Civitavecchia non è solo un porto di mare

Tutto quel che siamo si racchiude qui, in un sasso muto, una pietra di montagna calpestata da millenni, erosa dall’acqua piovana. Adesso, dove tutto è ricordo, ci risvegliamo alla periferia di un enorme città fotografata in negativo: le pareti nere, nero il pulviscolo della polvere accecato dai raggi che filtrano dalle pareti, bianca nitida l’ombra delle cose.

Siamo stanchi, il mondo  caduto in cui non ci ritroviamo continua a sanguinare, a darsi la caccia e non sono streghe: dall’alto, un uccello necrofago si getta a capofitto sui cadaveri dei bambini – e noi ce ne stiamo lì, fermi, non guardiamo nemmeno all’orizzonte, riusciamo solo a respirare, muoviamo le braccia come fossimo in un lago o forse in una piscina coperta dal vetro, da cui nessuno può sentirci.

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A Civitavecchia il sole era limpido e le lumache d’acqua continuavano a danzare sul porto. Un pescatore di molluschi mi si è avvicinato : “ti stai chiedendo cosa sono, vero?”

“sì” “non lo so il nome, sono però una scocciatura, e non vanno mangiate. Sembrano pipistrelli, non trovi?”

Non lo trovavo. Mi sembravano all’opposto delle creature meravigliose, venute dallo spazio infinito, cadute per meteora, cadute a caso, nell’anfiteatro di questa zona costiera. Mi sono alzata, ho rimesso il cappello, e sono sparita.

Non ho più notizie del pescatore da quando sono arrivata, l’ho solo intravisto un giorno, mentre le statue nelle vie si muovevano, contorcendo arti e volti in una massa multiforme e allucinata. Civitavecchia ha statue umane : un bacio sulla riva, il marinaio e la sua donna, una madonnina che ha perso sangue quattordici volte, un padre pio alla rotatoria maggiore. Appena prima del crepuscolo si animano, cominciano a vorticare separandosi dalla loro inquadratura statica. Passeggiare, a quell’ora, è terrificante. Centinaia di corpi grigioperla si muovono per le vie, escono dagli occhi e inondano le bocche : fa paura, molto più paura delle lumache d’acqua

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Il 26 dicembre, quando una mano si è allungata verso il mio petto, mentre le gambe correvano sulle punte come si fa sui davanzali, nuovamente, sono sparita.

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Ancora, in questa zona cava e remota in cui ci siamo intrufolati per passarci cosa che non sia cosa, sotto il vetro infrangibile che ci fa da tetto, il mondo tutto è rimasto in silenzio. Arrivano i secondini alle calcagna, si muovono penzolando l’arma di cui sono fatti – perché non c’è arma che si porta ma arma di cui si è costruiti, che rende la sola parola una mina o una minaccia.

Gli uccelli predatori, i lupi, gli orsi e gli avvoltoi hanno smesso di cibarsi delle carni minori. Ecco che allora  inizia lo sguardo : un vuoto è il pieno di cui siamo fatti quando ci dichiariamo umani.

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Passeggiare per la strada del pesce portava in seno qualcosa di stupefacente. Le casse scoperchiate, l’odore pungente emanato dal mare racchiuso nelle conchiglie, il male dentro il male, e poi i sorrisi accecati dei pescivendoli, con le maglie a righe e il grembiule sporco di sangue. Passeggiare per quella strada era come entrare in acquario, diventare un mollusco, o un’alga riccia ancora appicicata al resto del mondo.

Ero affacciata sul Tirreno. I giovani si baciavano e giocavano a calcio balilla sotto i tendoni, il vento si aggrappvaa alle palme della marina, le faceva muovere come fossero ali d’angelo o di farfalla – e mentre noi ci dedicavamo all’ultimo bicchiere prima di preparare il letto, programmare la sveglia, azionare la macchina del caffè, le poche anime che ancora restavano prima dell’animazione delle statue, si distraevano per un gruppo di omini neri che avanzavano con gli occhi bendati.
Civitavecchia non è solo un porto di mare.

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Tutte le cose accadute si prestano a un nuovo parlato, una lingua che non ci abita ma che decidiamo di abitare. Fare a patti con l’oscuro è una posizione di congedo : vedere e poi allontanarsi, piegare il buio in un cassetto, fare il movimento degli astri quando le stelle sono già cadute decine di milioni di anni fa e noi le vediamo solo adesso. All’alba del mondo nuovo non ci siamo travestiti da burattini, abbiamo piuttosto tolto la pelle vecchia per ricominciare in silenzio.

Avere una mina al posto degli occhi significa : saper far esplodere il primo senso, prepararne un secondo.

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Il piccolo uomo antico si trasportava con le sacche sul naviglio, si è messo in posa per una fotografia in bianco e nero, si è guardato, ha sorriso, ha detto “fallo ancora”. Ci siamo congedati con un pacchetto di sigarette e due birre chiare mentre il sole precipitava nel mare. Lo chiamavano Marietto, il matto di Civitavecchia.

Sono rientrata nella casa dalle pareti rosa per appendere un quadro alla parete sinistra, vicino ai fili di una lei che ha cucito volti e occhi e bocche e corpi senza piedi. La vera riconoscenza era parlarsi fino all’alba standocene in ammollo sul terrazzo, quando una nave passava e tu dicevi: “La vedi?” No. Dunque sei cieca. Sì, rispondevo: sono arrivata qui perché ho smesso di vedere.

Civitavecchia aveva un umore giallo e uno ambrato, le strade affollate delle statue diventavano un ricordo. Bevevamo vino rosso mentre attorno, tutto attorno, la pietra miliare si era posata sulle nostre teste, e la città piangeva.

Non avevo mai riso così tanto.

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Sentiamo sottopelle una grossa tumefazione, sono piccole sacche di dolore che ci è concesso di vedere per poterle togliere di mezzo, estrarle con la punta di un coltellino. Non siamo già stati, siamo ancora nel sempre stato, in ciò che fa dei resti la conoscenza martoriata di un presente da cui vogliamo sottrarci. Gli esseri umani hanno tutti un foro da cui entrano ed escono altri esseri umani, collocato appena sotto la nuca, dove nessuno può essere scoperto : esserci non è mai servito se non per dire : finiamo. E noi finiamo, come il fiore sfinisce nella sua corolla.

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Poi abbiamo dato l’avvio ai baci, alle lingue del nostro sapere, ci siamo accatastati all’interno di una tenda, o forse una pelliccia, ci siamo scoperti gli umori, scoperchiati le pelli. Eravamo tutto con la stellata, giorno o notte, notte e giorno a scambiarci umori e lacrime e risate. Di questo tutto resta un resto, un nucleo rosso centrale che fa uno con l’universo.
La città si era calmata sotto le nostre intemperie, e noi la guardavamo dall’alto : l’acqua, i fusibili, la noia. C’eravamo detti che i per sempre non avevano ragioni d’esserci, e la città lo confermava. Ho preso un biglietto di ritorno, l’ho scambiato con l’andata.

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.