I perfetti conosciuti de “L’amore e altre forme d’odio” di Luca Ricci
di Matteo Pelliti
Nel settembre del 2006 usciva un libro strambo, racconti urticanti su coppie in procinto di scoppiare, gioghi coniugali retti dall’esasperazione del silenzio, bambini dallo sguardo spietato affacciati sulle inadeguatezze di un mondo adulto costantemente in affanno nella gestione degli affetti, delle relazioni, delle emozioni. Il quotidiano portato al parossismo, ai limiti del fantastico. Sintassi chirurgica, per una anatomia patologia dei rapporti di coppia.
Il titolo, “L’amore e altre forme d’odio“, l’editore illustre (Einaudi), il talent scout sapiente (Guido Davico Bonino), la collana prestigiosa e classica (l’Arcipelago) portavano alla ribalta nazionale delle lettere uno scrittore allora poco più che trentenne ma già completamente formato nelle sue ossessioni, nei suoi stilemi, nella sua visione di opera e di mondo, il pisano Luca Ricci. Cosa resta di quel libro a dieci anni dall’uscita? Allora non usavamo ancora Twitter, o Facebook, nella forma pervasiva e ipodermica con cui li usiamo oggi; così, l’armamentario di tradimenti possibili, dispetti, litigi, assenze, prossimità condominiali, di sguardi e malintesi che popolano quei racconti appartengono a un mondo “alto”, rarefatto, pre-social. Le rovine e le perversioni della comunicazione amorosa erano già tutte lì, raccontate, pronte a trovare uno strumento giusto per farle meglio e prima deflagrare (vedi la risonanza ottenuta da un film come “Perfetti sconosciuti”).
Ecco, i personaggi de “L’amore e altre forme d’odio” sono, per converso, dei perfetti conosciuti, maschere nelle quali dieci anni fa avevamo paura a specchiarci per il rischio concreto di riconoscervi dentro uno o più destini personali possibili. Oggi sorridiamo delle nevrosi, delle doppiezze amorose, delle vite plurali custodite negli smartphone, mentre allora rimanevamo raggelati da un testo che aveva la forza di affrontare la coppia in termini assoluti, mostrandone una nudità quasi matematica, geometrica. (Andrea Cortellessa aveva parlato di quei racconti paragonandoli a “meccanismi”, origami perfettamente funzionanti). In fondo questo fa la letteratura, e uno dei motivi della fortuna di quel libro, io credo, sta proprio nella sua appartenenza consapevole ai compiti della letteratura: mostrare i “fondamenti”, dare parole alle fondamenta delle nostre relazioni vitali. Tra i temi che, per me, rimangono più attuali e letterari al tempo stesso, vi è quello della casa/corpo, in una linea di continuità ideale che passa da Poe a Cortàzar. Ci sono molte case “ammalate” nei racconti di Ricci, case che finiscono per assorbire/esprimere i disagi di chi le abita. Camere conservate, depredate, come porzioni del male e dei lutti delle coppie
Le pareti delle case, nei racconti di Ricci, sono il Golem di creta sul quale iscrivere le parole “vita” e “morte”, “anima” e “sangue”. Il corpo-casa malato, imperfetto, è l’immagine del corpo imperfetto dei suoi abitatori e della relazione-comunicazione malata tra i suoi abitatori. Ricci fa esattamente questa operazione di messa a fuoco: aguzza lo sguardo su scarti morali, piccole viltà, omissioni sgradevoli della comunicazione affettiva. Disegnava, così, con precisione una specie di “città dis-ideale” o deidealizzata, dove la casa, le case, diventano la metafora vivente di un corpo famiglia in progressiva disgregazione eppure coeso, raggrumato nei silenzi. Il Murales del racconto omonimo (da poco disponibile anche in traduzione spagnola qui Link: http://manualdeusocultural.com/mural/ ) costituisce una chiave interpretativa centrale, per la sua esplicita e consapevole, metaletteraria, simbologia del tema corpo-casa. Il murales interno, come interiorizzazione, somatizzazione del male, che segue/anticipa i malanni, le mancanze dei corpi che rappresenta. La casa è viva ed è tomba proprio perché corpo vivente, mimetico, dei suoi abitanti. La carta da parati viola, dell’omonimo racconto, come incantesimo proiettivo della vecchiaia, è solo un corollario del teorema esposto in Murales.
La raccolta di Ricci, in questi dieci anni, ha vissuto di un fitto passaparola tra appassionati lettori: libro introvabile – seppur sostenuto da un ampio consenso critico, e Premio Chiara 2007 – avrebbe meritato una riedizione tra i tascabili, per una più ampia circolazione “popolare”. Un po’ come si fa con le vaccinazioni. Niente. L’editoria, spesso, teme la letterarietà dei suoi prodotti. E allora li mette in speciali forme di quarantena. Poi il libro è riemerso in copie fantasma, residue, fondi di magazzino che, proprio nella condivisione di un social network, via Twitter, canale in cui Ricci è molto attivo e seguito, hanno ritrovato visibilità in una specie di caccia alla copia rara. Dieci anni sono un tempo lunghissimo per i ritmi della nostra editoria di consumo, ma molto brevi per quelli della letteratura. Dopo dieci anni, insomma, di un libro vero ci si dovrebbe chiedere non cosa è stato, bensì cosa comincerà ad essere. E quei racconti di Luca Ricci hanno molto da dire, soprattutto ai tanti perfetti sconosciuti che provano ancora a vivere d’amore, o di altre forme d’odio.