Lettera da Madrid
di Antonio Moresco
Cari amici,
vi mando un paio di note che ho buttato giù nei giorni scorsi mentre ero in viaggio, aggiungendoci alla fine anche una piccola fantasticheria.
Sono a Madrid. Un’emozione profonda, ma anche quella terribile malinconia che a volte ci prende quando intersechiamo per un istante la polla della vita che scorre per conto proprio in un punto lontano. Città, strade, piazze, metrò, ferrovie, fiumane di persone che invadono le vie quando scende la sera. Guardo il diverso portamento dei corpi e mi dico che anche da questo si capisce che è successo qualcosa di enorme in Italia, in questi anni. Qualcosa che non riguarda solo la dimensione economica, politica, culturale, le strutture della vita umana associata, ma anche le impronte somatiche, i calchi dei volti, gli scheletri, i corpi e le loro posture nello spazio e nel tempo e la loro radialità. L’irrespirabile e specifica mistura italica di meschinità e servaggio che vediamo ormai dispiegata nelle sue forme più grottesche e disonorevoli non ha agito solo in maniera separata nella sfera delle costruzioni sociali e di potere lasciando intatto il resto, è passata anche, direttamente, da parte a parte, attraverso i corpi e le menti e ha lasciato sopra di essi il segno.
Al Prado, di fronte ai dipinti di Goya, continuo a pensare a questa drammatica possibilità di apertura e chiusura che hanno vita e spazio. Com’è stato possibile -mi domando- che una persona, esattamente nell’anno 1800, abbia potuto mettere in fila il re di Spagna e la sua potente famiglia per ritrarli tutti quanti così, con questa totale libertà pittorica, umanità, radicalità, intransigenza. E che la stessa persona sia arrivata poi, alla fine di una lunghissima vita creativa attraversata da continue invenzioni, delicatezze e sfracelli, a sbarazzarsi dell’ingombro stesso della “pittura” andando a toccare zone fluide ai confini del nostro destino di specie e delle sue proiezioni.
E’ successo che, a questo punto della mia vita, mi è preso improvvisamente il desiderio, il bisogno di vedere per la prima volta di fronte ai miei occhi i dipinti di Goya e mi sono messo in viaggio. Sono legato a questo pittore da un lungo amore, anche se a un certo punto non so perché ha cessato di intereressarmi e l’ho dimenticato. Quello di Goya è stato il primo libro con le riproduzioni di un pittore che -quando avevo ancora quindici anni- sono riuscito a comprare, e che ho ancora con me, un po’ logorato a forza di girare e rigirare le pagine. Anzi, il secondo, perché il primo è stato Rembrandt, che anche adesso mi commuove e ammiro più di ogni altro e che mi pare il pittore più grande che sia mai esistito. Rembrandt, di cui Simmel dice: “Le figure di Rubens hanno apparentemente una vita assai più piena, più priva di inibizioni, di una potenza più elementare rispetto a quelle di Rembrandt, ma al prezzo di impersonare quell’astrazione dalla vita che si ottiene escludendo la morte dalla vita”.
Prima di partire per Madrid, ho rintracciato un altro vecchio libro su Goya che avevo in casa, di Ortega y Gasset. Quello che c’è scritto sopra non mi convince sempre, ma contiene a volte intuizioni che mi colpiscono profondamente. Come questa: “Confrontando un ritratto ‘piano’ di Goya con uno di Mengs, si avverte subito la precisione del secondo e la vaghezza del primo. Tale indeterminatezza geometrica di Goya conferisce alla figura un’inquietudine radicale, un movimento costante di fiamma sulla verticale del quadro, come un avanzare e un ritrarsi. Avrebbe ragione un accademico ad osservare che nei quadri di Mengs l’oggetto si offre nella propria evidenza sin dal primo movimento, senza lasciare nella visione alcun margine al dubbio. Tutto quello che c’è viene messo in mostra da subito. Nei ritratti di Goya questo non avviene: il soggetto non sta mai del tutto in essi. Lo incontriamo come nel primo istante in cui si vede qualcosa, cioè lo scopriamo all’improvviso e di sfuggita. Stiamo sempre incominciando a vederlo e non riusciamo mai a vederlo appieno, poiché Goya non intende concederci tutto l’oggetto. Quella totalità di nitida presenza a cui l’arte italiana aspira si ottiene svuotando l’oggetto reale di quasi tutto il suo contenuto e lasciandogli solo il suo schema ideale. (Come verrebbe spontaneo applicare queste osservazioni anche a molta letteratura che è stata selezionata nel nostro paese!) Goya tende invece a comunicarci, della figura reale, ciò che essa è nell’istante in cui appare (…). E’ esattamente a questo medesimo risultato che perviene Velázquez al vertice della sua evoluzione. Ecco perché la sua pittura è più puramente pittura, più arte visiva rispetto alle altre, a quelle che portano in sé ancora un’ansia di scultura. (…) Qualunque sia il personaggio rappresentato, il buon ritratto spagnolo, puro fantasma di luce, ha in sé un potere drammatico che è il più elementare: quello del passaggio improvviso dall’assenza alla presenza (…).”
