Alla ricerca di una possibile concretezza # 2
[Pubblico la seconda parte di un testo apparso come postfazione a Lavoro da fare di Biagio Cepollaro, uscito nel 2006 in e-book e in formato cartaceo nel 2017 presso la Dot.com Press di Milano. La prima parte qui.]
di Andrea Inglese
2.
Vorrei tornare ora a una lettura ravvicinata del lavoro di Cepollaro, ma seguendo l’itinerario cronologico che porta da Fabrica a Versi nuovi e da Versi nuovi a Lavoro da fare. Ciò che in Fabrica veniva vistosamente abbandonato era l’originale ed efficacissimo innesto del volgare di Jacopone da Todi e del dialetto napoletano nell’italiano medio attuale. A tale impasto linguistico estremamente espressivo, subentrava una lingua spoglia, una lingua–oggetto, che poco margine lasciava alle operazioni “espressionistiche” del soggetto. E se un verso della raccolta dice del mondo: “sotto modi di dire i suoi moti di fatto ha seppellito” (Per moti di dire), ciò significa che al poeta non resta che restituire l’ingombro, l’opacità, la pesantezza dei “moti di fatto” nei suoi “modi di dire”. Al margine di manovra offerto dal diaframma della lingua jacoponica, capace di tenere a distanza la presunta immediatezza delle cose, si sostituisce ora una più volontaristica postura: quella dell’epigramma o, addirittura, dell’invettiva. Caduto il diaframma linguistico dell’idioletto, al soggetto poetante non resta che la nuda armatura ideologica, di pensiero critico, per distanziare la pressione bruta dei moti di fatto. Ma laddove in Scribeide e in Luna persciente era percepibile una funzione assieme di denuncia e di giubilo della lingua, in Fabrica prevale la denuncia. Il risultato è un andamento per distici ipermetri, spesso addirittura scavalcati da una o più parole, a segnalare una registrazione senza dubbio lucida, ma fondamentalmente risentita della lingua–oggetto. Leggiamo da per mondi mediali non più:
per mondi mediali non più territoriali ché dicono passato
ormai lo stato forma peritura usa un tempo a convogliare
capitali e infrastrutture
per pure antenne domiciliari per ali per fenomenali intrecci
di cavi per vie nervose per cerebrali allacci e terminali
(…)
Il soggetto è così ridotto al ruolo di punto di vista giudicante di fronte a uno scenario in cui si accalcano “fatti”, senza che tra di essi sia possibile prendere posto, sperimentare una sintonia emotiva o fornire una risposta diversa dal puro diniego. Nei due libri precedenti, l’idioletto costituiva non solo un diaframma difensivo, ma anche un territorio abitabile, un inframondo tra la soggettività del poeta e il saturo paesaggio delle merci. In Fabrica l’opposizione è invece frontale, e più scoperta è dunque l’attitudine giudicante, ma inevitabilmente anche più fragile, a fronte di un’invasione onnilaterale delle frasi–oggetto. Aveva dunque ragione Mesa a parlare, nella sua introduzione, di Fabrica come di un libro di “crisi” e di “transizione”, ma anche in quest’ottica il libro di Cepollaro appare compiuto: la crisi trova la sua adeguata e peculiare lingua, la transizione non appare come un’incertezza delle soluzioni formali, ma come una specifica forma che mantiene in sé sia tracce del passato sia elementi inediti.
Ma di quale crisi stiamo parlando? Tema esplicito di Fabrica è l’attraversamento di una profonda crisi, che è strettamente legata a uno stadio di inasprimento accelerato dei rapporti sociali e delle forme di vita all’interno delle società occidentali e tardocapitalistiche. Ma la crisi di cui parla Mesa è un’altra, di portata minore e biografica. Essa costituisce il tema del libro successivo di Cepollaro, Versi nuovi (1998–2001). Questo libro è incentrato su un’esperienza di conversione nel senso più tradizionale del termine. Il soggetto giudicante di Fabrica ha abbandonato la sua postazione panoramica, l’architettura ideologica che sosteneva la sua opposizione frontale al mondo ha cominciato a frantumarsi, e in questa situazione di inevitabile dolore e rovina sono però emersi varchi di prossimità e fratellanza imprevisti con il mondo e gli esseri umani. Se dunque Fabrica segnava una frattura rispetto ai primi due libri del trittico, Versi nuovi segna una frattura rispetto all’intera impostazione che aveva animato il trittico. Abbiamo nuovamente un mutamento di forme e di lingua, ma soprattutto un mutamento di postura del soggetto poetante.
