MAGDA MINCIOTTI “Considerate che avevo quindici anni “
di Orsola Puecher
Anna Paola Moretti, storica della memoria e della deportazione femminile, nel libro Considerate che avevo quindici anni. Il diario della prigionia di Magda Minciotti tra resistenza e deportazione, [ed. affinità elettive 2017], ricostruisce la storia personale e il contesto storico politico della vicenda della giovane partigiana marchigiana in modo esemplare, con dovizia di documenti, citazioni, raccolta di testimonianze, ricerca sul campo, note accuratissime e riflessioni che ci riportano dal passato al presente. La memoria, il dare spazio alla vicenda della gente comune [pag. 14] è sempre la chiave di volta per comprendere il presente. Oggi 8 marzo, in un paese dove dopo le recenti elezioni politiche il numero delle donne non raggiunge nemmeno un terzo dei deputati eletti, parlare di quanto la vita delle donne è stata a lungo espulsa dalla storiografia e relegata nel privato [pag. 13] ci racconta doverosamente di una emancipazione femminile mai del tutto raggiunta, piena di vuoti e di assenza, e il compito della storia è riempire queste lacune, stabilire una continuità di fatti, reiterpretarne i contorni.
Se la ricerca storica è atto di invenzione interpretativa, ossia vedere tratti finora trascurati, tenere insieme memoria e storia in una diposizione all’accoglienza che sia rievocativa e partecipe di ciò che si racconta, comporta anche una scrittura che varchi i confini dei generi, anche questa tutta da inventare: “nuove parole e nuovi metodi”, come chiedeva Virginia Woolf. [pag. 16]
Da questa scrittura puntuale eppure avvincente, la figura di Magda Minciotti, catturata insieme al fratello Giorgio per rappresaglia, durante un rastrellamento alla ricerca dell’altro fratello partigiano Giacinto, si anima dalla pagina a tutto tondo, innanzitutto nelle pagine del suo diario, che inizia a scrivere detenuta a Ripe, in provincia di Ancona, il 23 luglio 1944, 15 giorni dopo il suo arresto, con una matita copiativa sul retro delle pagine di blocchetti di ricevute scadute 8×12, sottratti di nascosto, con una calligrafia minuscola. Nelle sue peregrinazioni di lavoratrice coatta fra gli “schiavi di Hitler” negli Arbeitlager gestiti dalle grandi industrie germaniche, da Norimberga fino all’aprile del ’45 a Bayreuth, riesce a portarsi appresso il suo diario e, con alcuni momenti di silenzio, non smette mai di scrivere, nelle pause del duro lavoro alla fabbrica Siemens, di sera fino a quando la luce non viene spenta. Quella che per noi oggi è una preziosa documentazione, ha per lei il compito di contrastare la solitudine e di farsi coraggio, di resistere, affidando a un interlocutore immaginario tristezze e dolori, ma anche sogni, segreti, speranze, desideri e volontà di sopravvivere al terribile presente. La naturale curiosità di adolescente, il suono di una campana lontana che la riporta con nostalgia a casa, la bellezza della natura, nonostante tutto, della neve, di una giornata di sole, e, perché no, qualche palpito amoroso, la tengono ancorata alla vita e alla sua dignità di persona.
[Nürnberg 28/8/44]
Comincio a essere meno pessimista. Per arrivare a ciò ho voluto cominciare come facevo a scuola, cioè sognare ad occhi aperti. [pag. 44]
In questa vera e propria strategia di sopravvivenza non parla molto di eventi dolorosi, cerca di mantenere saldi gli ideali mazziniani, risorgimentali e antifascisti a cui la sua famiglia l’aveva educata, l’amore per il prossimo, la giustizia, la Patria con la p maiuscola, che non è certo quella tronfia e autoritaria del fascismo, la solidarietà, l’amore per il prossimo, riuscendo sempre con autoironia e distacco a sdrammatizzare e a superare la durezza del presente, ad affezionarsi alle persone e persino ai luoghi squallidi della prigionia. A mantenere allegria di giorno, con orgoglio, e a piangere di nascosto di notte. Ma nel racconto della disinfezione al campo di Dachau non riesce a non lasciar trasparire i suoi sentimenti di profonda indignazione per il pudore violato e di odio verso i Tedeschi:
[Nürnberg 17/8]
Devo fare un passo indietro per annotare un particolare sfuggitomi. A Dachau ci fecero la disinfezione, Ci mandarono al forno i panni e dopo averci fatto spogliare nude, prima il bagno e poi ungere la testa con la creolina. Tutto questo raccontato così sarebbe una cosa giusta e necessaria… Ma quanta mancanza di pudore in Germania! Nel corso dei secoli il popolo tedesco è rimasto selvaggio. Sono ancora i barbari di Attila questi del secolo 20mo? Per rispondere giustamente bisogna venir qui vedere e giudicare. Solo chi mi ha conosciuto può dire se rimasi indignata avanti ad un simile spettacolo. Non solo ma un odio feroce contro questo popolo devastatore mi fa desiderare sempre più forte che questo tutto finisca per ritornare alla mia cara Patria. [pag. 42]
Questa liceale quindicenne dagli occhi profondi e sensibili, con le lunghe trecce raccolte, che nella sua famiglia di resistenti aveva partecipato a diverse azioni partigiane, come staffetta, sventando l’attentato a un ponte minato dai tedeschi in ritirata, soccorrendo il giovane partigiano ferito Nello Congiu, nei 66 foglietti del suo diario apre una particolare dimensione “letteraria”, che dalla quotidianità si spinge a una scrittura alta, spesso poetica, a tinte pascoliane e carducciane, con grande proprietà di linguaggio e sintassi e vero talento narrativo.
