star Wars, mitologia Jedi e cultura convergente: «In questo senso potremmo dire che il Jedismo, con le sue infinite piccole comunità, più o meno serie, è un prodotto di quella che Henry Jenkins ha chiamato «cultura convergente», che nasce e prospera attraverso il web, dove i fan si uniscono, mettono insieme le loro passioni, discutono, insomma, “convergono” sull’oggetto del loro desiderio, esercitando su di esso il proprio potere creativo. Ogni anno la saga viene celebrata in tutto il mondo da migliaia di fan che organizzano convention, raduni, vere e proprie parate in costume (l’equivalente moderno di un rito antico?). Non si tratta di cerimonie religiose nel senso proprio del termine, ma il confine tra il fan e il devoto può essere molto labile. Le chiese jediste nascono dalla medesima istanza, tradurre il racconto in atto, ma perseguono il loro scopo a un livello molto più alto che interessa la stessa realtà sociale. I real Jedi non si limitano a commemorare il testo filmico, intendono realizzarlo concretamente nell’esperienza quotidiana, vogliono essere dei veri Jedi, o meglio, vivere da Jedi. Se la forza di una religione dipende dalla sua capacità di migliorare la vita delle persone, aiutandole a realizzare la propria identità individuale e sociale, poco importa quale sia l’origine o la natura del racconto sul quale essa pretende di fondarsi. L’importante è che il racconto circoli, diventi oggetto di comunicazione, in altre parole, che abbia un pubblico di cui riesca a catalizzare attese e speranze». E di mitologia in riferimento a Sherlock Holmes parla anche Alessandro Gazoia nel terzo capitolo di Come finisce un libro.
Ma il mito, nominalmente, non ha un autore. Posso leggere Il segno dei quattro nell’edizione dei Gialli Mondadori e riconoscere senza problemi che l’autore di quell’opera è Conan Doyle, così come posso guardare Il Ritorno del Jedi e riconoscerne la paternità a George Lucas senza troppi problemi. Ma quando queste creazioni trascendono il loro statuto per diventare miti e immaginari condivisi l’autore si fa sempre più trasparente fino a evaporare. Il web ha semplicemente facilitato questi processi di creazione di mitologie e immaginari condivisi, ma, mi sembra, non ha intaccato visibilmente la questione dell’autorialità nei testi letterari. Grazie al cyberspazio la circolazione delle storie ha raggiunto livelli, mai visti, per cui, come fa notare giustamente Gazoia: «il mito è oggi pronto alla vendita, mediato digitalmente, connesso in rete (socializzato) e genera storie, pure nella “vita reale”. Il mito è prezioso, va consumato in ogni forma e deve essere protetto in ogni modo: almeno questa è la posizione delle grandi industrie dell’intrattenimento». Oggi i fan socializzano i miti e se ne riappropriano.
È questa la vittoria della creatività e della partecipazione popolare? Gli elementi che salutavano entusiasticamente i primi studiosi di fan-fiction bastano a considerare questo fenomeno come qualcosa di unicamente positivo? Oppure siamo semplicemente di fronte a enormi quantità di lavoro gratuito a vantaggio dell’industria dell’intrattenimento che non fanno che confermare i rapporti di forza, nel materiale e nell’immaginario?
