Andrej Arsen’evič e io
di Fabio Zuffanti
Andrej Arsen’evič Tarkovskij nasce nel piccolo villaggio russo di Zavraž’e nel 1932. E’ figlio del poeta Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, uno che con le parole sapeva costruire paesaggi di pallida malinconia e struggimento ma riusciva anche a usare i suoi componimenti come lame affilate nei confronti delle ingiustizie del potere politico. Un uomo scomodo così come è scomodo il figlio, che trasla l’immaginario paterno in sembianze cinematografiche di parimenti stupore e commozione per ciò che l’uomo custodisce in sé: il suo afflato spirituale, le sue emozioni, la sua piccola esistenza dispersa tra le galassie dell’universo che si fa essa stessa universo di paure, gioie, incertezze e speranze.
Anche in Andrej Arsen’evič è forte l’attrito tra le sue idee pure e la rigida burocrazia del paese natio, che prevede un ferreo controllo delle sceneggiature e dei girati per i suoi film. L’opera del regista viene setacciata fin nei minimi dettagli, a volte criticata, tagliata e discussa allo sfinimento prima di potere essere visionata dal pubblico. Una creatività senza barriere come quella di Andrej Arsen’evič non può non soffrire profondamente questo stato di cose. Ognuno dei suoi cinque film realizzati in Russia si rivela un assurdo calvario, tale che a un certo punto il regista, per potere finalmente assaporare quella completa libertà artistica a cui tanto anela, è costretto a emigrare, prima in Italia e poi in Svezia, per girare le ultime due pellicole della sua vita.
I film di Andrej Arsen’evič sono ognuno uno squarcio nella tela dell’esistenza, sua e dei suoi estimatori. Lavori nei quali le vicende narrate hanno importanza solo fino a un certo punto, quello che più conta è la visione pura, i quadri che il regista costruisce fotogramma dopo fotogramma. In ogni frangente dell’opera di Andrej Arsen’evič vi è la ricerca dell’elevazione dell’essere umano, il costante interfacciarsi con le profondità del proprio io, un costante uso di elementi naturali; l’acqua, l’ambiente, la luce… A volte la raffigurazione di piccole scene casalinghe, una brocca, un vecchio tavolo in legno, diventano commoventi squarci verso l’assoluto. Vi si scorge quella levità alla quale il nostro spirito spesso anela e che con grande difficoltà riusciamo, nella vita di tutti, i giorni ad afferrare.
I personaggi che Andrej Arsen’evič mette in campo sembrano spesso persi nel mistero di ciò che li circonda. A cominciare dal piccolo Ivan del lungometraggio d’esordio, L’infanzia di Ivan (1962, tratto da un racconto di Vladimir Bogomolov). Orfano dodicenne che si è unito ai partigiani russi nella lotta contro l’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale, Ivan si affanna in tutti i modi per portare a termine le sue missioni in mezzo a una serie di adulti le cui certezze, minate dagli orrori del conflitto, barcollano pericolosamente. Solo lui scorge orizzonti più ampi, non ha nulla da perdere e ha una fede assoluta nel suo valore. Dove può si lancia in peripezie al limite dell’umano, sempre freddo e implacabile nella sua visione. La stessa fede incrollabile e impeto al sacrificio che Andrej Arsen’evič conserverà per tutta la sua esistenza. La stessa missione vitale che muove l’esistenza di Andrej Rublev, narrata nel secondo film omonimo (1966). Rublev è stato autore di miracolose opere pittoriche nella Russia del Quattrocento. La pellicola racconta dei travagli e delle umane debolezze che, a differenza della solidità del piccolo Ivan, si aprono tutto campo nelle vicissitudini del protagonista. Rublev sbanda, si avvicina e si allontana da se stesso, perde e recupera la fede nel suo lavoro di artista che dovrebbe invece possedere un costante e sincero afflato mistico per ammantare le icone di sacra armonia. Di incertezza in incertezza più si va avanti nella filmografia di Andrej Arsen’evič più l’uomo si spoglia di tutte le sue sovrastrutture per farsi nudo davanti a tutte le precarietà.
