Ulisse tecnologico #2
di Giuseppe Martella
2. Il gioco delle parti
E’ solo la costanza delle versioni dell’intreccio a garantire l’identità dell’autore-eroe. Odisseo e Omero che si scambiano le parti del narratore nel mezzo del poema, in quella splendida scena cerimoniale alla reggia dei Feaci, non sono Nessuno senza la fissazione della polytropia, della figuralità vagante del linguaggio orale, nel medium della scrittura incipiente. Essi rimangono dei funtivi narrativi vuoti e liberamente appropriabili ad ogni nuova performance dal rapsodo di turno che, invasato dal Dio, pieno di énthousiasmos e in possesso della mnemo-tecnica formulare, dà loro “a local habitation and a name” (Shakespeare), per un uditorio occasionale. Odisseo e Omero sono degli indicatori, dei deittici, degli oudeis, la cui signific/azione è legata al qui e ora del gesto imperioso, della voce suadente e del corpo appassionato dell’interprete: vuoti funtivi di una performance in cui la mimesi tocca la mimica. E’ questo il retroterra mitico orale dell’epos omerico: fluido mediterraneo di storie, magma di varianti che sono ‘il sangue del mito’. (Calasso 1993) Con l’avvento della scrittura si aprì una nuova dimensione per il linguaggio e la cultura, per la significazione dell’identità e della differenza psicosociale. Si inaugurò l’odissea del nome proprio, che si stacca dalle altre parti del discorso per assumere il suo ruolo sovrano di indice di una identità stabile per cui i diritti acquisiti e le eredità trasmesse potranno da ora in poi essere protetti da norme grammaticali e giuridiche.
Eccedenza ed emergenza, quella del nome proprio, che funge da cardine di un nuovo sistema di permutazioni e generalizzazioni, di un nuovo ordinamento della realtà, del logos che si innesta sul retaggio del mito. L’epos costituisce questo stadio di transizione, questo primo processo alla parola, che segna il passaggio da un’epoca della civiltà all’altra. E l’Odissea è anzitutto odissea del nome proprio, che con la sua designazione singolare costituisce l’eccezione attorno a cui ruota tutto il nuovo regime normativo del discorso. Qui in particolare si tratta del nome dell’eroe-narratore, quello che fa da tramite fra lo spazio-tempo dell’enunciato e quello dell’enunciazione. Nel nome di Odisseo, e nello spazio di transizione tra parola e scrittura che quel nome designa, si attua infatti la coincidenza, impensabile nell’orizzonte mitico orale, fra la persona (o maschera) dell’eroe e quella del narratore, e con ciò si apre il genere epico come compimento-superamento del mito, e come primo stadio di quel passaggio al logos la cui tappa successiva sarà quella della tragedia attica antica. Che cosa c’è infatti in un nome? C’è il nocciolo di ogni rappresentazione: nell’atto del battesimo c’è l’inizio stesso del linguaggio e del racconto, cioè dei primi ordinamenti procedurali della realtà. Gli dei e gli eroi avevano ovviamente già nomi nella tradizione orale, dai primi balbettii dell’umanità, ma è col battesimo dell’eroe narratore Odisseo-Omero, in quanto oudeis polytrops (uno dai molti raggiri), e con l’acquisizione dei suoi diritti di autore, che la tradizione fa un salto e l’identità psico-culturale si fissa e configura in modi nuovi, attraverso tutto il ventaglio di generi letterari che ora già si profila all’orizzonte: dal dialogo dei tragici a quello platonico, alla retorica sofistica, alla logica aristotelica, alla storiografia e alla biografia classiche, al romanzo ellenistico, e via dicendo fino ai nostri giorni. Con Odisseo, eroe-narratore, si schiude allora un nuovo ordine del discorso e una nuova epoca della civiltà.
Nello spazio luminoso e sonoro della reggia di Alcinoo e Nausicaa, luogo di giochi e di canti, specchio della patria immaginaria cui Ulisse vuol fare ritorno, l’eroe mitico prende la parola e diviene narratore-rapsodo delle proprie gesta, mentre il narratore impersonale, il rapsodo di turno, Demodoco, passa la mano. L’eroe diviene narratore e il narratore diviene eroe culturale. Col gesto decisivo del cedere la parola al proprio personaggio, Omero acquista il diritto di autore, l’autorità e l’aura, il prestigio del poeta, quali oggi li conosciamo. Nell’Odissea, in quel passo, dunque d’un sol colpo nascono l’autore, l’eroe e l’opera in senso moderno; si affermano cioè il diritto d’autore, il nome dell’eroe e l’aura dell’opera. E’ un passaggio epocale: in questo gesto di ‘intercessione’ le parole trasecolano. Si apre l’orizzonte della reincarnazione del verbo in vista di un nuovo télos, di quella allora inedita finalità senza scopo (Kant 1984) che avrebbe caratterizzato l’esperienza estetica come provincia autonoma della cultura moderna. L’occasionale performance rapsodica che pure era il tutto della tradizione orale, comincia allora a specializzarsi, la poesia comincia a divenire praxis téleias e il suo effetto tende a racchiudersi nella sfera estetica, dove la mimesi viene destituita della sua funzione universale di motore culturale e inizia a inclinare verso quella più specifica del rimedio omeopatico dall’eccesso di passioni, cioè verso quella funzione catartica che si realizzerà in pieno solo coll’avvento della tragedia e diverrà il fulcro della poetica di Aristotele e di tutte le estetiche avvenire, regioni circoscritte nel nuovo spazio disciplinare filosofico. Sicché la funzione di purificazione dalle passioni (o attraverso le passioni) sarà ingenerata proprio dal seguito di peripezie e riconoscimenti dell’intreccio (che diverrà ben più unitario e logico nella tragedia), che sono comunque eredi di quelle circonvoluzioni e capovolgimenti del discorso in azione, del corpo narrante di Odisseo, l’eroe-narratore archetipo, che è come la matrice del pensiero occidentale intero, sia scientifico che letterario.
La presa di parola dell’eroe è il passaggio epocale, la trasecolazione del soggetto nella maschera e viceversa. Smorfia d’autore e smorfiatura del futuro nella fiction che fondano le funzioni predittiva e profetica oltre che consolatoria dell’arte. Alla reggia dei Feaci si ridefinisce insomma l’intera valenza della dizione poetica (Dichtung) come mezzo di riproduzione tecnico-culturale, nella nascente civiltà della scrittura. Da ora in poi tale funzione si compirà in modo indiretto, nel laboratorio circoscritto della fiction, dell’esperimento artistico autonomo, nello spazio disciplinare dell’estetica. Commosso e convinto dai canti di Demodoco che è pronto a cedergli la parola, Ulisse, gli occhi colmi di lacrime, inizia infine a narrare le proprie peregrinazioni. Il primo nucleo del soggetto moderno, riflessivo e commosso, che troverà nei secoli altre illustri incarnazioni, da Amleto agli eroi romantici, si coagula così in quel luogo del canto, in quel miraggio di armonia, in quella patria immaginaria, l’isola dei Feaci che è e non è Itaca, specchio interno e cassa di risonanza dell’Odissea e dell’intera civiltà letteraria occidentale. Un’altra grande opera le farà eco a distanza di secoli, l’Ulisse di Joyce dove la scena omerica verrà scissa in due distinti episodi, quelli delle Sirene e di Nausicaa, reggia e spiaggia del miraggio di una patria, dove si sdoppiano le dimensioni dell’ascolto e della visione, segnando una nuova tappa nella lunga storia della passione del verbo che si fa carne.