Mi accompagna anche, in questi giorni, un’osservazione letta nell’Uomo è antiquato di Günther Anders: “Quando la pittura moderna, cinquecento anni fa, ruppe le superfici (…) per penetrare nella profondità del nostro mondo e avanzare fino all’orizzonte sensibile allora concepibile fu certamente un passaggio epocale. Ma la nostra generazione deve osare un passo di significato epocale altrettanto grande: deve cioè sfondare l’orizzonte che fu raggiunto allora.”
C’entrano qualcosa queste noticine sulla pittura con Nazione Indiana? Io credo di sì. Mi veniva da pensare, di fronte ai quadri di Goya e alla meravigliosa e terribile libertà che si prendono, che oggi, nel Duemila, con tutta l’enfasi di questa epoca sulle presunte libertà e possibilità concesse dalle nuove tecnologie e forme di vita, gli artisti, gli scrittori, come tutti quelli che in una forma o nell’altra portano avanti una tensione di ricerca e pensiero, si trovano di fronte a una dimensione ideologica di potere pervasiva e generalizzata che tende a negare ogni possibilità di creazione e di conoscenza non funzionali e a ridurli a piccoli esecutori inoffensivi e ingabbiati. In questa situazione, ogni cosa è da riconquistare e nello stesso tempo da reinventare continuamente, ciascuno per conto proprio e con la propria ineliminabile e insostituibile solitudine e tensione ma anche con la possibile forza comune di un’amicizia e passione condivise, dando vita anche alle prime forme di movimento e di spostamento incisivo e attivo verso l’esterno, per cercare di rompere questa cappa e aprire la strada a possibilità diverse. E pensavo anche che è forse proprio questa una delle nostre ragioni di stare insieme come Nazione Indiana, questa strana cosa moltiplicatoria che è nata e che ciascuno di noi non poteva mettere al mondo da solo. Non con lo spirito degli accerchiati e di chi può solo difendersi e resistere in una riserva, ma, al contrario, di quelli che stanno sì dentro una fessura che tende continuamente a chiudersi, ma che ci stanno dentro per allargarla, sfondarla, renderla infetta, non più rimarginabile, endemica, contagiosa.
Un caro saluto e a presto,
Antonio
Già, mi è piaciuto molto nelle sue righe leggere come coinvolge nel suo pensiero oltre agli artisti, scrittori anche coloro che portano avanti una tensione di ricerca. Ogni cosa è da riconquistare, lei dice. E’ vero come è anche vero che NI ha la possibilità di allargare orizzonti e divenire contagiosa. Credo che in questo sia racchiusa la sua forza,nel fatto che ognuno di noi,nella propria ricerca solitaria, possa condividere con altri questa ricerca anche da lettori come è capitato a me e ad altri a cui ho passato parola sull’ esistenza di NI.