Conobbi Andrej Arsen’evič da bambino, avrò avuto sette/otto anni. Vicino casa c’era un circolo aziendale ove mio padre passava il tempo libero. Il circolo era dotato di un cinema-teatro ove, ogni fine settimana, proiettavano film a disposizione dei soci, gratuitamente. Ricordo un pomeriggio la visione della terza opera di Andrej Arsen’evič, Solaris (1972). Non capii nulla della trama, ma qualcosa di quelle immagini mi si conficcò dritto nel cuore. Tratto da uno straordinario romanzo del polacco Stanislaw Lem, Solaris narra della missione dello scienziato Kris Kelvin, inviato a indagare su strani fenomeni che stanno caratterizzando la vita di una stazione spaziale orbitante intorno al pianeta da cui prende nome il film. I componenti che vivono nella stazione sembrano in preda a una misteriosa tensione che tentano invano di arginare. Al suo arrivo Kelvin capisce in breve il motivo di ciò trovandosi a fronteggiare assurde apparizioni che stanno facendo vacillare la sanità mentale dei suoi compagni. Anche Kris è messo innanzi a una di questa presenze, che nel suo caso prendono le forme della moglie Hari, morta suicida alcuni anni prima.
Negli anni non dimenticai le scene quel film, in particolare le lunghe sequenze iniziali di Kelvin nel giardino della casa paterna e alcuni frangenti con Hari. Mi portai dietro questi fotogrammi a lungo, fino a quando, molto tempo dopo, il film passò in televisione e io riuscì di rivederlo. Da quel momento mi innamorai perdutamente del regista, del quale presto andai a ricercare l’intera filmografia e tutte le informazioni possibili. Nel periodo del cinema al circolo aziendale vidi una marea di film ma di questi ne ricordo pochissimi, solo uno si è così impresso nel mio ricordo: Solaris. E quando lo rividi capii che non avrei più potuto farne a meno, di quello e degli altri lavori di Andrej Arsen’evič, perché dentro quelle pellicole c’era un mondo che mi apparteneva e che io ritrovavo ogni volta che le immagini apparivano. E ancora adesso così, è una sorta di ritorno a qualcosa di intimamente mio che avevo perso, un’epifania. Per quanto ci provi non riuscirò mai a spiegare tutto questo come vorrei, e forse è anche giusto sia così, che tali sensazioni rimangano indistinte e misteriose. So solo che l’opera di Andrej Arsen’evič è anche un po’ la mia casa.
Una casa dalle pareti di legno, ricoperta dalla verdeggiante vegetazione della campagna russa. Quella dell’Andrej Arsen’evič bambino ne Lo specchio (1974), il capolavoro che seguì Solaris. L’ambientazione fantascientifica del film precedente cede il posto a una serie di flash, slegati da ogni tentativo evidente di trama, che riguardano l’esistenza dell’artista, con tutte le sue insicurezze e contraddizioni. In realtà la pellicola è dotata di una sua intrinseca sequenza narrativa che però non fa altro che specchiarsi continuamente in un gioco di rimandi tra fanciullezza e maturità, madre e moglie, padre (protagonista delle toccanti poesie narrate nel corso del film) e figlio, società del passato e del presente. Lo specchio è l’opera più intima e personale di Andrej Arsen’evič, la più onirica e metafisica, la più concreta e astratta allo stesso tempo. Fondamentale per conoscere e penetrare a fondo l’animo del poeta visivo. Un animo che a volte gioca a nascondere i significati. Ciò che però conta non è cosa Andrej Arsen’evič celi al mondo, quali metafore e quanti significati più o meno reconditi dovremmo sviscerare dai suoi film. E’ ciò che la pura visione delle sue opere evoca istintivamente a essere fondamentale, le emozioni slegate da pretese razionali a tutti i costi. Egli lo ha sempre ripetuto, non cercate significati nei miei film, piuttosto cercate voi stessi.
Poi Stalker (1979), la vetta assoluta di Andrej Arsen’evič, ancora tratto da un romanzo fantascientifico, Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij. Una fantascienza livida e concentrata sull’esplorazione degli abissi dell’anima, più che quelli di un spazio alieno. Tre individui – uno scienziato, uno scrittore e una guida – si incamminano in un paesaggio devastato, detto La zona. In tale territorio, visitato tempo prima da esseri giunti da regioni sconosciute del cosmo, i tre si muovono in cerca di una stanza che può esaudire ogni desiderio. Sulla soglia del traguardo decidono però di non entrare. Il luogo sembra infatti rendere vive non le volontà consce bensì quelle maggiormente celate negli anfratti della coscienza. I tre rinunciano quindi ai propri desideri per paura di scoprirli. L’uomo, per Andrej Arsen’evič, ha un animo così confuso e malato da fuggire dal confronto con le profondità del proprio sé. Guardarsi dentro sarebbe insostenibile.