Dopo la conversione, il modello eroico e agonale è stato rigettato, ma non la fedeltà al nesso vita–scrittura. Ma ora è la scrittura che apre uno spazio di salvaguardia necessaria, di tutela costante, di fronte a una vita che appare in tutta la sua fragile esposizione alla sorte. La scrittura è dunque forma indispensabile, seppur limitata e provvisoria, per procedere all’emendamento dei guasti. “Emendamento dei guasti” s’intitola, infatti, la prima sezione di Versi nuovi. Dunque la vita ha bisogno di questo spazio di “purificazione”, tanto più quanto l’io è ormai spoglio anche di quell’armatura ideologica che gli offriva un punto di vista giudicante sul mondo. Quest’armatura ideologica era costituita dal pensiero critico di matrice marxista. Essa non viene sconfessata dall’autore di Versi nuovi, ma arretra sullo sfondo, cessa di essere la chiave di lettura predominante, il punto orientativo della visione nei confronti degli eventi quotidiani. L’effetto, da un lato, è quello di smarrimento del soggetto, dall’altro, di sfaldamento del quadro generale in cui esso è inserito. Insomma, viene meno la possibilità di pronunciarsi sui “destini generali”, laddove con estrema problematicità e urgenza emerge la storia individuale, ricca di nodi irrisolti e lacune, di gioie e paure. Questo smarrimento, però, è percepito come un’importante occasione per approfondire la conoscenza di sé e riconoscere la “precarietà” costitutiva della propria presenza al mondo.
La centralità del nesso scrittura–vita in Cepollaro non assume mai comunque i toni dell’autoironia, della mascherata tra l’indulgente e il sacrificale che ritroviamo in Giudici e, seppure con toni più grotteschi e parodistici, in Sanguineti. In entrambi questi autori il nesso scrittura–vita è esibito costantemente, ma attraverso una forma di esorcismo se ne vuole neutralizzare l’eccessiva gravità. In Cepollaro, invece, questa gravità persiste. Nessun tentativo ludico o teatrale di depotenziare questo nesso, quindi, ma neppure l’esigenza di sbandierarlo. Esso è ossessivamente presente come condizione stessa del vivere: senza la zona di arretramento e messa a distanza fornita dalla scrittura, la vita di Cepollaro parrebbe segnata da puntuali ma ricorrenti disintegrazioni. Alcune poesie di Lavoro da fare sono infatti ricomposizioni di esperienze ai limiti dell’esplosione (o dell’implosione): dove meno conta la specifica causa scatenante – che può essere, ad occhi estranei, importante o infima – rispetto all’emblema che essa finisce per assumere, di minaccia per l’equilibrio esistenziale del soggetto. Cito, ad esempio, i primi versi della poesia d’apertura:
calmati o il cuore ti scoppierà e non è metafora
poetica ma proprio sordo tonfo d’organo
risposta che travalica
domanda e nel vuoto degli occhi
si schianta
ora scrivi come hai sempre fatto
e non scherzare più col fuoco
della vita
(…)
3.
A partire da Versi nuovi e ancor più in Lavoro da fare, Cepollaro ha consapevolmente e sistematicamente ridotto il tasso di letterarietà dei suoi testi, ma non nella prospettiva di qualche residua strategia anti–letteraria di matrice letteraria (ancora mosse avanguardistiche). No, lo ha fatto per un’esigenza di “purezza”. E si legga: una volontà di denudarsi, di diminuirsi, di ritrovare gesti semplici, elementari. Lo sfrondamento avrebbe potuto farsi in nome della “verità”, ma seppure tale ombra (terribile) non è del tutto assente dalle ultime due raccolte, vi è un moto che costantemente la schiva, come si schiva una pericolosa tentazione.