Cordiali saluti, Gabriella
“il passaggio improvviso dall’assenza alla presenza”; davvero bellissimo. Sulla pittura, con accenti piuttosto simili, segnalo (ma sono senz’altro note) le analisi di Merleau-Ponty in “L’occhio e lo spirito” (su Cezanne), e di Gilles Deleuze in “Logica della sensazione” (su Cezanne e Bacon). Sul paragrafo finale e senza alcun intento polemico: in che misura Nazione Indiana (o chi per essa) è un’apertura, una disseminazione virale, e non una ricentratura polemica in un unico punto (una “scuola” o “corrente”, per usare termini poco nobili)? E di conseguenza: si può distinguere ancora l’obiettivo dal percorso? (c’è un obiettivo che non sia la possibilità di vivere il luogo in cui già si sta, sfondandolo, rendendolo fluido coll’innervarne i nessi, portandolo alla consapevolezza di sé e anzi alla produzione di sé, piuttosto che colpirlo con una condanna trascendente, separata?) Può la “Nazione” – la fratellanza – delirare il proprio territorio e rendersi/lo disponibile, aprire il proprio corpo e non solo aprire i corpi altrui? L’identità è un dato dell’essere o un percorso che si dis-loca? Fraternamente.
Una sola cosa al volo: Nazione Indiana non è né una scuola né una corrente. E’ un gruppo di persone che hanno in comune molte cose e molte altre no. Dopodiché non è facile spiegare perché una cosa non è x, quando non lo è. Tu, perché non sei un altro?
Difficile rispondere.
pardon, non voleva, come ho detto, essere un commento polemico. Solo a volte ho l’impressione (e parlo per me, prima di tutto) che le intenzioni e le pratiche cerchino faticosamente un accordo. Per questo parlavo di ricentratura vs. apertura, e cioè della differenza tra la vecchia idea di “battaglia intellettuale” (che ricorreva un tempo a nobilissime riviste, oggi ad altrettanto nobili webzine) e la possibilità di una diversa “pratica” culturale, o di un diverso “posto” della cultura (che non so bene cosa sia, da qui la domanda aperta). Ripeto, non è un’accusa ma una domanda che rivolgo a me stesso, considerato che non ho per nulla le idee chiare e mi espongo al rischio di dire cose confuse e inutili. Ma visto che Moresco parlava di “riconquistare e reinventare”, forse occorre essere un po’ incoscienti ed esplorare il non conosciuto. Ciao :). (ps. per gioco: posto che – Hegel – l’identità è una categoria che appartiene alla sfera della riflessione e non dell’essere, una determinazione che assume e risolve in sé la differenza, o meglio il differire, e quindi un processo di interpretazione e reinvenzione creativa di sé nel tempo e nello spazio, e non un dato o una determinazione d’essere che non si puo’ trascendere, “io”, come naturalmente tutti quanti, sono anche “un altro” ;-)
Caro Georg,
capita spesso questo fenomeno. Qualcuno sta facendo qualcosa, e dà un certo significato a quello che sta facendo (una rivista, una webrivista?). Ma finché l’azione non è terminata, egli non puo’ essere certo che il significato che lui ha in testa e l’esito dell’azione che sta compiendo coincidano. Poi c’è un testimone esterno all’azione. Questo testimone, vede quello che l’altra persona sta facendo e affibbia a quell’azione un determinato significato. Torniamo a noi. NI è nata cercando di praticare in modo diverso la discussione e la critica culturale. Questo è quanto noi abbiamo bene in testa. Non siamo avanguardie di partito, maestri del pensiero, scuole o correnti letterarie, ecc. Ma cio’ non significa che il nostro voler agire diversamente abbia un’immediata efficacia, che tutti se ne rendano conto e che ognuno di noi effettivamente ci riesca. Siamo un gruppo di persone che cercano di parlarsi e di parlare ad altri “fuori pista”. Ma inevitabilmente gli altri ci leggono con le categorie che conoscono, quelle della mappa assodata, già definita. Quindi, ecco la tua impressione di una sorta di gruppo tradizionale di intellettuali che fanno critica della società. E’ probabile che noi, con tutte le buone intenzioni di uscire di pista, rimaniamo spesso nei vecchi solchi. Ma si tratta da parte di chi ci legge di percepire almeno le nostre intenzioni, cosi’ come le formuliamo. Certo, le intenzioni non coincidono per forza con cio’ che si fa, ma per capire quello che uno sta facendo devono essere assolutamente prese in conto.
va be’, mi spiace di aver ingenerato l’equivoco. Il fatto che l’oggetto fosse NI è incidentale, la domanda valeva a prescindere, per chi usa contemporaneaente la cultura e la rete (cioè per chi vive oggi e non 20 o 40 anni fa, me compreso).