In tutte le direzioni, purché non nella falsa coscienza
di Lorenzo Mari
A tre anni di distanza da Epica dello spreco (Dot.com, 2015), è uscito, alcuni mesi fa, il secondo libro di poesia di Laura Di Corcia, intitolato In tutte le direzioni (Lietocolle, collana gialla, 2018) e già finalista al Premio Rimini 2017 con il titolo Traduzioni e microsismi. La genealogia del libro, però, non si esaurisce qui: come ha dichiarato la stessa autrice in questo interessante e intenso dialogo con Davide Castiglione, almeno una sezione, la “Parte Prima” (pp. 13-31), era stata approntata ancora prima della pubblicazione di Epica dello spreco.
Ripercorrere la genealogia del testo non è affatto questione peregrina, almeno in questo caso, poiché dà luogo ad almeno un rilievo formale e uno di tipo tematico-ideologico. Dal punto di vista formale, infatti, la costruzione di un “impianto corale” di In tutte le direzioni – com’è già stato ampiamente analizzato da Castiglione – implica il “voler piegare un dettato essenzialmente lirico a finalità non-liriche, cioè di rappresentazione collettiva, di affresco tra l’esistenziale e il geopolitico, con effetti spesso potenti, quasi mitopoietici”. Descrizione, questa, che vale anche per Epica dello spreco, segnalando così un percorso di ricerca poetica dall’elaborazione almeno parzialmente coeva, nonché sicuramente omogeneo, nonostante le spinte centrifughe che contraddistinguono i singoli testi.
A questo si aggiunga che, a proposito di Epica dello spreco, Vincenzo Frungillo aveva parlato di “modo biologico dell’epica contemporanea”, sottolineando come “Di Corcia non sta cantando la sofferenza personale, non ci dice qualcosa la sua biografia, o almeno non fa solo questo, ci manifesta la costituzione stessa dell’identità, con gli strumenti del pensiero poetante; interroga con tenacia il simulacro archetipico del sé, tant’è che esso torna lungo il percorso delle liriche sotto forma di “ginocchia”, “gambe”, “petto”, in frammenti che costituiscono l’indizio identitario corrispondente all’essere biologico di nome Laura Di Corcia”.
Se tale declinazione biologica dell’epica otteneva di scoprire, attraverso un processo intimamente dialettico, i limiti di quest’ultima definizione – “epica contemporanea” – la manifestazione della “costituzione stessa dell’identità, con gli strumenti del pensiero poetante” continua anche nel secondo libro, aprendosi, come vuole il titolo, in tutte le direzioni, ma restando al tempo stesso incardinata nella stessa forma aperta e mutevole, tra lirico e non-lirico, già apprezzata nella prima prova.
Ed è proprio in questa interrogazione identitaria che risiede il nucleo tematico-ideologico del libro: l’esperienza di migrazione che caratterizza la biografia dell’autrice (dall’Italia alla Svizzera, dopo che la sua famiglia si era già spostata dal sud al nord Italia) è posta continuamente all’interno di un confronto dialettico con le storie delle migrazioni transcontinentali che stanno segnando in modo indelebile gli ultimi decenni, a livello globale. Confronto che sembra da subito polarizzato: qui “c’è il trionfale Occidente, / i suoi figli maturi, il libro / posato sul cassetto […]”, mentre “al di là c’è il mondo” (p. 53). Si tratterebbe, però, di un puro binarismo, o di un rispecchiamento senza sviluppo, se, oltre a non identificare l’aspetto ironico di quel trionfo d’Occidente così spengleriano, non si riconoscesse come nella poesia di Di Corcia sia sempre messo in gioco il confine che sancisce i territori e, nel testo poetico, la deissi.
Ciò avviene attraverso uno slittamento che è prima sintattico, poi, nella pagina successiva, semantico. “Al di là c’è il mondo / ci siamo noi / mentre qui” (p. 53), continua infatti il testo, chiudendo l’ultimo verso citato con un punto fermo che ne spezza la sintassi. Questi tre versi potrebbero costituire uno dei tanti esempi di moltiplicazione pronominale (e deittica, in genere) che costellano il libro, venendo generalmente tematizzati in quanto tali. In questo caso, però, non c’è tematizzazione: è unicamente lo slittamento sintattico a farsi carico del senso comune di spaesamento e, insieme, a segnalare la capacità, etica e politica, di resistenza alla confusione del piano individuale e di quello collettivo, magari di altre collettività.
Si rifugge, in altre parole, il possibile caso di falsa coscienza e si guarda a quella ridefinizione dell’enunciazione (per “traduzioni” e “microsismi”, verrebbe da dire, per riprendere il titolo originale della raccolta) che porta, poi, a parlare di un territorio nuovo, situato “al di qua”, dove “c’è un pensiero / che smette di sanguinare, coagula / e si esprime solo a singhiozzi, perché troppo sa dire […]” (p. 54).
La tragedia resta sul confine, secondo una metaforica variamente ripetuta in soglie e attraversamenti lungo tutto il libro, e al tempo stesso nel dispiegamento della soggettività che prende provvisoriamente, nel testo, il nome di “io lirico”: “Chi spezza le catene del mondo / perché la linea si rompe nel mezzo / che cosa corrompe e interrompe la corsa?” (p. 59). Presentando questo possibile sviluppo tragico in un campo che non è definibile univocamente né come identità né come alterità, Di Corcia riesce ad evitare la verbosità delle contrapposte retoriche e si limita ad avvisare: “Si alzerà un grido, / tu / non chiedere niente” (p. 18). Alle parole che rappresentano questo processo, dunque, non bisogna chiedere spiegazioni unilaterali e onnipervasive. Del resto, come scrive ancora di Corcia: “Io sono una che scrive / e poi dimentica” (p. 30), con un commento che è metapoetico, sì, ma anche carico di un’amara visione politica, dato che nel confronto dialettico tra individuale e collettivo, “la nostra lingua / non vale niente” (p. 70).
Quest’ultima citazione proviene dal testo finale del libro, ma non è una chiusura consente al lettore di adagiarsi su un facile nichilismo, anzi: quel che segue e che dà vera conclusione al testo è la chiamata, presa in carico da una significativa prima persona plurale, a partecipare a una diversa collettività. “Noi cerchiamo con le mani in alto / di ricostruire una direzione / che ci dica chi siamo / capace di agganciarci a un ruolo / di definire chi amiamo” (p. 70).
Dopo aver esplorato tutte le direzioni del titolo, si torna dunque a un solo possibile indirizzo, nella piena consapevolezza, però, del movimento dialettico che si è andato instaurando. Di nuovo, infatti, “se tu non sai / non chiedere subito, aspetta” (p. 71): l’invito è a non parlare subito e troppo facilmente, dando sfogo alle contrapposte retoriche (un monito che si può intendere, forse, anche per i poeti presenti in sala, chissà!).
Occorre, piuttosto, lasciar “sedimentare” (p. 71), secondo l’ultima ingiunzione, nonché le ultime parole, del libro, allo scopo di aggiungere alle traversie dello spazio quelle del tempo e rendere, così, appieno la complessità del divenire nel suo farsi, nella sua poiesis.
Del resto, per la scrittura poetica (che può naturalmente muoversi in molte altre direzioni formali al di là di quella seguito da Di Corcia) non sembra esserci, sul piano etico-politico, altra via. O direzione.