Considerazioni estive su letteratura e contemporaneità
di Giorgio Mascitelli
Le stagionali polemiche sul premio Strega hanno il merito, aldilà dei contenuti specifici delle stesse, di porre implicitamente una domanda su ciò che è contemporaneo in letteratura. Da un lato sembrerebbe proprio che premi di questo genere, che di solito uniscono al giudizio di giurie competenti delle ricadute importanti in termini di successo di pubblico, siano gli strumenti più adatti per rispondere a quell’interrogativo. Poco importa per il presente discorso se le accuse spesso rivolte al premio Strega di premiare non i testi realmente meritevoli ma quelli promossi dalle grandi case editrici siano fondate o meno, non sto qui prendendo in considerazione la letteratura alla luce dei valori letterari o estetici, ma la letteratura in quanto fenomeno della contemporaneità: il fatto che i testi vincitori spesso abbiano anche un notevole successo commerciale significa in qualche misura che essi giustificano la loro vittoria se non da un punto di vista letterario, almeno sociologico. Del resto è verosimile che un storico del futuro, se volesse tracciare un ritratto dello spirito o quanto meno della mentalità del nostro tempo e agire in maniera metodologicamente rigorosa, userebbe come fonti i libri premiati o più direttamente quelli in testa alle classifiche di vendita. Allo stesso modo potrebbero dirci di più, per esempio, sugli anni Venti Guido da Verona o Salvator Gotta rispetto a Svevo o Pirandello.
E’ innegabile che, in un certo senso, è perfettamente contemporanea solo un’opera che trionfa nel proprio tempo perché va incontro alle aspettative di esso in maniera immediata e diretta. Se questo vale per epoche passate in cui la letteratura era un fenomeno essenzialmente elitario, a maggior ragione vale per il presente, uno dei tratti caratteristici del quale è la diffusione di un’estetica del profitto ossia della convinzione diffusa che il valore estetico di un’opera dipenda dal suo successo commerciale ( vorrei chiarire che questa espressione, per quanto qualcuno la possa trovare un po’ brutale, non ha una valenza ironica, ma si limita a descrivere magari senza troppi fronzoli un’idea oggi molto seguita) perché proprio l’avere successo rappresenta uno dei valori fondamentali del nostro tempo.
Eppure questa concezione della contemporaneità nella sua apparente naturalezza quasi alle soglie dell’ovvietà presenta degli elementi di crisi. Infatti essa veicola con sé, direi con la medesima ovvietà con la quale si impone ai nostri occhi, l’idea che la contemporaneità coincida con ciò che essa stessa pensa di sé, ma siccome naturalmente contemporaneità è una parola astratta e non è un soggetto pensante, si potrebbe concretizzare questo concetto indicando in coloro che aderiscono ai valori dominanti in quest’epoca il suo referente. Si tratta insomma di una concezione della contemporaneità che tende a farla coincidere con l’ideologia prevalente, che qui non intendo tanto nella sua più comune accezione politico-filosofica quanto come sistema di valori in senso lato. A sua volta questa idea della contemporaneità presuppone un presente assoluto, e dunque senza possibilità alternative, come realizzazione pura e semplice di ciò che doveva essere. In altri termini si tratta di un’idea del contemporaneo che tende a eliminare da sé qualsiasi germe di futuro e qualsiasi traccia di passato (un futuro che può sussistere nell’attuale solo in quanto promessa di alterità e un passato che può parlare al presente solo nella misura in cui non ne è la premessa, ma illumina invece una discontinuità o una frattura). Una letteratura che per essere pienamente contemporanea rinunciasse a dialogare con queste due dimensioni finirebbe con il favorire due errori opposti: l’uno quello classicamente classicistico di ritenere che la letteratura debba trascurare il presente, regno del transitorio, per occuparsi solo delle cose eterne, qualunque cosa ciò voglia dire, l’altro di considerare letteratura solo in quanto conferma di quello che c’è qui e ora sotto i nostri occhi.
