Interférences # 16 / Jean-Patrice Courtois: da “Imballaggi”
[Dal sito alfabeta2, rubrica Interférences : interventi di taglio e tema variabilissimi, ma accomunati da interazioni (anche inattuali) con fenomeni francofoni e francesi di società, arti e scritture.]
Traduzione di Gabriele Stera
Nota di Andrea Inglese
Ogni sorta di cose fanno le cose che arrivano a una sorta d’esistenza. L’infinito si muove per l’opaco centrale, dove gli adulti, appena lo sono, e i bambini per primi si tuffano tutti vestiti formando insieme il menù del giorno. Vivono al centro d’innumerevoli dormizioni di firme accumulate senza repertorio che valga. Una poltrona sul mare potrebbe stare come una delle definizioni dell’occhio, a disposizione dei bagnanti conservatori o distruttori delle obliterazioni di materia pensante similmente percepite. L’ora che si è fatta, se ciò che è lo è davvero, non esiste però che tenendo a distanza ogni potenziale di descrizione adesso del mondo, se no scomparirebbe come l’ora che sarebbe in seno alla paura, dove sarebbe d’essere senza opposizione l’ora che è. Allora vedere per descrivere è senza perché. Allora generare parole annodate ad altre in immagini di cose deposte nel fondo dei legami tra loro per descrivere è senza perché. Ditelo se siamo tutti delle rose, bisognerà presto sapere se lo sopporteremo. Descriveremo senza finire che le cose hanno ancora acquisito delle forme.
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C’è descrizione nei nomi soltanto se c’è un movimento che porti l’oggetto al di là di ogni metafora, che non si esercita se non nell’atto dell’assalto vorace e discreto e unilateralmente. Di tanto grigio d’ore accumulate l’aleph anela. Senza descrizione d’insorgenze, il racconto si rompe e non può modificare la firma senza piega del «non ci sarà più». Gli obsoleti quando il loro momento arriva sono dei vinti, dicono gli integrati. Vediamo in essi dei vincitori inarticolati da consegnare all’adamantino e articolatorio desiderio della rigida descrizione. «Come» è manipolato da «come», risultati s’allontanano, oh i ritorni! Il discontinuo dove ieri si sono nascosti quelli che potranno nascondersi domani è a sua volta nascosto. Morto già per appartenere alle nicchie non scritte, cadavere attestato, sapremo divorarti! Sacche d’aria che fate respirare i già sepolti, sarete inerzia o utopia, ma per ora non avete nome. Già, sentite i sepolti futuri e i figli dei sepolti futuri. I licheni fanno nomi. Tutte le pietre sono incise di vecchi muschi. Ci spetta forse la rampa della prima lettera. Oppure la fuggiamo. Domande meno immergibili d’altre, siate per voi stesse il vostro stesso bagno! Bebè-cittadini, lattanti senza perché, alle vostre teste! Portatele, infine! L’effettività delle sedie autentificherà il piccolo paradiso come il grande transito.
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Luminosità sparsa, differita, rasoi passano e nel fondo passano sulle pance dei disoccupati in particolare e delle frasi particolari. I disoccupati che non appartengono più a nessuna frase e le frasi che vorremmo senza impiego si associano mutualmente e per statuto sotto il mantello. L’attuale inclinazione si accentua a velocità gran V, non sarà quindi determinabile a occhio nudo. Niente di decisivo neppure con l’algoritmo equipaggiato, ma conseguenze sotto casco integrale. Alleggerire, saltare linee, scontri, ancora scontri, anch’essi sparsi. La difficoltà di riunire e il terreno dove effettuare manovra restano dialetticamente il nutrimento principale. I lampeggiamenti sono differiti e se si tratta di nuvole, lo sapremo più tardi. Il futuro si presenta instancabilmente come un esercizio a buchi senza griglia di correzione e senza buchi. Allora cucire dove!? I buchi di domani non possono immaginarsi che come impossibile compito soprannumerario per l’imbecille attivo come per la farfalla caotica. Io sono entrambi e non canto le armi. Non canto, punto. Impegno a neutralizzare, per differenza di temperature. Avviciniamoci per parlare senza forzare né forzare il timore di forzare. Il volume sonoro nasconde il sesso del proposito che non ha proposito che non ha sesso. Cucire con frasi opponibili punto per punto. E finché posso dire una frase che ascolto, posso vedere le crepe che sono le frasi dei muri. Persino di notte dormendo non dormendo, frasi, non siete che traduzioni! Mie belle fedeli, frasi del sonno che traducete quelle di veglia, reciprocamente l’inverso ma non le stesse, mi siete care in tutto! In ogni congiunzione, parola vuota e utensile, lo siete, poiché sancisco che non esiste una grammatica minore.
