Burger Queen
di Elisa Sabatinelli
La prima volta che ti ho mollato è stata per andare al Burger King.
Salotto, tardo pomeriggio di fine luglio, finestre e persiane chiuse, ventilatore acceso.
Un silenzio dolce e pacifico invade la casa: è quello della tua vita appena nata e della giornata accaldata che giunge al termine quando le biciclette rientrano dal mare.
Siamo nel salotto dei miei genitori, io seduta sul divano, tu nella carrozzina al centro della stanza e tutto intorno, a corolla, volti di famigliari in estasi.
Una composizione perfetta, una geometria dalle proporzioni accurate a cui io faccio fatica a unirmi perché dentro il mio corpo nuovo c’è un gran disordine, un’euforia fuori controllo, una bomba a orologeria già esplosa tre giorni prima e pronta a esplodere ancora, sotto altre forme.
Pensieri e sentimenti si accatastano uno sopra l’altro, tante idee per così poco spazio, una felicità che non riconosco, non so da dove venga ma soprattutto non ne vedo la fine. Sono schizzata verso l’iperspazio, ho fatto una bambina e voglio rifare il mondo. Subito e tutto.
Non so da dove iniziare ma sul calar del sole mi viene un’idea.
Sì, inizierò da quella per poi stravolgere il resto.
“Rimanete a cena tutti qui! Vado a prendere da mangiare al Burger King!”
Lui dice: “Tu sei pazza, non mi sembra una buona idea”.
“Come no? Proviamolo, ha aperto ieri, è il primo qui in città.”
“Appunto, sarà pieno di gente.”
“Ma chi vuoi che ci sia, non lo sa ancora nessuno.”
Queste sono le mie ultime parole mentre prendo dal cassetto della scrivania quaderno e penna per segnarmi le ordinazioni. Non sto pensando, non ho ponderato niente, mi va di farlo e basta. Potrei anche saltare alla corda, iscrivermi a un corso di lingua tedesca, decidere di tagliarmi i capelli, qualsiasi cosa, purché sia a caso e senza motivo. Non riesco a fermare il cervello, lui va e io gli corro dietro. Alla fine mi assecondano e ci portiamo dietro sua nipote di undici anni che pare l’unica infervorata quanto me a prendere parte a questa rivoluzione senza causa.
Non ricordo le reazioni delle altre persone, in quel momento non me ne importa, non vedo né sento niente, sono proiettata sul futuro e sono convinta di aver partorito non solo una figlia magnifica ma anche un’idea altrettanto eccezionale. Nessuno mi può fermare.
Hamburger, doppi hamburger, cheeseburger, baconburger, uno senza cetriolo, l’altro con maionese, bibite e gelati.
Un bacio fugace sulla punta del tuo naso in divenire e stretti nel pugno i 50€ per la gloria.
Dentro la macchina il caldo viziato delle lamiere parcheggiate al sole. Il cruscotto nero bollente. Sopra il cofano si aggira un pugno di moscerini. Mi siedo sulla stoffa di cotone duro, impregnata di afa e mentre lui accende la macchina e ci allontaniamo da casa, dentro di me c’è un ribaltamento improvviso e inaspettato. La cintura mi stringe il petto e sento che il cuore si chiude in una morsa, quanto basta per sentire una specie di risucchio all’indietro, un ripensamento che è paura di qualcosa che non so cos’è né perché è qui ora a stringermi il petto insieme alla cintura.
I moscerini scompaiono e dal finestrino sfilano case, poi campi e io cerco di dare forma a questo mio disagio improvviso, lo cerco tra il grano giallo, mi dico che sono i sedili troppo caldi, mi racconto che è la stretta della cintura sulla pancia da poco svuotata e ancora indolenzita. È la stessa sensazione di quando lascio il portafoglio a casa, quell’istante che è un luccichio in mezzo al buio, ma poi guardo il pugno socchiuso da cui spunta la banconota arancione accartocciata. Non sono i soldi, non sono gli altri, forse sono io. Muovo le dita dei piedi e penso che potevo mettermi lo smalto, mi guardo nello specchietto e penso che avrei potuto pettinarmi, truccarmi, vestirmi diversamente. Qualcosa non va. La pancia è in subbuglio, ho ingoiato un sasso che non riesco a sputare. Voglio sapere che ore sono, da quanto tempo manco da casa, ma non ho preso nient’altro che la banconota: ho dimenticato il cellulare.
Accendo la radio per distrarmi e chiedo a lui che ore sono, mi guarda stupito: saranno passati cinque minuti e poi da quando il tempo è importante per me? Sua nipote giocherella con una bottiglia dell’acqua vuota, fa finta che sia un pianoforte e schiaccia le dita sulla plastica creando quel rumore fastidioso di fine pasto.