In realtà, con Lavoro da fare si annuncia un moto duplice, che è al contempo di denudamento e d’intensificazione. Il culmine di questo processo si realizzerà con Le qualità, che è senz’altro una delle prove più alte nell’itinerario dell’autore. Nelle Qualità dominano componimenti brevi, per lo più di una o due strofe, che molto raramente superano la dozzina di versi. Salvo nella serie iniziale, che costituisce un prologo, in tutti gli altri testi delle quattro sezioni l’attacco del primo verso è costituito dal medesimo sintagma: “il corpo”. Il corpo è divenuto il soggetto dei nitidissimi scorci, di cui è costituito il libro. Eccone un esempio:
il corpo si trova nella radice di un inizio ed è come un imbuto
a due bocche: una rivolta verso ciò che è stato e un’altra verso
ciò che non è ancora: l’inizio ha una memoria da smemorare
e ciò che il corpo impara è pari a ciò che riesce a dimenticare
così ogni nuova acquisizione è lo sbiadirsi di un ricordo
l’interrompersi di un’abitudine di un riflesso di un tic
I testi delle Qualità sono dei cristalli compatti, in cui la vita è fotografata nel suo divenire incessante ed anonimo. Non vi è pretesa qui di tirare i fili narrativi, di inserire lo scorrere molecolare del corpo-mondo dentro un ritaglio biografico o storico. Si tratta semmai di cogliere i soprassalti attraverso i quali un senso si profila, prima di disfarsi nuovamente: è un gioco a somma zero, dove ciò che conta non è il sedimento che costituisce la personalità, ma la circolazione costante dei diversi elementi che compongono i fondamenti dell’essere umano, che sono materiali e prossimi, radicati nella quotidianità più opaca e ripetitiva. Questa aderenza della scrittura alla corporeità, alla concretezza del vivere, costituisce un approdo raggiunto dopo l’itinerario arduo e prolungato di cui Lavoro da fare dà testimonianza.
In Lavoro da fare, infatti, la lotta avviene contro e attraverso la mente. Lo sforzo di riduzione del diaframma tra sé e il mondo, tra la scrittura e la vita, incontra come proprio ultimo e più tenace ostacolo la propria psiche, intesa come ciò che, nella nostra sfera più intima, alla radice dell’identità personale, è un nodo di antichi condizionamenti: famigliari, sociali, storici, culturali. Sono innumerevoli i passi dove, come San Giorgio contro il drago, l’autore combatte contro la propria mente:
(…)
ci vuole dire abbiamo fin qui
abitato la nostra mente in un modo
che ora ci uccide, ci dice: è necessità
sgombrare la mente ché quel che appariva
amico fin qui si è rivelato terribile
nemico che oggi sappiamo finalmente
cosa sono le afflizioni
della mente
(…)
La storia dei diversi libri di poesia di Cepollaro potrebbe essere riassunta attraverso un titolo: l’impossibile concretezza. (Si legga qui il contrario di un’attitudine epicurea. In Cepollaro prevale un’ossessione di tipo filosofico di più radicale portata: il concreto non è semplicemente la superficie, ma l’armatura profonda del mondo, l’ossatura elementare, laddove i fondamenti ultimi si confondono con il nulla.) Nel concreto è il presente che si manifesta, così come il corpo sensibile. Il concreto è il sogno, l’utopia dell’immediatezza. Il marxismo ha insegnato a Cepollaro che l’immediatezza, nel mondo capitalistico, è menzogna. Che la realtà delle cose è accessibile solo attraverso una mediazione teorica. Ecco allora il diaframma interpretativo del marxismo come garanzia di una recuperabile concretezza.