Un secondo supporto del diario è andato perduto, ma Magda, tornata a casa, ricopia le pagine ormai consunte, macchiate e quasi illeggibili, su un quaderno nero quadretti con il bordo rosso, di 36 pagine più un foglio volante. Gli dà l’ironico titolo Le mie prigioni. Nella breve introduzione scrive:
[Chiaravalle, Agosto 1945]
Il mio carattere, i miei pensieri sbattuti dalla tempesta, la nostalgia, le mie lacrime amare e mai sgorgate, i miei dolori assillanti e segreti, potrà comprenderli solo colui che soffrì la prigionia tedesca, solo colui che sa cosa vuol dire essere soli senza risorse, lontani dalla Patria; (…)
Non domando altro: – Siate magnanimi!! Non giudicatemi troppo severamente se anche fra tutte le intemperie siano sbocciate nella mia anima delle illusioni, qualche sogno, qualche speranza.
E se qualche giudizio dato con troppo buon cuore, se qualche osservazione fatta con animo pettegolo sia da biasimare, – oh posteri!!!, non tacete – ma nello stesso considerate… considerate che avevo 15 anni. [pag. 31]M.M.
Nel dopoguerra le viene proposto di pubblicare il diario, ma come per molti altri sopravvissuti ai lager, subentra una specie di ritrosia a renderlo pubblico, nel clima post bellico di ottimismo forzato, di desiderio di dimenticare, l’interesse e la comprensione per le vicende dolorose della deportazione è scarso.
Anche il rientro in Italia ebbe tratti comuni per tutti gli uomini e le donne che erano stati deportati: ebrei, oppositori politici, militari internati, lavoratori coatti si trovarono accumunati dalla freddezza e dall’indifferenza con cui furono accolti da una società che usciva dai disastri della guerra, poco disposta ad ascoltare il loro dramma e propensa invece a rimuovere e occultare le responsabilità, la maggior parte di loro si chiuse a lungo nel silenzio. [pag. 267]
Così il diario rimane chiuso in un cassetto. Magda tornata in Italia gravemente malata di tubercolosi renale, fatica molto a guarire, difficile trovare antibiotici e cure adeguate allora, cerca di riprendere il liceo senza riuscirvi, si sposa con Vincenzo Castellani un giovane carabiniere lui pure deportato, conosciuto in Germania, e si dedica alla famiglia e ai suoi quattro figli. Non l’abbandona mai il dolore e anche forse il senso di colpa per la morte del fratello Giorgio Minciotti, arrestato con lei, che scelse, nonostante fosse stato scartato alla visita medica per la sua salute cagionevole, di andare in Germania per non lasciarla sola, e mandato a scavare trincee dall’Organizzazione Todt non sopravvive alla durezza del lavoro e agli stenti. Magda Minciotti consegna il suo diario al figlio pochi giorni prima di morire nel 1990. Ad Anna Paola Moretti il merito di averlo riportato alla luce, insieme allo studio approfondito del contesto e soprattutto della questione del lavoro coatto, propagandato ingannevolmente dal regime fascista come opportunità di guadagno e che vide molti partire volontari, con la complicità mai punita delle maggiori fabbriche tedesche dalla Siemens, alla Volkswagen, Mercedes e Bayer. Solo in Italia più di 100.000 persone con il 10% di morti, soprattutto giovani dai 14 anni in su, prestarono la loro manodopera al nazismo, un ambito ancora pochissimo studiato, ingiustamente distinto dalla deportazione nei campi di sterminio, ma non meno crudele e degno di essere ricordato e analizzato.
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RAI Radio 3 Pagina Tre
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[dal minuto 21 circa]
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