Quando ti vengo a riprendere
di Francesco Borrasso
Sei qui, al mio fianco, nell’auto fa caldo, fuori un vento solido simula le onde, borbotta.
Mi restituisci il profilo, la pelle di porcellana, i capelli rossi che ti toccano le spalle quasi con disperazione. Il silenzio che c’è tra noi, adesso, è uguale ad un valico, il primo che parla, perde tutto.
Ti ho amata come si ama il ghiaccio, ti ho amata come si ama la neve, sempre attento a non farti sciogliere; mi sono preso cura della neve, cercando di mantenere sempre la temperatura giusta per proteggerla, ho avuto la forza di accarezzarla a mani nude, che tutto il freddo sulla pelle l’ho sentito come gioia, che tutto quel freddo dopo ogni abbraccio era per me solamente una piccola magia.
Ti passo una mano sulla guancia, quando senti il mio contatto, non indietreggi, vai incontro al gesto, e la nostra pelle in questo accostamento ci riporta indietro, tanto indietro che io adesso non ho voglia di ricordare.
Ti ho tenuta in una mano, ti ho tenuta in due braccia, in un letto, ti ho baciata come si bacia un sogno, spesso ad occhi aperti, per paura che potessi svanire.
Sei stata la neve che incanta, quella che copre tutto con il silenzio, che ad ogni fiocco restavo a bocca aperta; sei stata la neve fragile, che rischiava di svanire ad ogni terremoto, gli epicentri sono sempre stati nella tua mente, l’amore è stato sempre dentro il tuo corpo, quel corpo fatto di cristalli che quando percepisce il mio non riesce a non provare appartenenza.
Sei ferma, come una scultura di marmo che non conosce limiti di spazio e tempo, il verde dei tuoi occhi è colmo di parole che non dici, si sciolgono, finiscono sui vestiti, il tuo corpo è come un trauma, non posso dimenticarlo.
Mi hai incantato come quelle valli innevate, che a perdita d’occhio possiedono tutto e non lasciano il fiato nemmeno per respirare, sei stata la magia, ogni volta che ti guardavo mi sentivo come quando da bambino assistevo ad un gioco di prestigio per rimanere poi a bocca aperta.
Ti ho amata come si ama il freddo, coperto bene, coprendoti bene, facendomi amico il vento, usando il vento per raccontarti di noi.
I finestrini si appannano, respiriamo veloci, come se tutto il tempo del mondo fosse finito dentro questa auto, e noi stessimo provando a custodirlo, a consumarlo.
Ti ho posseduta come si possiede il ghiaccio, sempre attento a non stringere troppo le mani, che troppo calore ti avrebbe fatto diventare acqua.
Nei momenti in cui stavi per evaporare per colpa del sole, ti ho fatto da scudo, ho messo il mio petto vicino al tuo viso, ho fatto del mio corpo un iceberg, per poterti trasmettere l’energia necessaria per non diventare liquida.
Finalmente ti giri, mi guardi come si guarda un bene profondo che sai di non poter meritare; in un attimo il tuo sguardo passa da docile a pietra, senti la voglia di lasciarmi fare e la barriera che ostinata tieni alta per istinto di conservazione.
Ti ho presa in braccio quando faceva troppo caldo, ti ho baciata sulla fronte quando ti sei svegliata al mio fianco, ti ho asciugato le lacrime per evitare che quel veleno potesse rovinarti la pelle, ho ascoltato le tue parole dure sempre con rispetto, mi sono fatto allontanare legandoti al collo un laccio, non sono mai stato bravo a starti distante, tutti i silenzi erano sempre forze contrarie che mi spingevano poi nuovamente verso te.
Ti ho baciata a lungo sopra la sabbia, dentro una spiaggia, a ridosso di un mare che suonava piano; ho accettato sempre i tuoi abbracci, anche quando la rabbia avrebbe voluto che tu diventassi meno solida, che tu diventassi acqua per scorrere via, perché tutto quel gelo mi stava facendo morire.
Dove vai? Ti chiedo.
Tu che adesso potresti parlare, trattieni una lacrima, e anche se non cade, per me, piccola mia, vale lo stesso.
Ti ho fatto ascoltare canzoni sotto un albero in mezzo alla gente, chiedendoti il silenzio dopo un bacio, donandoti una cuffia, stringendoti come in un ballo malinconico.
Ogni ciao l’ho vissuto sempre come un addio, ogni sorriso l’ho catturato sempre come se potesse essere l’ultimo, ogni mattina mi svegliavo sperando di ritrovarti mia e non lontana.
Ho combattuto per te come si combatte per la propria vita, ho sfidato la ragione per dare ascolto solo e sempre al mio cuore.
Ti ho portata sopra il mare, dentro un camino, dentro una sala gonfia di candele, dove il buio era contorno e tu il centro della fiamma.
Ti ho regalato un anello che ti somigliava, dove c’era il verde della speranza, e il bianco della tua bellezza devastante.
Aspetti paziente che io perdi la lotta, la tua guerra santa, la tua crociata priva di fondamenta, le leggi che hai imposto al tuo inconscio per sopravvivere alla tristezza.
Vado via, mi rispondi.
Ho ascoltato la tua rabbia, la tua tristezza, mi sono scontrato contro la tua voglia di cambiare tutto senza riuscirci mai, perché la neve è fragile e per essere forte e prepotente ha bisogno della giusta temperatura.