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Le frasi sono strette pozze d’acqua debole, e lo sono senza cessare di emettere, se fare frase senza sosta pensiero è. Che da una pura accentuazione nella lingua consonante il non canto, possa apparire la deduzione delle strutture che fabbrica il rumore soltanto rumore, di questo riluce, persino nero, il discorso. Tempo qualunque che introduce una forma per dono del costante informale, tu sei un intervallo di frequentazione disponibile qualunque profondità producano gli orribili lavoratori che ti abitano. I gesti non fraterni al corpo immaginario, industrialmente e pubblicitariamente modellabile, verificano essere morbida dimensione di carne immaginabile aptata. Mentre Prosa e Prosodia, ordinate ciascuna nel proprio ordine al precisamente esatto della delicatezza urgente da percepire, feroce a volte, dileggiano come luogo di una lotta politica udibile e silenziosa. All’abbandono le frasi! – frasi da discarica certo! – fregarsene della morte dello stile infondo al bosco, certo! – che crepino gli artisti, certo! – Via di qua amanti degeneri della lingua, certo! (amanti amorevoli di lingua chiodata, certo!) – sintassieri senza stile poiché, d’alta estrazione, agili in lingua, silenzio certo! E voi tutte, parole d’ordine e clamori d’abbandono, odore artificiale d’opinione di troppo, siete l’infezione a copertura allattante universale. «Momento Tucidideo», tu e la tua testa di guanto significativo rovesciato, diventa degno dell’intacco tramite il trucco di chi ti parla! Frasi voi, all’assalto dell’accento con tutti i vostri mezzi di trasporto! Accentuatevi da sole allora! Avvicinatevi ai tanti, voi che siete d’uno e di tutti i colori! Viva la prossemica! Viva la frase!
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Nell’azione stessa di ogni frase-tipo, vittoriosa abitante privilegiata degli ossequiosi grandi palazzi urbani repubblicani, scompare una frase senza rapporto adiacente. Oh frasi del centro-città a funzione di cancellatura! oh false frasi spaziali per occupare spazio! «Viva noi» ognuna di voi dice a se stessa che puzzate marcite impestate in mezzo ai profumi! Narratori indegni di fiducia, le vostre sgassate petroliose e spetacchianti stancano! Frasi a testa di frode, sciò! cuccia per la giusta causa, oh la bella parola causa! Neo-passato dal finto cappello e Lei, neo-presente manomesso, unite le vostre manipolazioni in una fanfara di un solo strumento, sarà più chiaro! Tutt’altra è la frase, nel mezzo degli scintillamenti, sperduta. Le lavagne, le tegole scure, i pendii a vista oppure l’oceano d’infanzia, i tre laghi, i cani neri, ma si sapesse dove. Dove, è proprio questo, e dove, è l’oblio. La spalla della frase smessa, l’oblio continentale, mondiale, religioso, l’oblio che abbiamo scoperto, non del tutto consumato, non ci raggiungerà più, sta lì, lato d’assenza di puzzle da vedere finalmente incompleto, ma quale. Esso è, ma si sapesse dove. Ché dove, è lì. Lì, gli anni al rasoio. Ancora voi, ritardi a credito, siete comunque contabilizzati, piccoli après-coups dall’aspetto di conti tutto incluso, proteste incluse, le grandi inutili e le piccole tribunizie. Le porte d’avorio aprono silos di desolazioni fredde. A voi, oli essenziali scaduti, il compito di preparare serenamente una gelificazione. Tempo neutro, che inciti a una cucina calma a base di visi atei per la loro bellezza e magnetizzando l’amore, tu ci resti e tu sei solo. Noi saltelliamo raggruppati attorno alla memoria e ai monconi. Andrà bene, oppure no, non andrà, ma si sapesse dove.