Se davvero essere apocalittici è solamente un altro modo di essere integrati, non vogliamo inciampare in questa impasse; e dovrebbero essere lontani i tempi in cui la cultura di massa veniva aprioristicamente bollata con un marchio rosso. Ma neppure possiamo farci troppo ingannare dagli splendori della creatività grassroots. L’inserimento di Boba Fett (cacciatore di taglie comparso in uno speciale tv) nei film di Star Wars non deve forse troppo al successo ottenuto come action figure tra i giovanissimi? Alcuni hanno parlato di fan come rulemakers. Altri, prendendo in prestito la terminologia dagli anime e i manga, chiamano questo fenomeno fan service: l’inserimento di elementi secondari nella trama per compiacere gruppi di fan (dopo un attento studio della comunità) e legarli sempre di più al brand. In questo modo la BBC, dopo il successo della serie TV Sherlock, può editare The Adventure of Sherlock Holmes in sola versione cartacea per lo scopo esclusivo di venire collezionati: «all’appassionato di Sherlock – scrive Gazoia – regalo quindi il libro, un oggetto sociale che può mostrare l’appartenenza a una comunità di fan. L’aura, il valore cultuale dell’esemplare unico per Walter Benjamin, riesce così a permanere nell’era della riproducibilità tecnica, che è anche riproducibilità tecnica, raffinatissima e commerciale, dell’immaginario».
Le comunità di fan, insomma, si appropriano sì delle storie, ci interagiscono in maniera molteplice, immersiva, attraverso vari media e su più livelli, ma tutto ciò ha risvolti solamente sulla questione della fruizione dell’opera (o dell’universo finzionale): il web non celebra il funerale dell’autore, semmai lo fanno quei pochi universi che arrivano a diventare delle mitologie. Basti pensare a quanto poco peso abbiano i fan nelle opere di moltissimi autori di successo e universalmente riconosciuti: se scorriamo il sito fanfiction.net non troveremo nessuna storia sulle opere di DeLillo, otto ispirate a Infinite Jest di David Foster Wallace, nessun riferimento a Thomas Pynchon. Anche Stephen King, che pure è un autore di fortunatissimi best seller, conta appena 341 fan-fiction, contro le decine di migliaia su Sherlock Holmes, Twilight, Harry Potter, Star Wars, Naruto e Inuyasha.
Da questo breve elenco possiamo desumere che le narrazioni serializzate hanno più successo nelle fandome; i generi più riconoscibili sono privilegiati sulle opere di più difficile classificazione; la transmedialità facilità la creazione di una fan-culture perché permette una maggiore immersività del fruitore e una più ampia esplorazione dell’universo finzionale. Che il grande nemico dell’autore, allora, non sia il web, ma il franchising?
Prendiamo Matrix delle sorelle Wachowski: dall’uscita del primo film nel 1999 il loro intento era quello di giocare con un nuovo tipo di narrazione sinergica che Herny Jenkins chiama “co-creazione”: «le aziende collaborano fin dall’inizio per generare un prodotto in cui siano coinvolti tutti i loro settori permettendo a ogni medium di generare nuove modalità di consumo e ampliare i punti di accesso al franchise» (Cultura Convergente). Così accanto alla trilogia di film troviamo una serie di corti animati, The Animatrix (2003), creati da famosi animatori giapponesi, sudcoreani e statunitensi (come Peter Chung, Yoshiaki Kawajiri, Koji Morimoto e Sinichiro Watanabe), ognuno dei quali porta il suo personale contributo nell’universo creato dalle Wachowski. Dave Gibbons, Peter Bagge, Neil Gaiman, David Lapham, Geof Darrow, Bill Sienkiewic e Paul Chadwick, tutti scrittori già affermati nel settore, hanno creato una serie a fumetti. Paul Chadwick è anche stato lo sceneggiatore del gioco massive multiplayer (che si è andato ad affiancare a Enter the Matrix). Ognuno di questi supporti esplora zone lasciate in ombra dai tre film, ricollegandovisi anche da molto vicino: l’antefatto dell’inseguimento su autostrada in Matrix II, per esempio, si trova nel videogame.
