Donna che pattina
di Francesca Matteoni
(Buone feste a tutti, buoni ricordi. Che l’anno che viene sia migliore).
A volte la notte passava profonda e tranquilla – non sognava. Altre si svegliava dallo stesso sogno, all’improvviso, prima di sapere come andasse a finire. Tutto aveva avuto inizio quando era tornata a vivere nella casa materna, durante uno degli inverni più gelidi che ricordasse – aveva finito il trasloco i primi giorni dell’anno e si stava riabituando alle stanze del passato come al volto di un estraneo da cui riemerge un antico compagno di giochi, che mai avremmo creduto di perdere. Mina abitava nella città in cui si era trasferita ai tempi dell’università: dopo la pensione, pensava, avrebbe viaggiato, ma sua madre si era ammalata e lei era rientrata nella casa d’infanzia per soggiorni sempre più lunghi, fino a che la madre era morta nel mezzo dell’autunno e lei non era più riuscita ad andare via. Ammalandosi, sua madre aveva iniziato a dimenticare sempre più cose, parole di uso comune e perfino persone care – spesso Mina si voltava per incontrarne l’occhio sospettoso, il dubbio a bocca semiaperta: “Ma tu che vuoi, chi sei?”.
La trovava nel cortile sul retro che parlava a compagni invisibili del lago e dell’inverno in cui si sarebbero messi i pattini per scivolarci sopra, ammirati da tutti, perfino dai pettirossi. Da giovane sua madre era stata un’abile pattinatrice in quel paese silenzioso, di abitazioni distanti l’una dall’altra chilometri – un piccolo centro anonimo con una farmacia, una banca, un supermercato, pochi negozi e poi niente, nessuno – campi, l’orlo dei boschi fra una vita e l’altra, e naturalmente il lago. Un unico album di fotografie raccoglieva le immagini della madre che danzava sul gelo in bianco e nero o che sorrideva in un gruppo di amiche ormai sbiadite, senza nome. Negli anni il lago era rimasto il vero luogo di condivisione per bambini e ragazzi: d’estate per i tuffi e per la pesca, d’inverno per il ghiaccio, che tuttavia si faceva sempre più sottile. Mina non ricordava di aver mai indossato i pattini, appesi e cristallizzati nello scantinato con tutte le cose che non avevano più ragione: una radio di legno a manopole, pacchi di lettere, documenti familiari e luci natalizie che ancora sua madre metteva sull’albero quando era in salute. Se ne era andata da tutto questo crescendo, perché, si diceva, non sopportava più il silenzio, la distanza, la solitudine. Voleva vivere in una città dove incontrare il mondo affacciandosi. Eppure per una qualche stortura del destino non si era mai accompagnata a chicchessia. Gli amori non erano mancati. Gli amici nemmeno. E l’accudire: i gatti e i cani e i molti bambini del centro educativo che aveva diretto per quasi trent’anni, che non si erano opposti alle ali, le avevano lasciate allungarsi dalle scapole per spiccare il volo fuori dal nido, qualcuno per cadere subito, altri per resistere, mentre lei restava a invecchiare, a guardarli volare o pattinare via in un tempo irraggiungibile. Anche nel suo sogno guardava. Era un sogno semplice e non capiva perché la turbasse tanto. Nel mattino scendeva le scale della cantina e tutto era come nella realtà, tranne che per un particolare. C’era una porta, una porta piccola di quelle che si trovavano a volte nelle vecchie cattedrali o in certi libri fiabeschi, per Pollicine e folletti calzolai. Lei si avvicinava perché c’era un rumore oltre la parete. Il respiro era come un sasso nella gola – era certa una chiava stesse girando nella serratura. A quel punto apriva gli occhi con un misto di rammarico e sollievo.
Quella mattina qualcosa non era al suo solito posto. Affacciandosi si accorse che era nevicato copiosamente e la temperatura continuava a scendere come negli inverni remoti delle fotografie. Il silenzio era così penetrante da essere divenuto rumore – quel rumore. Un rumore che cambiava l’ordine del mondo, avrebbe detto poi, un rumore che non creava musica e non ispirava la danza: voleva solo essere ascoltato. Proveniva dal fondo della casa. Mina si diresse verso le scale e iniziò a scendere. I pattini, la radio, le vecchie lettere, le luci, i documenti – tutto era là. E c’era anche la porta, ma stavolta non era un sogno. Non sarebbe tornata indietro – il luogo era intenso e chiaro. La porta si aprì con un cigolio e Mina si chinò per guardarci dentro, spingersi nel freddo e poi nelle venature azzurre dell’acqua congelata, perché c’era il lago, di là. Grande quanto una lacrima, quasi di vetro: nel mezzo una sciarpa rossa, dei guanti, un maglioncino – sua madre che volteggiava sui pattini come una bambina.
Il racconto, nato all’interno di Bottega Finzioni, scuola di scrittura fondata a Bologna da Carlo Lucarelli, è liberamente ispirato alla poesia di Margaret Atwood, “Donna che pattina”, che si può leggere qui.
Nell’immagine una foto di Peggy Fleming, pattinatrice statunitense, campionessa del mondo (1966, 1967, 1968) e olimpica nel 1968.