Nei primissimi anni Ottanta, stanco delle continue problematiche legate al suo lavoro, Andrej Arsen’evič abbandona la Russia per non farvi mai più ritorno. Con sé porta l’abbozzo di sceneggiatura di un nuovo film e la visione di un personaggio, un poeta di nome Gorčakov che viaggia in Italia alla ricerca di notizie su un musicista di cui ha intenzione di scrivere la biografia. Nelle lande italiche però Gorčakov si perde. Si ammala di nostalgia, di uno struggimento che non gli concede requie. Lo struggimento di chi ha perso la bussola e non capisce più quale sia il senso della sua missione, artistica e umana. Nostalghia (1983), la cui sceneggiatura viene messa a punto con l’ausilio con Tonino Guerra, è ancora una volta lo specchio degli affanni di Andrej Arsen’evič. Lo struggimento di Gorčakov – il ritrovarsi in una terra così colma di bellezza, l’Italia, e non poterne veramente godere, non saperla penetrare in tutta la sua magnificenza come egli, poeta, avrebbe anelato – è lo stesso che prova Andrej Arsen’evič. Egli è lontano, in tutti i sensi, dal suo paese, dai suoi cari, dalla sua poesia, da se stesso.
Le prime immagini dell’uomo Andrej Arsen’evič le vidi nel documentario Tempo di viaggio (1983), diario filmico della ricerca delle locations per Nostalghia. Ogni volta che rivedo questo piccolo film rimango turbato, Andrej Arsen’evič sembra così a disagio da trasmettere una concreta inquietudine. Il suo sguardo, le sue mani in tasca, la sua postura, una certa noncuranza mentre lo portano a visitare le bellezze d’Italia, il suo ascoltare con fosca serietà le poesie del suo sodale… tutto di lui comunica assenza, un vagare altrove. Probabilmente verso quella Russia che aveva con tristezza abbandonato, finalmente libero da tutte le enormi difficoltà che in patria aveva sempre dovuto affrontare. Ma questa libertà contribuì a lacerare le radici che lo tenevano legato ai suoi cari e alla sua terra natia. Tale dramma esistenziale viene estrinsecato dal personaggio di Gorčakov che non riesce a commuoversi davanti a nulla; la grande arte italiana lo lascia indifferente, le lusinghe di Eugenia, la sua assistente/traduttrice, non lo toccano. Si muove come un alieno tra le stupende colline toscane. Sembra costantemente disinteressato a ogni cosa. Solo l’apparizione di Domenico – uno strambo personaggio che aveva segregato in casa la sua famiglia per sette anni, sicuro dell’imminente fine del mondo – sembra risvegliarlo dal suo torpore. Nel folle Domenico Gorčakov scorge una scintilla di salvezza che gli scrolla di dosso l’apatia. Domenico è l’uomo saggio proprio perché pazzo, è libero di essere se stesso, libero di essere ciò che vuole. La pazzia lo eleva, in qualche modo lo salva perché egli può ergersi al di sopra del pensiero comune e avvertire gli uomini della triste deriva che l’umanità ha preso.
Mi aggiro nella campagna toscana. Il cielo è ampio, enorme, sembra che le nuvole stiano per precipitare, per precipitarmi addosso. La luce è bassa, crepuscolare. La pioggia cadrà tra poco, si sente nell’aria. Mentre io continuo a girare per piccoli paesi, senza guardare in faccia le poche persone che incontro. Loro invece mi osservano incuriosite, insospettite. C’è profumo di legna bruciata, le strade sono in salita, ci sono piccole porte molto malandate, angoli colmi di mattoni e pietre. Non riesco a capire dove si trovi la cima del paese, la piazza, la chiesa. Si sente il rumore lontano delle pecore al pascolo. L’aria è molto fredda, il cinguettio degli uccelli, una fontana, una piccola campana arrugginita. E questo profumo di legna bruciata.