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Il possibile spesso non ha una bella faccia. Strappare la carne senza sporcarsi, lì sta la domanda messa in bocca al principe danese assegnato al «lavoro sporco». L’horatio che sorveglia l’origine del mondo lo dice per esteso in sillabe belle non della bellezza che è il contrario del brutto. Masticando carne d’etimo, di vecchie incisioni e tutto il resto, ah che tutto vada un po’ più in fretta! N.B., con calma anche! Voi trafficate con tutte queste bobine d’inazione elementare, questo inerte in formato famiglia, tutto nuota in affanno sugli scaffali! Non c’è fronte a fronte, davanti all’illeggibile, non c’è trucco, né ci sono lettere incrostate in un primo momento e lettere intracciate in un secondo momento, non è così, perché le lettere sono l’estrazione del sonoro da una riduzione di luogo. Lo sparpagliamento, la lentezza, le ragioni risolute che abitano la parola lettera per lettera permettono la sua esistenza a tariffa ordinaria cosicché in lei stessa l’eternità la possa cambiare a fine partita tra l’inchiostro e lo schermo.
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Dire il pezzo di sapone a fine corsa con dosaggio, conduttività, andatura, resta l’appannaggio cavo di un giorno fasto. La memoria del sapone, non troppo scossa, è una mummia di bendaggi antichi, illeggibili, troppo compressi. Grazie alle macchie minuziosamente reperite, i contorni, invece di ostinarsi, diventano frecce prodighe di punture realizzate che restano punture. Solo ci interessa la parola che sta nella parola, la parola plastica, la parola sotto la tela, la parola che appare per contatto tra l’acqua intima e l’acqua di fuori, il suscettibile di una forma soltanto tra due vicini o persino un unico vicino, lui soltanto ci interessa ogni volta. Allora vedo con voi, voi vedete con me, il reale che opera le parole, chirurgia non solo leggera, certamente no. Allora il reale sbobinato, lo smagliato sbigottito, l’operante pensoso lì dove manca, si dimena come un’immensa imbecillità più precoce di ogni sua forma. La parola, al di sopra delle sue stesse lettere, più della loro somma, può presentarsi a noi al di là del robot o del fantasma, né vivente, né morto, né redivivo, ma a sua volta operatore. Infine, lo svolgimento dei bendaggi! L’esca del di dentro e il di fuori pigolante, troppo pronto! Infine, questo in lingua per recupero di sbiechi e d’angoli, salute quindi a te, piccolo martello valente su tutti i tuoi lati! Quindi il senza descrizione puro sta in piedi senza troppi problemi. Allora non dimenticherete che l’esecuzione del troppo poco terribile avviene tutti i giorni in qualsivoglia ipermercato di città media. Dai amici, non ci sono amici in questo luogo che non è che lo spazio quando è possibile.
