Piero Melati – Giorni di mafia. Dal 1950 a oggi: quando, chi, come.
Estratto dal nuovo libro di Piero Melati
5 luglio 1950
La morte del bandito Giuliano
La notte tra il 4 e il 5 luglio del 1950 il cadavere di Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, fu esibito alla stampa «giacente per terra e crivellato di colpi» nel cortile di una casa di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Era ritenuto il responsabile della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) in cui morirono undici persone (nove adulti e due bambini) e altre ventisette rimasero ferite (tre non sopravvissero). I lavoratori, in gran parte contadini, si erano riuniti in una gola di montagna tra i paesini di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello per festeggiare la vittoria alle recenti elezioni regionali del Blocco del Popolo, sotto il simbolo «Torna Garibaldi». Furono falciati a colpi di mitra.
Fu la prima strage dell’Italia repubblicana. «Di sicuro c’è solo che è morto», scrisse sull’«Europeo» il giornalista Tommaso Besozzi in una inchiesta che smentiva la ricostruzione ufficiale, secondo cui Giuliano era stato ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri. «Quel segreto è un buco nero della nostra storia, che ha autorizzato e legittimato altri segreti, altri buchi neri, facendo dell’Italia un paese dai molti buchi neri», ha scritto lo storico siciliano Francesco Renda.
Eppure, il bandito di Montelepre è il personaggio più biografato della Repubblica: gli sono stati anche dedicati 5 film e 3 musical. Quando, nel 1961, il regista Francesco Rosi realizzò l’opera cinematografica più famosa, ben 14 libri avevano preceduto la pellicola. Poi ne sono seguiti altri 37. Senza dimenticare le 15 edizioni discografiche, molte delle quali simili ai moderni corridos messicani dedicati alle gesta dei narcotrafficanti.
Storie, leggende, cronache, canzoni: eppure ancora oggi il caso Giuliano è un mistero. Non ne sappiamo più di quanto apprese, quel 5 luglio del ’50, lo scrittore americano Truman Capote. Capote era appena arrivato a Taormina, dove in una casa senza luce né acqua avrebbe scritto il suo secondo romanzo, L’arpa d’erba. Nel 1966 avrebbe poi pubblicato il suo libro più famoso, A sangue freddo, sul massacro di una famiglia nel paesino di Holcomb, in Kansas, un testo che ridusse per sempre la distanza tra letteratura e giornalismo.
Scrisse Capote: «Un pomeriggio ero appena arrivato in città quando incominciò a piovere. Non vidi anima viva finché arrivai dal tabaccaio. Si era raccolta una vera folla dove i giornali, con i titoli a caratteri cubitali, svolazzavano nella pioggia. Ragazzetti a capo scoperto se ne stavano immobili senza badare all’acqua, con le teste accostate, mentre un ragazzo un poco più grande, il dito puntato all’enorme fotografia di un uomo accasciato in un lago di sangue, leggeva ad alta voce: Giuliano è morto, ucciso a Castedduvitranu. Triste, triste, una vergogna, un peccato, dicevano i vecchi; i giovani non dicevano niente, ma due ragazze entrarono nel negozio, e quando uscirono avevano in mano copie della «Sicilia», un giornale con tutta la prima pagina presa da una gigantesca fotografia del bandito ucciso. Proteggendo i loro giornali dalla pioggia, le ragazze si allontanarono di corsa, tenendosi per mano, scivolando sulla strada lucente».
Di sicuro, allora come oggi, c’è solo che Giuliano era morto. Ucciso, magari, a sangue freddo. Dalla mafia.
Piero Melati, palermitano, per molti anni viceredattore capo de “Il Venerdì di Repubblica”, si occupa di attualità e cultura. Ha seguito per il giornale “L’Ora” di Palermo la guerra di mafia e il primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Con “la Repubblica” ha aperto le redazioni locali di Napoli e Palermo ed è stato viceredattore capo della cronaca di Roma.