Nato due volte
o la storia di come Bartolo e Terzita si toccarono
di Andrea Cafarella
Era stato, perciò, dopo che le Isole erano scomparse alla sua vista dietro Capo Milazzo, e Stromboli, Vulcano, Lipari, che intravvedeva per la prima volta distanti e da terra, dopo averle viste sempre dalla palamitara, salendo per il Golfo dell’Aria, sembravano vaporare nel sole come carcasse di balene cadute in bonaccia.
S. D’Arrigo, Horcynus Orca, p. 7
Lo sfregarsi del mare e del cielo s’illuminava della luce purpurea del sole all’èspero; di destra dipingeva l’Italia: Scilla seguita da miglia di lunghissima Calabria, lontana e vicina, per grazia di Morgana; il vento di scirocco scrollava via dal blu oscuro dello Stretto la spuma vorticosa di tutta Cariddi marittima e, d’innanzi, poco più lontane, le sette Eolie, di cui se ne vedevano almeno quattro chiaramente, mentre Alicudi, Filicudi e Salina si percepivano, come carcasse di cetacei ormai abbandonate in un cimitero galleggiante di sogni e pensieri ventosi. Di sinistra, l’isola si contorceva per Palermo fino a Trapani guardando le colonne d’Ercole verso l’inconoscibile.
La sabbia finissima di Spadizzi splendeva di arabo e si faceva deserto; cosparsi sopra quei trecento metri d’intimo isolamento, cumuli di densissimo fumo corporeo si facevano strada verso il sole, emanati, come auree luminose, da corpi di uomini e donne intrecciati l’un l’altro sulla battigia. Gli spadizzini che fanno l’amore. Nudi sulla spiaggia. Il contatto epidermico con la sabbia, immersi in quell’aria ancora fresca e a tratti pungente, era per ognuno di loro, e per quell’insieme, una prima penetrazione dei sensi: simbiosi con il vento la terra e tutti gli esseri del mare. Una manciata di coppie: sei uomini e sei donne, mentre, nell’assopirsi del sole, consumano il calore della carne e della sabbia che, esattamente in quelle ore, inizia a sprigionare l’energia accumulata dai raggi del giorno per regalarla alle stelle.
Non un giorno qualsiasi dell’anno, ma quello che gli spadizzini chiamano U iònnu1, Il giorno. Quello che altrove viene chiamato Solstizio d’estate. Quello che solo nel piccolo mondo di Spadizzi precede la notte della Pesca a mani nude. Quello che per Bartolo, prima, significava tutto, e che anche per i suoi compaesani voleva dire: la notte più bella dell’anno e della vita, ogni volta: la grande pesca, la comunione con il mare. Che, con i suoi rossi e viola e verdi, tinteggiava all’occaso, sulle isole, la magia della mamma, della Sicilia, e che richiamava uomini e donne da ogni dove, nel tentativo di assistere allo spettacolo di corpi e luci e mare e ombre. Quello che avevano dipinto e cantato, che avevano raccontato in molti modi. Quel giorno sempre unico tra tutti i giorni irripetibili.
L’Assunta, sacerdotessa della spada, teneva gli occhi fissi sulla palla di fuoco che discendeva il blu del mediterraneo di fronte a lei. Piccola e smagrita, nei suoi anni incontabili, stava in piedi trattenuta dal suo bastone fedele. In quella selva di corpi carezzevoli, concentrava le due minuscole pupille di ossidiana fino al punto esatto del tuffo di Apollo, dove il sole si spegne. Assunta aspirava lo scirocco suo, ogni anno, sembrandole di respirare la Sicilia tutta e l’intera sua lunghissima vita e le vite dei suoi conterranei; per richiamare a sé un’energia superiore e donarla in canto alla sabbia di Spadizzi; per fecondare le pelli di quei suoi figli e nipoti. Stirava la gola nell’attesa dell’ultima scintilla di sole, e poi, con la potenza di quel vento antico, innalzava l’urlo di richiamo alla vita e all’amore: un sibilo costante, che pareva provenire dalle viscere della terra ed esplodere su quelle teste e quelle spalle e quelle ginocchia, che subito cominciavano ad avvilupparsi per tributare quel giorno.
In paese si teneva molto alla festa e alla partecipazione corale, di tutte le famiglie; ma quell’anno, piuttosto che crescere in numero, da sette coppie, erano presenti in sei, e tutti sapevano chi mancava e perché, e la sacerdotessa Assunta lo sapeva meglio di tutti e pesava sul suo cuore in modo particolarmente intenso, perché chi mancava era Bartolo, lo zito di sua nipote Terzita. Bartolo, che si era dovuto imbarcare per forza e che si era messo in testa l’idea di compiere il suo destino; che fosse lontano da quel piccolo mondo, l’unico che Terzita avrebbe mai potuto accettare, che avrebbe mai voluto accettare; perché lei sarebbe stata sacerdotessa dopo sua nonna Assunta, perché lì si sta bene e c’è il sole e si mangia bene e si possono prendere le aguglie a mani nude. Dove pensava di trovare una cosa del genere Bartolo? Credeva davvero che ci sarebbe stato qualcosa di meglio altrove? Come sperava di sentire ancora l’energia di quel mare e di quei corpi distante miglia e miglia di altri mari infreddoliti e corpi imbiancati dal gelo?
