Destino volle

di Gabriele Drago

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Sono incastrato tra i corpi del mattino. Tengo il mento in alto per non alitare su questo sconosciuto che sto abbracciando come fosse mio padre, ma cedo fino ad appoggiare la mia guancia sulle sue spalle. Non si accorge del peso della mia testa. Io invece sento una signora anziana che spreme i suoi grossi seni sulla mia schiena. La punta di una borsa mi sta scavando le costole. Due grandi narici nere pendono sul mio orecchio insufflandomi aria calda a intermittenza.

Cerco in tutti i modi di sottrarmi all’incastro ma ogni azione è annichilita da questo blocco umano che mi nega e mi ingloba. Resistere, spingere, trovare anfratti liberi non serve a nulla. Perciò mi rassegno. Rimango sdraiato sulle spalle dell’uomo e guardo fuori dai finestrini, nella città. Vedo scorrere le macchine, i monumenti, le persone libere di muoversi nell’aria fresca del giorno che a grandi falcate attraversano le strade ampie, che girano per le piazze, che cambiano direzione, che allargano le braccia, mentre io, con il torace costretto, inalo l’aria già respirata che ristagna nel tram.

Penso che l’unica cosa da fare è aspettare che qualcuno scenda, riporre negli altri, come ho sempre fatto, la possibilità di essere libero. E intanto continuare a lamentarmi per far capire a tutti che comunque anch’io sto soffrendo, che siamo sulla stessa barca, sullo stesso tram, che possiamo considerarci vittime e morire asfissiati ma senza colpa.

Alle fermate non scende nessuno. Sembra che il tram giri a vuoto e quando si blocca guasto sulle rotaie, l’immagine di un mondo ossigenato al quale mi sto avidamente aggrappando scompare definitivamente sotto i colpi degli eventi. Le porte a soffietto, agitate da una ossessione compulsiva, si aprono e chiudono per pochi millimetri fino a serrarsi definitivamente. Là fuori, la città libera si dissolve dietro i vetri appannati e una luce filtrata cala su noi come un gas mortifero.

Stiamo tutti in silenzio ad attendere che il tram riprenda la corsa.

Uno scossone ci sorprende e ci fa sguazzare compatti come un piede in una scarpa larga. Si riaccendono i motori. Pochi metri, nulla. Anche i rumori di una possibile ripresa delle attività si spengono.

Tutto intorno diventa unto. Dal giubbotto di pelle sul quale la mia faccia è spalmata vedo trasudare una patina vischiosa. Alzo la guancia. Piccole placche nere come grafite, sedimentate tra le rughe del cuoio, mi si incollano sul viso. Nessuno si lamenta o cerca di ribellarsi alla tenaglia dei corpi. Tranne me che ho la nausea, e più cerco di ostacolare le cose più queste si fanno grandi e insormontabili.

La situazione si impone come un tiranno. Bisogna sperare nell’arrivo di un tecnico e penso che sia benedetto il giorno in cui non avremo più speranze perché le nostre vite saranno perfette.

Quando al secondo scossone una punta di ombrello si incastrata dentro la mia scarpa, asportandomi dal piede un lembo quadrato di pelle, capisco che qualcosa ancora può esser fatto e che l’unico modo per imprimere la mia volontà al destino è volere ciò che lui vuole. E allora dico si. Si, al piede che brucia insanguinato. Si alle tette enormi che porto sulla schiena, voglio che mi schiaccino per terra queste sacche di grasso. Si alla borsa che mi scava le costole, voglio che mi perfori come la lancia di Longino. Si al fiato che mi scalda l’orecchio come fa il bue col bambinello, arrostiscimi la staffa e il timpano. Voglio sprofondare la mia faccia nelle spalle di questo uomo e premere la fronte tra le sue scapole, scavargli sotto la cervicale, strisciargli il naso sulla pelle e dargli delle testate per aprirmi varchi nella sua gabbia toracica. Che’ se alla macchina lanciata in corsa si rompono i freni io accelero, e non si dica che destino volle ma sia io ad aver voluto schiantarmi. Perché sono il padrone degli eventi e la mia ragione farà ragionevole questa massa informe che mi sovrasta.

Quando riapro gli occhi sto penzolando nell’aria dentro al tram vuoto. È un relitto arrugginito dai finestrini sfondati, una scatola di latta nuda e senza porte. C’è puzza di piscio. Il mio materasso sottile e sporco giace sotto i due sedili rimasti. Scendo in un deserto con altre carcasse di tram sparse per chilometri. Mi guardo in uno specchietto retrovisore opaco di terra e scopro di essere vecchio. Un dolore mi sfonda lo stomaco. Ho fame e mi chiedo se è questo ciò che ho voluto.

  • disegno di Serena Schianaia

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.