L’ultima curva e arriviamo davanti alla scritta rossa e gialla del Burger King. Lei esulta e si sporge in avanti per vedere bene com’è fatto questo posto strepitoso dove ti regalano un gioco quando compri un panino. Io invece mi inchiodo al sedile in un moto di spavento quando vedo il parcheggio pieno, i tavoli all’esterno pieni, il locale affollato, ci sono file e gruppi di persone ovunque.
“Forse è meglio se torniamo.” Le parole mi cadono di bocca senza riuscire a trattenerle. Lui e la nipote non mi ascoltano o forse non mi sentono perché lei continua ad affondare le dita nella plastica e la musica è alta e le urla della gente sono fuori che ci aspettano.
Quando apro la portiera la testa gira fortissimo, mi manca l’aria anche se qua intorno c’è, e il cuore continua a stringersi anche senza cintura di sicurezza che lo tenga legato. Entrando nel locale mi sento in difetto, sbagliata, fuori posto, fuori tempo massimo. Non riconosco l’origine di questo malessere, non mi sono mai sentita così, eppure ha già qualcosa di famigliare, un odore di bruciato, un’eco primitiva che mi collega a te, che anche senza sapere, so.
Se partorendo avevo scavalcato un limite che mi sembrava impossibile, un limite informe, vago, dove dolore e vita si fondono in una pozione micidiale e quando mi era sembrato di cadere da una rupe mi sono ritrovata, in un giro di boa magico, appesa sulla cima della montagna, varcando la soglia del Burger King mi accorgo che i miei limiti hanno invece confini chiari, esatti e matematici perché li misuro con la distanza e il tempo, 2 chilometri e 10 minuti, non di più.
Diventando forte sono diventata poi debole, perché io ora qui a ordinare un hamburger senza di te non ci so stare.
Mentre la nipote si è infilata una cannuccia in bocca e ci soffia gentilmente in faccia per rinfrescarci, nella mia testa si susseguono immagini apocalittiche di te che piangi dalla fame e non ci sono tette a saziarti, nessuna tetta è quella giusta per te, neanche quelle enormi di mia zia, perché tu hai bisogno di me, e d’improvviso mi scopro madre, non più figlia, con un senso di responsabilità che mi travalica, mi soffoca e mi rende pazza.
In coda chiedo di andarcene, di tornare a casa, non posso rimanere qui, si è fatto tardi.
“Ma ormai siamo qui, dobbiamo ordinare, stanno aspettando la cena.”
Mi agito, cammino avanti e indietro, penso che ti troverò denutrita.
Allora decido di scriverti una lettera, chiedo una tastiera alla ragazza che sta dietro al bancone, inizio a battere e il testo appare nei tabelloni al posto dei menù.
Sì, confesso di aver messo un hamburger prima di te. Di aver sottovalutato la tua grandezza e il tuo dominio. Di sentirmi impreparata e insufficiente. Dopo il parto, il medico dell’ospedale, lui in camice bianco, io in vestaglia, mi ha fatto un indovinello, mi ha chiesto che cosa ti avrei dato se avessi avuto fame, ci ho pensato un po’ perché sinceramente mi sembrava una domanda a trabocchetto di quelle che rispondi e sbagli sicuro come la capitale della Bolivia, allora ho pensato ai tuoi gusti che non sapevo, alle tue allergie, che non conoscevo, e mi è stato chiaro per la prima volta che il nostro era un appuntamento al buio, che ci saremmo conosciute e, spero, capite con il tempo. Ora di tempo non ne è passato tanto e non so se queste patatine fritte che sfrigolano qua dietro potrebbero piacerti – spero di sì un giorno per mangiarle insieme con tanta maionese – per ora so solo che quando ho risposto “del latte” il medico mi ha risposto e se finisce? Io ho detto Lo compro in farmacia e se anche la farmacia è chiusa? E noi siamo chiusi? E il mondo è chiuso? Non sapevo la risposta ma se necessario ne sarei partita alla ricerca in terre sconosciute, ostili, dimenticate da Dio, avrei scavato nella roccia per trovare il latte bianco come la spuma del mare. Per te. Perché quando sei nata io sono rinata, mi hai dato un nuovo nome e una nuova condizione che difenderò con la cappa e con la spada e se ora tra queste persone ci fosse il medico con la domanda diabolica io gli risponderei che se il latte è finito ti porterei degli hamburger, di tutti i gusti e di tutti i colori, così da scegliere insieme quello che ti piace di più.