Il contemporaneo è però qualcosa di più articolato e complesso di quanto il senso comune ci faccia credere: se prendiamo questa definizione di Giorgio Agamben “la contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo” ( Giorgio Agamben Che cos’è il contemporaneo? Roma 2008, p.9), si può vedere come il contemporaneo contenga un elemento di estraneità al presente che è essenziale per evitare uno schiacciamento acritico su di esso. Come mette in luce lo stesso filosofo, in questa prospettiva l’idea di contemporaneità viene a coincidere in larga parte con quella nietzscheana di inattualità. Si potrebbe aggiungere che la letteratura ha connaturata una potenziale inattualità in quanto la scrittura letteraria contiene in sé una forma di anacronismo, anche quando si presenta nei modi dell’innovazione più decisa, nel suo essere un discorso che si riallaccia ad altri discorsi precedenti tramite le convenzioni che regolano l’appartenenza al campo letterario.
C’è un elemento più radicale da citare ancora ed è il fatto che il discorso letterario contemporaneo esiste solo all’interno di quella presa di distanza dal proprio tempo di cui parla Agamben. Non si tratta soltanto di una distanza critica, di una non condivisione dell’andazzo delle cose, ma è anche un modo di osservare il presente e i suoi fenomeni e le sue idee con uno sguardo gravido di passato e di futuro. E’ per questo che spesso testi intimistici alle soglie del solipsistico o fantastici o visionari sono stati più contemporanei del proprio tempo di opere realistiche che intendevano creare grandi affreschi compiutamente descrittivi. Potrà sorprendere che in un pensatore come Adorno, dai gusti letterari decisamente antirealistici, si possa incontrare l’affermazione che si perde inevitabilmente qualcosa a non leggere un’opera nel momento storico in cui è stata scritta. E’ possibile leggere questo avvertimento non come lo scrupolo del filologo che cerca la precisa genesi storica del testo, ma in nome di una storicità negativa, per così dire, che riflette sulle distanze che il testo prende dal proprio tempo.
Purtroppo, da questo stato di cose ne segue che la letteratura è sempre altrove rispetto alle nostre attese e in un altrove che non può essere indicato a chiare lettere ai bene intenzionati che ne domandassero l’esatta localizzazione. Per tutti noi allora è più facile continuare a leggere sulla nostra comodissima poltrona ( la nostra poltrona mentale, intendo) anziché metterci in contatto con questo altrove, anche perché mettersi in viaggio per un luogo che non si sa è una cosa che funziona bene solo nelle pubblicità delle agenzie di viaggio e quindi non ci resta che attendere che fortuitamente questo altrove arrivi fino alle nostre poltrone. Queste considerazioni, però, non devono indurre in stati d’animo apocalittici, innanzi tutto perché sono considerazioni estive strappate alla canicola e di questa trattengono una sfumatura oziosa e poi perché esse portano in realtà sollievo consentondoci di guardare con maggiore rilassatezza alle attività dei premi letterari e degli uffici stampa della grande editoria.
“ 22 gennaio 1989 – Si può affermare che: la letteratura è il partito preso di ciò che non c’è in quanto non c’è ma c’è o più semplicemente di ciò che c’è in quanto non c’è. E perché non c’è? Può esserci stato e non esserci più (la memoria il tempo). Può non poterci essere secondo il comune senso del reale (il fantastico il fiabesco il fantascientifico). Può non essere visibile o comunemente veduto (l’infinitamente piccolo l’insignificante il disprezzato lo svalutato lo psicologico l’interiore) (o anche il vietato il censurato il rimosso). E perché c’è? Perché lo dice la letteratura perché la letteratura lo dice. La letteratura è la letteratura è la letteratura è la letteratura? Certo: per la letteratura niente c’è in quanto tale ovvero tutto non c’è ma c’è se letteratura se scritto se detto. E solo in quel caso c’è attinge un esserci degno di questo nome. “.