Nel caso di Matrix, però, non siamo di fronte a un semplice ampliamento dell’universo di partenza e quindi una costante riproduzione dell’identico volta solamente ad aumentare le vendite di prodotti derivati. Ognuno degli autori che hanno partecipato al progetto The Matrix vi ha contribuito con il proprio apporto originale – ed è questo il modo in cui il franchising riesce a funzionare anche in modo virtuoso per il fruitore e non solamente come una macchina per far soldi. Prendiamo Chadwick, già famoso per la sua serie a fumetti su Concrete (uno pseudo comic di supereroi che serve, in realtà, come veicolo per proporre al pubblico questioni attuali di natura sociale ed economica), porta nell’universo The Matrix il suo contributo di critica al paesaggio urbano e di denuncia per la devastazione ambientale che segue la guerra tra umani e macchine.
Possiamo, dunque, ancora dire che gli autori di Matrix sono le sorelle Wachowski? Forse no. E non si può nemmeno paragonare questo tipo di franchising al lavoro di squadra che sta dietro la creazione di un best seller: non siamo alla presenza di uno studio delle abitudini del lettore per creare qualcosa che sia il più possibile vendibile, ma alla creazione di un universo espanso in cui ogni collaboratore porta il suo contributo originale, riconoscibile e quindi legato a una propria autorialità. The Matrix, al di là dei risultati estetici, è un emblematico esempio di possibilità di lavoro collettivo che il web favorisce e aiuta.
Ancora una volta, quindi, possiamo sottolineare che non è il web a uccidere l’autore: e anche nel caso del franchising non c’è davvero una morte vera e propria: i vari contributi sono riconoscibili, legati a un’autorialità forte. È l’universo finzionale nel suo completo a nascere dal lavoro congiunto di più personalità e quindi solo in questo caso si può parlare di morte dell’autore.
Mitologia e franchising, non il web, sono i nemici dell’autore che, anzi, sembra stare piuttosto bene nel cyberspazio. Lo conferma anche lo stato della Net Literature: quel genere di letteratura nata sul web, che si serve del web e non può esistere senza. Altresì nota come Electronic Literature o Digital Literature, è quel genere che si nutre di forme e materiali del web, concepita per essere fruita esclusivamente su dispositivi elettronici che permettono l’interattività e l’uso di ipertesti. Gli esempi, come si può vedere sul sito della Electronic Literature Organization (ELO), sono davvero molteplici e vanno dai romanzi scritti in forma di SMS, progetti collaborativi in opensource, chatterboots, poesie create da algoritmi, testi in codework style, etc.
Come nota Florian Harling, questi prodotti sottintendono quasi sempre un’autorialità forte, come nel caso di The Bubble Bath di Susanne Berkenheger, opera digitale, creata sotto forma di sito web, sull’importanza politica dell’hacktivism. Anche i lavori collettivi sembrano essere esteticamente interessanti quando la libertà del lettore non è assoluta (e spesso dietro i lavori ci sono poche personalità autoriali forti, come nel caso di The famous sound of Absolute Wreaders). Ancora Harling nota come i collaborative works funzionino meglio in contesti informativi e non artistici: si pensi a Lostpedia, un’enciclopedia fan-made in cui gli spettatori di Lost cercavano di far chiarezza in una delle serie più intricate e ambigue della storia della televisione. Guardiamo anche a Wu Ming, il loro è sì un lavoro collettivo, ma se dietro ai loro romanzi vi si riconosce un’autorialità forte, ben definita e identificabile, su Giap, il loro blog, i confini tendono a sfumarsi: diventa uno spazio di discussione, tanto che il collettivo twitta anche i commenti degli utenti.