Devo essere sincera, io non ti conosco, non so chi sei, non so perché ora mi sento così in difetto nell’averti lasciata a casa per dei panini, però ti perdono tutto, da adesso in avanti, ti perdono – uno su tutti – l’avermi fatta madre e tutto il resto scende a grappolo. La tua presenza è così magnetica che condizionerà le mie scelte, i tragitti, i viaggi, le distanze, sei il punto fisso che non ho mai avuto, l’asse centrale da cui si diramano le mie tangenziali.
Sei il mio limite meraviglioso ma allo stesso tempo prometto di non diventarlo mai per te.
Mi stacco dalla tastiera, le persone in coda prima di noi ci fanno passare, capiscono che sto scoprendo solo ora, dentro il Burger King, il dramma e lo stupore di essere madre.
Ci avviciniamo alla cassa, ordiniamo i panini e una volta presi i sacchetti fumanti schizziamo via, io cammino con la mia schiena rotta che mi fa essere zoppicante.
L’ansia crescente non mi abbandona neanche quando saliamo in macchina dove butto i sacchetti nel bagagliaio spappolandoli in una poltiglia informe. Urlo di partire con un grido da tifoso e il braccio in avanti per enfatizzare la direzione. Mentre lui guida verso la meta, sicuro e ruspante, io non resisto e gli chiedo il cellulare, devo avvisare che sto arrivando, compongo il numero schiacciando i tasti velocissima come se fossero degli insetti pericolosi da uccidere: ascolto il bip dall’altra parte, una goccia che cade sorda in mezzo al mare, una dopo l’altra senza risposta, ogni bip una tacca del mio cuore in accelerazione. Non mi arrendo fino all’ultimo bip quando cade la linea e prendo coscienza nuovamente di essere sconnessa da te. La nipote ha smesso di suonare il pianoforte, è immobile. L’aria dentro la macchina è pesante, è fitta di emozioni che non lasciano respiro, da qualsiasi parte ti muovi c’è un sentimento che ti schiaffeggia forte.
L’ultimo pezzo di strada è un tramo astratto, un rettilineo grigiastro, c’è una polvere luminosa quasi di stelle cadenti nell’aria fuori dai finestrini mentre il mio cuore sale e batte, e quando vedo la casa là in fondo apparire mi slaccio la cintura, stringo la maniglia della porta e la tiro appena pronta ad aprirla. Quando arriviamo davanti al cancello dico “fermo, fermo, fammi scendere” e non fa in tempo a inchiodare la macchina che io ho già aperto la porta, scavalco il cancello con un solo balzo come un’atleta olimpionica dimenticandomi della schiena a pezzi, le cicatrici, le ferite, le fasce deboli, le tette piene – madre coraggio, è stato detto – ci sono le chiavi sulla porta di casa, spalanco, mi fiondo correndo in salotto coi capelli scomposti, le guance rosse, la fronte sudaticcia e il cuore rattrappito. Ti cerco con gli occhi e ti vedo dormire nella carrozzina, uguale a prima. Mi avvicino chinandomi sulla culla per sentire il tuo respiro dolce. Mia suocera mi chiede se sto bene. Io ho una faccia da paonazza, li guardo uno a uno, spiritata e agitata, senza fiato, poi entra lui con i sacchetti in mano e io scoppio a piangere fortissimo, allora ti svegli e anche tu piangi e gli altri mi abbracciano e qualche donna bisbiglia “è normale” mentre lui sentenzia: “L’avevo detto che non era una buona idea andare al Burger King”.
Dopo la cena quando tutti se ne vanno, rimango finalmente sola con te. Le finestre del salotto sono aperte ed entra la notte e un po’ di fresco. Potrei stendermi qui sul divano, mi hanno consigliato di dormire quando tu dormi ma io non dormo perché penso “e se poi non ti sento”. Mi limito a vegliare su di te, ad aspettare che faccia giorno per portarti un po’ di sole, per posarti qualche raggio sulla tua pelle bianca e morbida come petali di margherita. A chiedermi quando sboccerai, come sarai.
Poi un giorno mi diranno che l’euforia non era altro che il risultato delle endorfine pompate durante il parto e il pianto isterico che mi sono fatta tra la folla di parenti ha un nome simpatico e romantico che si chiama baby-blues.
Intanto mi alzo e cammino nella casa silenziosa fino alla cucina dove sul tavolo è rimasto un sacchetto marrone, infilo la mano dentro in cerca di qualche patatina molliccia ma pesco invece una corona di cartone rossa e gialla, me la rigiro tra le mani, la monto per bene, tonda e leggera. Poi mi incammino verso la culla e te la poso sulla testa, oh regina del mio cuore.
Racconto ben calibrato e gradevole, scritto con viscerale onestà e lucidità.
Curioso l’utilizzo (isolato e inatteso) del termine spagnolo “tramo”.