Andrej Arsen’evič è passato da qui mentre visitava i luoghi dove poi avrebbe girato Nostalghia. Forse il cielo era plumbeo e opprimente come oggi, ed egli ha avvertito una morsa molto forte nel petto. Posso quasi sentire questa stretta, questa lacerazione tra sé e la sua terra così lontana, la moglie e il figlio che non potevano raggiungerlo. Andrej Arsen’evič non sapeva quanto tempo sarebbe passato prima di poterli rivedere, non sapeva ancora che non sarebbe mai più tornato a casa. Lo immagino qui, in un pomeriggio come questo, vagare con la sguardo verso i vecchi paesi arroccati sulle colline, queste chiese meravigliose, tutta questa arte, e non godere di nulla. Ed è qui che probabilmente ha cominciato a svilupparsi il personaggio di Gorčakov.
Visito l’incantevole Bagno Vignoni (SI), di sera. Qui Andrej Arsen’evič ha girato alcune scene basilari di Nostalghia. Nessun passante, e le luci che il vapore della piscina di Santa Caterina rende fioche. Percorro l’acciottolato sulla sinistra della piscina, guardo il muretto dove era seduto Domenico. “Tu sei quella che non è, Io sono quello che è”, ha detto Dio a Santa Caterina, e Domenico rivolge queste parole a Eugenia, mentre essa sembra non capire. Perché lui è il pazzo e il pazzo va lasciato fare il pazzo. Ma il pazzo ha capito, anche il profondo malessere di Eugenia che, innamoratasi di Gorčakov, sta cercando di comprendere l’immobile e impenetrabile modo di essere dell’uomo e in questo tentativo sta mettendo in dubbio ogni certezza. Domenico sa tutto quello che lei non sa di sapere. Questi ciottoli sono stati calpestati da Andrej Arsen’evič. Mi chino, li tocco, li accarezzo, porto la mano all’acqua calda, la bagno e la passo sul viso. Il tempo scompare.
Infine l’abbazia scoperchiata di San Galgano, ancora nella provincia di Siena, a Chiusdino. Qui dimora l’elegiaco finale di Nostalghia. Il freddo perenne. L’abbazia, l’uomo seduto al suo interno, tra le colonne della cattedrale senza tetto. Gorčakov, lo spazio che finalmente ha riunito la casa natale e il luogo della morte. Gorčakov, per sempre in terra toscana con la Russia nel cuore. Alla fine in qualche modo egli riesce a venire a patti con se stesso e con la sua inquietudine. Porta a termine il compito di cui Domenico lo ha investito. Attraversa la piscina di Santa Caterina con un mozzicone di candela, che ogni volta una folata di vento spegne e che lui caparbio riaccende, fino a compiere tutto il percorso con la fiammella accesa e poi spirare. Il nostro viaggio in questo mondo è simile al tratto che Gorčakov compie nella piscina. Ogni volta tutto quello che siamo rischia di venire meno, ma se la condotta del nostro spirito è forte torneremo sempre indietro, riaccenderemo il mozzicone di candela a ripeteremo il percorso. Fino a che il tragitto non sarà completato.
Andrej Arsen’evič Tarkovskij fa ancora in tempo a girare il suo film definitivo, Sacrificio (1986), non il migliore ma sicuramente il più centrato nell’esplicare ciò che l’artista ha in mente in un momento come questo, a pochi passi dal baratro. Come Domenico, anche il protagonista di Sacrificio, Alexander (non a caso interpretato dallo stesso attore, Erland Josephson) sceglie di deragliare dai binari della normalità, di cedere al nonsenso e alla pazzia. Questo per salvare l’intera razza umana, minacciata dall’avvio di una guerra nucleare. Alexander compie un atto di estrema irrazionalità, si rivolge a una sorta di fattucchiera che sembra avere la possibilità di salvare il mondo se Alexander deciderà di sacrificare tutto quello che ha di più caro: i suoi affetti, la sua casa, se stesso. La pazzia alla fine libera il pianeta dal pericolo, affrancato dalle sue autoimposte catene Alexander compirà l’atto definitivo per concedere alla razza umana ancora una possibilità. Come Il sacrificio di Domenico, che alla fine di Nostalghia si da fuoco per le strade di Roma, anche Alexander rinuncia a se stesso, questo lo salva e redime il genere umano.
L’infanzia di Ivan si apriva con la ripresa di un albero che dalla base si alzava fino alla sommità. Sacrificio si chiude con la stessa scena, la telecamera che dai piedi dell’albero punta verso il cielo. Il cerchio si chiude per Andrej Arsen’evič che muore a Parigi il 28 dicembre 1986 a seguito di complicanze causate da un tumore al polmone, lontano dalla sua patria ma fortunatamente circondato dall’affetto dei suoi cari, la moglie Larisa e il figlio Andrej.