Ti ho amata come si ama se stesso, e nei momento in cui me stesso l’ho odiato, ti ho tenuta fuori, per non infettarti; ho cercato sempre di baciarti, perché le nostre labbra erano un incastro senza regola, sono il pezzo più simile al tuo, sono la tua persona, e ti ho incontrata forse tardi, forse presto, forse quando doveva succedere.
Resta, ti sussurro.
Lo faccio piano, con il cuore che salta un battito, con la gola che si chiude per paura di ingoiare, con lo stomaco che si riempie di cemento; i miei movimenti sono densi, pieni di colla.
Tu mi hai amato come si ama il fuoco, mi hai guardato con stupore, con la bocca aperta e le pupille dilatate come due laghi neri; mi hai osservato a lungo come se io fossi un incendio, come se io fossi un bosco in fiamme che terrorizza certo, ma che ti lascia senza fiato per lo spettacolo infinito delle fiamme che si alzano verso il cielo.
Mi hai amato come si può amare il fuoco, sempre da lontano, perché il calore era troppo e tu rischiavi di bruciarti.
Non posso, dici.
So di non poter piangere, la mia sofferenza servirebbe solo ad aumentare il terrore. Ti prendo la mano e tu non fai resistenza; ti lascio un bacio sulle labbra, le tue labbra, che restano chiuse qualche secondo, ma poi mi accolgono, e nel nostro modo di mischiarci c’è sempre stata la naturalezza del respirare.
Spesso mi hai guardato negli occhi scegliendomi come il tuo futuro, spesso mi hai stretto a te con tanta forza da scottarti; le ustioni le hai sentite poi durante la notte, ustioni che ti hanno tolto il sonno e ti hanno fatto credere che quelle bruciature, tu, non le potevi sopportare.
Sono stato il fuoco di un camino acceso di notte, il fuoco di una speranza, il fuoco che ti ha fatto credere nei punti di svolta, che la vita cambia, che le persone non si incontrano mai per caso.
Forse non ti amo, quasi mi gridi; ma è un urlo docile, che fa tenerezza.
Queste cose dille a te stessa, a me, però, non puoi venire a raccontarle; rispondo.
Scuoti il capo, vorresti prendermi a schiaffi, vorresti scendere, andare via davvero, vorresti dirmi: arrogante, presuntuoso, stupido… amore.
Ti sei bruciata con me scegliendo i mobili della tua camera, ti sei bruciata con me dormendomi vicino, ti sei bruciata con me leggendomi, ascoltandomi, capendomi, allontanandomi; hai sentito la mancanza e hai lottato con il corpo convincendoti che andava bene, che tu quel fuoco non potevi meritarlo, sopportarlo.
Ti sei bruciata con me quando mi hai detto che ero l’uomo perfetto per te; ti sei ustionata con me quando hai immaginato tutta la vita vicino a me.
Dovresti lasciami andare.
Non posso.
Perché?
La mia promessa, ricordi?
Già…
“Se dovessi andare via, promettimi che verrai a prendermi.” Le promesse non conoscono limiti, ti verrò a riprendere sempre, anche quando non avrò più forza per camminare.
Ti ho ustionata scegliendo sempre come se fossi tu a scegliere; regalandoti un giradischi come se avessi scavato a fondo dentro i tuoi desideri.
Mi hai amato sempre con timore, come quando passi una mano sulla fiamma e sai che devi essere rapida, altrimenti il fuoco non perdona, e la pelle si brucia, e fa male, troppo male.
Spesso ti sei messa al centro di me, sfidando le bruciature, sei rimasta nel mezzo della fiamma più densa solo per non togliermi le braccia che stringevano forte intorno al mio collo.
Mi hai posseduto come si possiede un incendio, a braccia larghe, cercando di fare spazio, provando a non chiudere le finestre, perché la mancanza di ossigeno mi avrebbe fatto spegnere.
Delle volte ci hai provato, gettandomi addosso delle coperte, provando a soffiare veloce, ma il tuo alito non ha fatto altro che alimentare la mia forza.
La tua paura, questa volta, non deve vincere.
Ma tu non mi ascolti, già ti perdi ad osservare fuori dal finestrino, già le nostre mani sono distanti, già non ho più la pelle, che ad ogni parole, mi strappi via.
Altre volte hai provato a bagnarmi con le lacrime, ma io mi sono fatto permeabile, al posto di combattere il tuo pianto, l’ho accolto come un dono.
Nei momenti in cui la tua neve ha provato a sciogliersi e il mio fuoco a bruciare troppo, ci siamo dovuti allontanare; siamo stati due miraggi, due oracoli divisi nello stesso santuario.
Mi hai amato spesso dimenticandoti di mettere legna, lasciando spesso che io restassi solo una fiammella, correndo poi da me con le braccia piene di rami, e riversandomi indosso, troppo velocemente, tutta l’energia che avevo bisogno di bruciare per restare in vita.
Apri la portiera, mi guardi; una tristezza antica appartiene al tuo sguardo e io resto immobile.
Ciao, dici.
Io non rispondo.
Dove vai? Penso?
Ma non parlo, e già mi interrogo su dove e quando dovrò venire, ancora, per mantenere la mia promessa eterna.
Pochissimi i passaggi felici.
Il tono è uniforme ma poco asciutto.
Parlar d’amore è assai arduo,
si rischia di scadere facilmente nel poeticume.
E, soprattutto, non basta l’abbastanza buono.
Quando parli d’amore, devi essere impeccabile
per forma e contenuto.
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