Ma Bartolo era testardo e si era imbarcato lo stesso, e il suo cuore, e il suo corpo, e la sua pelle, che si sarebbe dovuta riscaldare con la sabbia di Spadizzi e dentro la carne di Terzita, navigavano i mari del nord Europa.
Terzita, anche lei, aveva scelto di non partecipare con la totalità del suo corpo quell’anno a quella notte, pur essendoci con l’interezza sconfinata del suo spirito e della sua voce, promettendo alla nonna che avrebbe di nuovo preso parte alla cerimonia l’anno dopo, Bartolo o non Bartolo.
Il suo corpo era ancora retto dalle sue stesse gambe, poste al fianco di nonna Assunta, durante e dopo l’urlo, quando quegli uomini e quelle donne, suoi fratelli e sorelle, si mischiavano senza di lei e con lei. L’interno sensibile, dell’involucro che la definiva un essere agli altri, era però volato altrove proprio al grido della nonna, si era sparso per il globo alla ricerca di Bartolo e invece Bartolo, o tutto ciò che conservava dietro lo sterno, era tornato, tornato indietro, a casa, e si era sistemato accanto alla sua Terzita, silenzioso, contemplando quell’andirivieni di membra in movimento, mentre già sul mare s’intravedevano i primi schizzi che predisponevano la scena al miracolo. Distanti ma vicini: il mare e le sue onde li facevano toccare in una dimensione impossibile, ma che esisteva in quei tempi e in quei luoghi, per grazia di Morgana. Non solo esisteva per loro, ma anche per gli altri tredici corpi raggrumati sulla spiaggia di Spadizzi: era vero.
La danza del cosmo e delle carni che circonda il corpo dei giovani amanti, fatto di due corpi fatti di energie che nuotano nei flussi e s’immergono nella materia dello spirito, nell’incanto dell’irrealizzabile e del sensitivo: la mistica dell’amore, il mistero del mare.
Lo sfregarsi dei corpi di Bartolo e Terzita s’illuminava di schizzi di luce e spruzzi di mare, a cagione dei tuffi di aguglie imperiali e pescispada, slanciatisi verso il cielo per poi ricadere sullo Stretto, riunendosi e pinneggiando nel canale di Spadizzi, come succede una sola volta l’anno, al calare del sole. Dalla sabbia si era alzata un’onda delicata di corpi, fatti d’acqua salata. Uomini e donne si separavano con lentezza, come se avessero fermato il tempo; e poi gli uomini correvano verso la riva e poi nel naviglio. Una seconda e una terza ondata, di nudi cacciatori marini, seguirono placidamente: ogni onda a suo tempo. Si alzavano, a ritmo sempre più rapido, e qualcuno dei pescatori già s’infilava nelle acque del canale fino alla vita, in attesa dei pesci e del mare. Terzita, che ancora esisteva in due luoghi, accanto ad Assunta e insieme a Bartolo, levò la sua voce seguendo quella della nonna in un canto che si perdeva nella storia del mondo fino alle radici dell’uomo.
Quando uno dei pescatori del tramonto, Pippo, sollevò la prima aguglia, che gli si era praticamente tuffata tra le braccia, la strinse così forte che sembrò che l’urlo di Giovanna, sua moglie e sua compagna, venisse direttamente dal corpo del pesce, unendosi anch’esso alle voci limpide della sacerdotessa e di sua nipote Terzita. E seguirono le altre donne, una a una: perché quel giorno furono pescati in più di una dozzina, tra aguglie e pescispada, tanti come non era mai accaduto prima, e i canti delle donne spadizzine, che esistono assieme alle stelle e con lo scirocco, soffiarono sui corpi e sul mondo senza confini. I fratelli e le sorelle di Spadizzi sapevano che sarebbero seguiti giorni di festa, di estasi dionisiache, giorni d’amore e di canti, giorni di sale; che, per tutto l’anno, quella visione, quell’ebrezza spumosa, si sarebbe calcificata quotidianamente tra le loro ossa, circolando nel sangue e sussurrando canti sibillini all’ombra notturna, illuminata solo dallo sguardo della luna e dal silenzio reboante del mondo sottomarino.
Quando Bartolo si riebbe si trovava nella sua cabina, lontano miglia e miglia di terra e acqua, sentì addosso il sale mediterraneo, avvertì il sapore delle labbra di Terzita e, seppure queste sensazioni esistevano adesso soltanto nei suoi neuroni e in qualsiasi altra cosa ci sia sotto la pelle, sapeva, che ovunque sarebbe stato, lo scirocco e l’odore acre del sale marino, lo avrebbero seguito per sempre, sopra e sotto la pelle.
1 U iònnu si riferisce alla festa di San Bartolomeo dei pescatori che si festeggia tutti gli anni il 21 Giugno, il giorno del Solstizio d’estate, nella località Spadizzi, frazione costiera della VI Circoscrizione del comune di Messina, situata sulla costa tirrenica a circa una ventina di chilometri dallo Stretto.
…ovunque sarebbe stato…