Insomma: l’autore, nel cyberspazio, tutto sommato sembra sopravvivere; il web, semmai, ha modificato le abitudini di fruizione, dando la possibilità, ad autori e lettori, di creare universi espansi, narrazioni transmediali, immersive, a volte interattive (non sempre riuscitissime, come nel caso del cinema interattivo di Bob Bejan…). Fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile interagire sui social con i personaggi dei romanzi. Oggi invece, su Facebook, possiamo chiedere a Chirù Casti (protagonista dell’ultimo romanzo di Michela Murgia) con quale penna preferisce scrivere. E se Michela Murgia con il suo Chirù non interagisce, il rapporto fra Tommaso Pincio e Ligeia Tissot ha un vago sentore d’incesto. Ligeia Tissot è la protagonista femminile di Panorama, l’ultimo romanzo di Pincio. E il profilo facebook di questa ragazza sembra quasi una protesi del libro: Ottavio Tondi e Ligeia hanno una virtuale storia d’amore per quattro anni, attraverso le onde invisibili di un social network, che dà il titolo al romanzo. Dal Panorama a Facebook, Ligeia continua a mettersi a nudo, racconta di sé, del suo ultimo tatuaggio, le sue riflessioni sulle relazioni di coppia. E con lei interagisce Pincio, i lettori, ma anche altri scrittori, fra i like di Giuseppe Genna e i commenti di Paolo Sortino.
E può bastare così poco per mettere in discussione la questione dell’autorialità? No di certo, possiamo stare tranquilli: internet e l’autore, per ora, non sono nemici giurati, con buona pace di Roland Barthes. Ma per quanto sarà ancora così? Cosa accadrà se un A. I. vincerà un premio letterario? Che risvolti avrà nel nostro concetto di autorialità? E che ruolo giocano gli algoritmi in questo campo? Alcuni (Frédéric Martel) auspicano una collaborazione tra uomini e algoritmi (e la chiamano Smart Curation, che però non convince del tutto), il problema è aperto. Ma, per ora, questa è un’altra storia.
[Ho chiesto a Giuseppe Carrara di approfondire per Nazione indiana un suo articolo uscito su Cultweek relativo alla relazione tra internet e lo statuto dell’autorialità. Sulla questione ma riferito alla poesia e ad un progetto editoriale intitolato significativamente Autoriale (una nuova collana della Dot.com Press e un blog), rimando ad un mio breve scritto La collana Autoriale e l’autorialità tra Barthes, Foucault e la Rete che si può leggere qui. B.C.]
Comments are closed.
[…] chiesto a Giuseppe Carrara di approfondire per Nazione indiana un suo articolo uscito su Cultweek relativo alla relazione tra internet e lo statuto […]
Più che di morte dell’autore parlerei di concetti più specifici, per esempio, nel caso dei prodotti Marvel, Disney e co., di automazione dell’autorialità. Nel senso che la costruzione di prodotti mediatici concepiti per avere un impatto sulla cultura di massa e una diffusione transmediale è a tutti gli effetti un prodotto di un’organizzazione industriale e di una standardizzazione dei metodi di lavoro e degli stili della comunicazione che rende praticamente impossibile riconoscere la mano di singoli dietro alla costruzione narrativa, e anche qualora lo consenta, lo consente in una maniera che potremmo definire di “brandizzazione dell’autore”; ovvero nell’identificazione di un singolo che, astratto dal ruolo specifico sostenuto nella catena di montaggio narrativa (ruolo generalmente direttivo, in ogni caso), va costruendosi (in maniera più o meno pianificata/casuale) una parallela carriera di personaggio mediatico nell’ambito del lavoro di promozione e presentazione dell’opera, facilitandone la riconoscibilità in un’ottica di serialità sempre più programmata e programmatica.
Allo stesso tempo l’autonomizzazione di un mondo narrativo dagli autori originari non costituisce necessariamente una “morte dell’autore”, quanto al massimo una “emancipazione dall’autore”. Non è la stessa cosa, se penso all’operazione di espansione narrativa di Matrix, per esempio, mi pare evidente che il richiamo di personalità già famose nel mondo del fumetto sia il contrario esatto di una morte dell’autore, bensì rappresenti l’uso di autorialità affermate come ancoraggio per uno sbarco in un altro continente della rappresentazione mediale, in un’ottica schiettamente di espansione narrativa che ripercorre un cliché di espansione e diversificazione commerciale appigliandosi al brand di nomi affermati.