Biagio Cepollaro, Al centro dell’inverno (prologo)
di Biagio Cepollaro
Da Al centro dell’inverno, inedito.
Prologo
Dal collasso della storia
1.
il corpo ogni giorno si accende come si avvia un terminale
a lui fanno capo i messaggi in arrivo e ogni input che suona
è richiesta di attenzione e risposta. è pioggia che batte
sui vetri la chat che moltiplica i gruppi divisi per tema
2.
il corpo al centro dell’inverno può anche coprire con un respiro
lo spazio della stanza: desiderio e gioia ripetono la loro danza
ma è come stare su di una zattera o dentro un cerchio di luce
che scivola sulla terra. è tutto intorno che non si vede o peggio
è questo mondo prossimo che anche visto non si può toccare: sono
i corpi tutti nell’acquario che “postano” di cibi gatti e grandi imprese
3.
il corpo ogni giorno si connette attraverso un fascio di luce
ad altri corpi e le teste si annodano con onde invisibili
che muovono e smuovono anche di notte senza sudare
ciò che prima era solitaria fantasticheria ora è fantasma
di gruppo che si solleva dai cuscini e plana attraverso le porte
se il corpo tagliasse questo filo che lo lega agli altri
si sentirebbe immediatamente respirare ma l’incertezza
della strada sarebbe più grande e anche assordante
sarebbe l’immediato silenzio sceso nella stanza
4.
il corpo si tuffa nella piscina riempita da parole
che scorrono incessanti attraverso tubi invisibili
e lo connettono al mondo da ogni lato. sono continue
trasfusioni di senso che nella quotidiana insensatezza
affollano psiche fino a farla sola e febbricitante
5.
il corpo anche nel sonno avverte il sussulto del terminale
che dice il messaggio in arrivo o la battuta di qualcuno
a proposito di qualcosa ad una certa ora della notte: il silenzio
non c’è. in suo luogo una modalità silenziosa che piano
sovverte la calma del corpo e la sua greve indifferenza
6.
il corpo al centro dell’inverno è un vuoto che non si risolve
è un punto interrogativo che attende il tempo che lo prende
e lo solleva come quando è dentro al suo dire e non c’è differenza
col suo fare. affacciato sull’istante luminoso che non viene si sporge
oltre la minaccia di morte e malattia: ripassa a memoria i volti
pochi dell’incanto che lo salvano forse dal collasso della storia
7.
il corpo che si disconnette sguscia via dall’involucro
d’onde che lo stringe. fuori torna ad essere assenza
di linguaggio: ora è soltanto pelle e patina tempo
e postura mentre l’aria della primavera profuma
8.
il corpo al centro dell’inverno vede ancora più buie
le strade che portano fuori dalla città verso un’ecologia
di confine tra periferie sfigurate e il grigio negli occhi
molte vite si sbranano qui senza neanche un racconto
basta la rabbia e la tristezza basta per ogni giorno
l’abitudine e per ognuno la morte è la fine del mondo
[ Al centro dell’inverno, attualmente in lavorazione, costituisce il terzo libro della trilogia Il poema delle qualità. Il primo libro, Le qualità, è uscito nel 2012 presso La camera verde di Roma; il secondo, La curva del giorno, è apparso per i tipi de L’arcolaio di Forlì nel 2014. Il pdf de Le qualità si può scaricare qui, e alcune conversazioni sul libro qui; la registrazione audio della lettura del prologo realizzata al festival di Bologna in lettere nel maggio del 2016 è ascoltabile qui. L’immagine si riferisce ad un mio quadro del 2015, Icona-49.B.C.]
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Mi sembra che in questo prologo il corpo torni a essere leggibile sia in senso letterale sia contestualmente come metonimia, al pari delle sezioni più pregnanti de Le qualità. Raggiungi così una densità di significato, che non è tanto quella polisemica di diversi livelli di lettura, ma è la rappresentazione stereofonica, per così dire, di un percorso in cui la microesperienza o la percezione corporali riflettono e dialogano con l’esperienza del soggetto nel mondo
Concordo perfettamente con quanto scritto da Giorgio Mascitelli Aggiungo solo che il lessico, accuratamente tarato sul grado zero, accresce a dismisura anziché diminuire le potenzialità semantiche dei singoli componimenti. Ne viene fuori un verseggiare sapienziale, proverbiale, aderente all’artificiosità della contemporaneità occidentale come il fraseggio haiku lo è per la cultura zen.
Attenzione, haiku e zen sono due mondi distinti che all’occorrenza si sfiorano, senza sovrapporsi mai del tutto! L’espressione haikai non è in funzione dello zen, anche se ne può subire l’influenza.
Infatti, Corrado, parlavo del ruolo della forma poetica haiku all’interno dell’universo dello zen (non un modo distinto, ma un approccio culturale e filosofico che sottende l’intera cultura giapponese, come rilevabile per esempio nell’ottimo lavoro di Daisetz T. Suzuki, pubblicato in Italia da Adelphi).
Grazie a Giorgio e ad Angelo per le loro letture. Spero di poter completare il lavoro quest’anno in modo da poter renderlo disponibile nella sua interezza. I tre libri (Le qualità, La curva del giorno e Al centro dell’inverno in costruzione) andrebbero letti insieme, costituendo Il poema delle qualità.. Ciò di cui parla Giorgio , mi pare di capire, si riferisce all’allegoria come strategia che permette quella stereofonia tra le microesperienze corporee e la visione più generale del mondo. D’altra parte se la poesia oggi può offrire un contributo conoscitivo questo dovrebbe riguardare proprio la “forma” del racconto che il soggetto fa della propria esperienza, metonimicamente. E la forma per me è quella di un soggetto-corpo che agisce e anche si guarda agire, tentando la consapevolezza del proprio esserci. Questo sguardo-percezione sicuramente si colloca tra fenomenologia (occidentale) e meditazione (orientale, per intenderci), così come la retorica scelta deve fare i conti , ed è il grado zero di cui parla Angelo, con l’artificio dell’estetizzazione diffusa del nostro mondo mediatizzato. Non c’è la polisemia del simbolismo perché questo livello estetico è già realizzato nella comunicazione ordinaria estetizzata. Quindi la strada da percorrere per me e nel mio caso è quella della conquista di un’apparente semplicità che diventi una sorta di quotidiano esercizio di immanenza. Il poema delle qualità nel suo complesso tende a rispondere alla domanda: come fare poesia nel tempo del collasso della storia? Come scrivere dai margini della speranza d’Occidente? In fondo sono le stesse domande a cui avevo tentato di rispondere con la prima trilogia da Scribeide a Fabrica, tra gli anni ’80 e ’90. E credo che queste domande non riguardino solo me…
Il mantra del corpo diventa ossessione salvifica; imperativo categorico è sfuggire a geolocalizzazioni non volute e flussi di coscienza elettronici: per “tentare la consapevolezza del proprio esserci”. La semplicità per raggiungere gli odierni livelli involutivi e liberare altri corpi (v. Matrix).