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Le rianimazioni linguistiche di Jean-Patrice Courtois
Sono questi i primi testi tradotti in italiano di Jean-Patrice Courtois, ma altri ne seguiranno. Sono tratti da una sezione (Emballages) di un libro del 2010 intitolato Les jungles plates per l’editore NOUS, a cui ho dedicato un’intervista in Interférences # 9. Con Courtois siamo confrontati a un versante ben poco familiare delle scritture contemporanee francesi, che si muovono nelle propaggini più anarchiche della poesia. E si consideri l’aggettivo “anarchico” nel suo significato più specifico: vi è qui mancanza di principio e di governo, ossia di autorità, in quanto tutto ciò che dovrebbe fare autorità, sia essa la tradizione oppure il “nuovo” avanguardistico, è sottoposto a disputa, a incessante contestazione, l’alto e il basso, il metafisico e l’ornamentale, gli strati geologici della modernità e il presente di un mondo organizzato per trarre profitto anche dai più fragili respiri. Negli “imballaggi”, in modo particolare, è questione di addensare la lingua fino all’inverosimile, come per un movimento iniziale che ricorda quello del Denis Roche dei Dépôts de savoir et de technique (Seuil, 1980). Ma nei testi di Courtois il lavoro documentario, l’organizzazione stratigrafica dei registri e degli ambiti linguistici, non ha come scopo la testimonianza di uno spazio di lavoro, luogo di raccolta in attesa di un’ulteriore trasformazione. I suoi sono depositi costantemente rimescolati, rianimati e riusati fino all’ultima virgola, fino alla particella verbale più elementare. E varrà qui la pena di citare un passo della Teoria estetica di Adorno: “In generale le opere d’arte potrebbero valere tanto di più quanto più sono articolate: laddove non è rimasto nulla di morto, di non-formato; nessun campo che non sia stato percorso dal configurare”. Non inganni, allora, la preziosa sensazione di disorientamento, che si prova alla lettura di Courtois, come mettendo piede in una pasta linguistica informe. La mancanza di punti di riferimento ci obbliga infatti a ritornare sul testo, sulle sue frasi scolpite, assemblate, installate, perché in essa qualcosa di non previsto possa accadere. Magari semplicemente una rianimazione: morte costruzioni verbali sottoposte a tensioni estreme, verbi lanciati – come nell’impianto grammaticale tedesco – a fine frase, neologismi improbabili a imbrattare la suntuosità di certo lessico, un contino slittamento tra astratto e concreto, che cerca del pensiero la radice carnale e mondana.
Courtois, per altro, ci ricorda che i territori tra poesia e prosa sono continuamente percorribili in entrambe le direzioni, e che più ci si inoltra verso la prosa più ci si addentra diversamente nella poesia, la si reinventa, cancellando margini, aprendo piste, disegnando paesaggi inediti. Ma certo alcuni principi del poetico non sono più pertinenti, quando questo movimento strano tra poesia e prosa è finalmente intrapreso. Come si può ancora cercare l’orecchiabilità, e l’assimilazione metrico-mnemonica? Le occasioni di ricordo sono qui molteplici, ma come sono molteplici le possibili prensioni del lettore. Il governo ritmico è plurale, e le memorie si faranno spazio nell’eterogeneo, per scorci, per ascolti sbiechi, non certo per intruppamento metrico, per il ritorno del simile-identico.
È per me poi ragione di contentezza, che su questi testi di Courtois si sia misurato come traduttore Gabriele Stera, con il coraggio, la generosità e la noncuranza della giovinezza. E Stera viene dal mondo della sperimentazione musicale, dell’intermedialità come precondizione della scrittura stessa, e dalle correnti nostrane della spoken music (uscirà quest’anno un suo libro-cd con Jérémy Zaouati e Franziska Baur per la collana il Canzoniere diretta da Lello Voce per Squilibri). Il suo interessamento per Courtois, di conseguenza, il suo lavoro a palmo a palmo sul testo, a cui sono venuto io pure di rincalzo in alcuni passaggi, non possono che rassicurarmi sulla bontà degli sconfinamenti. Questi ultimi, infatti, sono tanto più fecondi quando, come Courtois ci insegna, non si fanno in funzione di un principio unico, in una direzione unica, ma nel senso di una complessità critica di ogni ideologia del testo (o della voce), sapendo – certo – che non si salta mai fuori a piè pari dall’ideologia. (A. I.)
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Jean-Patrice Courtois (1954), poeta e saggista. Tra i suoi libri di poesia : Vie inverse, Deyrolle/Verdier 1992, Hors de l’heure, Deyrolle/Verdier, 1996, Complication du sommeil, Circé, 2001, D’arbre et d’œil, Prétexte, 2002, Les Jungles plates, Nous, 2010, Mélodie et jugement, Editions 1:1 (con le Lettres de Cyrano de Bergerac), 2013, Théorèmes de la nature, Editions Nous, 2017. Ha pubblicato numerosi articoli sulla poesia moderna e contemporanea: su Reverdy, du Bouchet, Jacques Dupin, Jean-Luc Parant, Valère Novarina, Maurice Roche, Olivier Cadiot tra gli altri. Lavora, da poeta e filosofo, ai rapporti tra letteratura e filosofia, estetica e ecologia.