Post in translation: Thomas Bernhard
Da In hora mortis di Thomas Bernhard
traduzione di Luigi Reitani
*
Inquietudine è tra le erbe
le capanne sono colte da inquietudine
la campana mi percuote Signore
mio Dio
sono selvagge le colombe
inquieta anche la luna
e la sua falce che affonda nella mia carne
Signore anche la stella è inquieta
e l’orlo dei ruscelli
che non fuggono la neve
mio Dio anche l’albero e il pesce
sono colti da inquietudine.
*
Alla destra siede il Demonio
Signore che mi distrugge le membra
e mi riempie il cervello
di pietra e erba e affanno
di lunghi inverni
Signore
nella carne che a Te grida
nella polvere voglio cercarTi
Signore giudicami
son pronto da tempo
lacerami mio Dio
e non mi lasciare solo
non trovo riposo nel letto
non mi prende il sonno
Signore
annientami
non mi lasciare più solo
non ora
in quest’ora
non nel declino della luna
e non mio Dio
nell’ora estrema.
*
Perché temo il mio invecchiare
la mia morte che mi assale
il grido?
Me temo Signore
temo la mia anima
e il giorno che mi sorregge al muro
e mi dilania
Signore
me temo
temo già la notte
che sta dinanzi ai villaggi
e dietro la casa
che nelle mucche strepita
e danza con le stelle
Dio me temo
al Tuo cospetto
al cospetto della mestizia
che mi lacera la bocca
temo Signore
la mia tomba
e il mio destino nell’oscurità
la morte Signore.
*
Domani Signore sarò da Te
e lontano dal mondo
che di me non ha bisogno
e che non semina il mio chicco
e non il mio dolore
che mi ha ingannato
Signore
che ora mi lava
per paura
la mia primavera cresce
da questo inverno
Signore
il papavero stilla a me da brocche
nero
che da tempo sono cenere.
*
Gli uccelli ahimè gli uccelli
nera la notte
il mio sangue
Signore
strazio per me
di tutti gli uccelli
grido che giallo
brucio la lingua
strazio
ah nel sangue
i coltelli Dio
bevo la mia carne
i coltelli
morto è da tempo
il mio rosso
il mio verde
il mio pungiglione punge
strazio
ahimè
strazio
ahimè
strazio
ahimè
ahimè
ahimè
mio
Ahimè.
Nota di Alida Airaghi
Chi ama Thomas Bernhard non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo volume, appena riproposto in una raffinata edizione da SE, con ricche note biografiche e bibliografiche, un’interessante appendice iconografica di foto che ritraggono l’autore dall’infanzia alla maturità, e soprattutto con un’esaustiva e appassionata postfazione del germanista Luigi Reitani, a cui si deve anche la nuova traduzione.
In hora mortis, è un breve poema diviso in quattro sezioni, in cui l’ateo Thomas Bernhard affronta, con la consueta rabbiosa e angosciata inquietudine, l’Assoluto, che chiama filialmente e in maniera ossessivamente ripetuta “Signore” (Herr), aggrappandosi allo scampo di una millenaria tradizione religiosa.
Scritto nel 1958, fa parte della produzione poetica giovanile di Bernhard, poco considerata dalla critica, e solo recentemente rivalutata come fase preliminare e introduttiva alla sua più considerevole attività letteraria in prosa. In quegli stessi anni, il genio saliburghese (nato nel 1931 in Olanda, frutto di una relazione illegittima, dal cui stigma si sentì marchiato per tutta la vita) scrisse altri tre volumi di versi, recentemente pubblicati in Italia da Crocetti e Guanda, che evidenziano sia il suo rapporto conflittuale con la famiglia e l’asfittico ambiente culturale austriaco, sia l’intenso desiderio di recuperare un’avvolgente intimità con la natura, terragna e cosmica.
Quest’ultimo aspetto è presente anche nelle poesie di In hora mortis, in cui la campagna (la terra, le stalle, gli animali, i contadini) offre un suo humus di antico simbolismo sacrale – fatto di giaculatorie e riti scaramantici, più vicini alla superstizione che alla fede -, e il cielo rimane immobile e inavvicinabile, specchio di indifferenza e gelo:
«Selvaggio cresce il fiore della mia ira / e tutti vedono la spina / che nel cielo affonda / stillando sangue dal mio sole / cresce il fiore della mia amarezza / da quest’erba / che i miei piedi lava», «un merlo che non canta / e la mia scrittura nel cielo / straniera alle erbe / Signore mi tormenta la stella», «Signore che mi lasci inginocchiare su neve e ghiaccio / per una preghiera / e la grazia di un cielo lontano», «Signore la mia preghiera crea dalla notte e dal timore / il sole / e la luna», «Signore / che non vuoi la mia preghiera / e divori la mia supplica / sul dorso di stanche stelle / di floridi campi / di tetri cortili / che erigi la mia tomba / che mi uccidi con una scure».
Come risulta evidente dai versi sopra riportati, potentissima è l’eco profetica veterotestamentaria di Isaia, Geremia e dei Salmi (cfr. Sal 10. 17. 87. 129), nella loro implorante richiesta di aiuto, nella loro violenza vendicativa e nella spirale opprimente di colpa-penitenza-redenzione. Ma si avvertono pure risonanze dalle litanie medievali, dalla letteratura pietistica del 1600-1700, fino alle eredità espressionistiche di molti autori di lingua tedesca (Benn, Trakl, Bachmann, Celan), giustamente sottolineate dal curatore del volume Luigi Reitani.
Il tema della morte, che campeggia già nel titolo, è predominante in ogni sezione. Cadenzato da pause di silenzio, da gridi penetranti e da una tenebrosa musicalità da requiem, esso si rifà alla tradizione degli “Sterbebüchlein”, trattatelli religiosi che insegnavano ai fedeli l’ars moriendi, esortandoli alla meditazione interiore prima dell’incontro supremo con Dio.
Ma qui l’assalto al cielo di Bernhard non ha nulla di docile e rassegnato, piuttosto assume i toni di una sfida irosa, esibendo un disperato bisogno di consolazione, l’ansiosa ricerca di una risposta, e insieme il blasfemo rifiuto di ogni acquiescente devozionismo: c’è insomma in queste poesie giovanili già tutto il grande narratore che conosciamo e amiamo di più, la sua tormentata angoscia, il suo urlo di ribellione contro un destino ostile, contro un Deus absconditus e silenzioso da cui si sente tradito e condannato.
Bernhard mi è stato vicino in un altrove che mi ricorda la seconda poesia qui riportata. Perciò grazie effeffe per la pubblicazione e al commento/suggerimento di lettura di Aida Airaghi. Non conoscevo il Bernhard in versi.
…e insieme di ogni acquiescente devozionismo…
Come un Uomo e non una pecora.
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