Ma il diaframma non solo accompagna, ma chiude: la cura si trasforma in male. O forse, più precisamente, non è sufficiente a chi è confrontato quotidianamente con i propri limiti, le proprie angosce, i conflitti ordinari eppure feroci che minacciano la serenità anche di un cittadino delle prospere e pacifiche democrazie occidentali. Nel frattempo, però, la lingua di Jacopone è una promessa di massima concretezza: la concretezza del mistico. Colui che ha fatto esplodere i diaframmi dell’impalcatura ideologica, per andare all’esperienza di Dio, muta e immediata, nella “carne del mondo”. La conversione, esperienza cruciale di Versi nuovi, segna il ritrovamento dell’immediatezza, del concreto? Insomma, il ridimensionamento radicale del diaframma interpretativo marxista segna una semplice “regressione” ad una fase pre–teorica ed ingenua? No. Le esperienze di meditazione buddista e la pratica del Tai–chi–chuan sembrano offrire all’autore, da un lato, una possibile conciliazione sempre sognata con “il concreto”, dall’altro la differiscono indefinitamente, in virtù di un percorso estremamente arduo e lento. Eccoci dunque al paradosso delle raccolte “dopo la conversione”: esse, avendo ricercato una postura “post–teorica” (rispetto al marxismo) e ricollocando lo sguardo del poeta nella massima prossimità, quasi cieca, del concreto, si trovano costantemente a combattere con la “mente”, in tutte le sue dimensioni di astrazione, mistificazione, deformazione. E una delle parole–chiave di Lavoro da fare è appunto “mente”, con tutti i suoi sinonimi: “cervello”, “intelletto”, “testa”, “pensiero”, ecc. Di conseguenza, uno dei principali leit–motiv è quello della “liberazione dalla mente”.
Il tema più convincente di queste poesie, in definitiva, non è tanto quel “concreto” che ancora pare inattingibile, ed impossibile, nonostante sia costantemente invocato. Forse il tema vero sono proprio le “afflizioni della mente”, ma anche i “sollievi della mente”, quegli sprazzi di pace e di concentrazione, di visione tersa e chiaroveggente che emergono in tutto il libro. Il luogo comune dell’ultima poesia di Cepollaro è ancora la “cattura nella mente”, e la povertà esistenziale di questa condizione che ci riguarda tutti. Non dunque un resoconto di saggezza, più o meno prossima, forniscono questi versi. Essa riguarda semmai l’autore, il suo percorso al di fuori dei versi. Ma nei versi, quello che veramente ci incanta e chiama, è questo dibattersi con noi stessi che conosciamo, questo dibattersi per la felicità e il presente, per l’amore dato e per il concreto vissuto. Con anche imprevedibili doni, a volte.
In tutto questo, però, le ampie determinazioni collettive non svaniscono. Entrano anch’esse nei giorni e nella loro ristrettezza: ma lo sguardo non se ne lascia ipnotizzare, e l’autore non è più risucchiato nella posa giudicante e disperata, che emergeva in certe figurazioni distopiche di Fabrica. I dibattimenti della mente hanno creato spazio per germinazioni e speranze. Hanno disciolto in parte ogni tentazione di pietrificare il mondo. E malgrado il perdurare delle circostanze di dominio e falsificazione, uno spazio ipoteticamente comune esiste per mostrare le inezie, il farsi e disfarsi della vita individuale. In questo spazio – la poesia –, che è un’ipotesi di comunicazione, non una certezza tecnica di essa, mostra quanto al dominio e alla falsificazione sfugge: qualcosa che non è percepito come un tesoro, ma può esserlo per chi si è esercitato a metterlo a fuoco e ad accoglierlo.
e insomma ora che fare? la scomparsa
dei racconti del mondo in una dittatura
mondiale ci lascia l’uso
solo di una parola
lunga come dura la nostra vita: sarebbe
altrimenti restata sullo sfondo ma ora
è l’unica da svolgere così come di un giorno
si racconta dall’alba
alla notte il farsi
e il disfarsi
di inezie
(…)
(2013)