Parlare della Germania

di Martin Walser

traduzione di Marina Cantoni

(Estratto)

Si è in grado di valutare in un secondo tempo le immagini dell’infanzia o addirittura si è obbligati a farlo, oppure ci si può abbandonare semplicemente per sempre a questo flusso ricco di ricordi? Ho la sensazione di non potere trattare i ricordi a mio piacimento. Ad esempio non mi è possibile modificarli tramite le conoscenze che ho acquisito nel frattempo. Il ricordo torna a un periodo che fu terribile, come ora so. Ogni volto del partito, ogni figura militare, ogni insegnante e ogni volto visto da vicino esprime l’appartenenza a quel periodo, eppure da solo non mostra l’atrocità. È il caso di una persona che tra i sei e i diciott’anni non si è accorta di Auschwitz. L’infanzia e la giovinezza sviluppano la loro infinita fame e sete e quando vengono messe di fronte a uniformi, volti di comandanti e cose simili divorano tutto. Il dirigente locale del partito mi appare ciò che era allora per me: un goffo uomo bavarese-francone che gracchiava in un’uniforme di un giallo bruno stridente, che era fuori posto ovunque, sia per la zona che per il periodo. Sembrava che gli ci fosse voluto tutto il suo coraggio per uscire con quell’uniforme grottesca dalla sua casa di funzionario e sulla strada principale del paese. Per ogni altro passo doveva esserci voluto ancora più coraggio. Quando poi arrivava al luogo dell’adunata emetteva solo quel suono gracchiante e avvilito.

La luce con cui il ricordo mi presenta gli oggetti e le persone di allora è una luce fissa, una specie di riflettore che illumina ogni dettaglio. Allora non si sapeva che tutto ciò sarebbe stato ricordato per sempre con così tanta esattezza. Soprattutto non si sapeva che non sarebbe stato possibile aggiungere più nulla a quelle immagini. Nessun commento, nessuna spiegazione, nessuna valutazione. Le immagini non accettano alcuna informazione. Tutto ciò che nel frattempo ho imparato non ha cambiato quelle immagini. Secondo i criteri di giudizio di oggi mi sembra che le immagini non abbiano bisogno di istruzioni. Le conoscenze acquisite sulla dittatura assassina sono una cosa, i miei ricordi sono un’altra. Ma solo fintantoché tengo per me questo ricordo. Appena voglio rendere qualcuno partecipe di tutto ciò noto che non riesco a comunicare l’innocenza del ricordo. Non ho il coraggio né la capacità di raccontare scene di lavoro dei vagoni per il trasporto del carbone tra il 1940 e il 1943 perché si viene travolti dal pensiero che quei vagoni servivano anche a trasportare persone ai campi di concentramento. Per poterlo raccontare dovrei trasformarmi in un bambino antifascista. Quindi dovrei parlare come si parla di quei tempi oggi. Dunque non rimarrebbe altro che una persona di oggi che parla. Un altro che parla di allora come se allora fosse già stato la persona di oggi. Un procedimento penoso. Per me. Il passato visto con gli occhi di oggi, ci può essere qualcosa di più inutile? Di sicuro non ci può essere nulla di più fuorviante. Fuorviante se si vuole rappresentare il passato in questo modo. La maggior parte delle rappresentazioni del passato sono pertanto informazioni sul presente. Il passato fornisce il materiale con cui oggi si dà prova della propria umanità.

Penso che gli storici che procedono come me verrebbero considerati esponenti dello storicismo, una scuola che al momento non è particolarmente apprezzata, come è evidente. Eppure ci sono alcuni ricercatori, ad esempio in Inghilterra, che in questo modo riescono a scoprire qualcosa di importante.

Ho dovuto dire questo anzitutto perché Germania per me è una parola di quel passato. Di quel passato in seguito ho appreso esattamente quello che hanno appreso tutti gli altri. La misura del nostro crimine. E se è già difficile spiegare in che modo si può tenere libera ogni scena dell’infanzia da ciò che circondava direttamente quell’infanzia, come si deve spiegare che si vuole salvare addirittura una parola come Germania? Salvarla per potere continuare a utilizzarla. Dapprima naturalmente si crede che si possa parlare di questo Paese, del nostro Paese, senza dover parlare della Germania. Ma la storia è ineludibile. Se fosse andata bene sicuramente la Germania non sarebbe diventata un argomento così costante di conversazione. Se la storia fosse andata bene stasera andrei a teatro a Lipsia e domani sarei a Dresda e che io sia in Germania sarebbe la cosa meno importante. Ma poiché non è così la Turingia mi tiene impegnato con santi e artigiani, giocattoli e posate, carbonai e boschi, e un’infinità di altre occupazioni, infinite come le radici di un albero che arrivano fino al centro della terra.

Se oggi prendo il treno e passo attraverso Magdeburgo non so dove guardare, per l’imbarazzo e la compassione. E se mi viene in mente Königsberg finisco nel vortice della storia che mi fa girare e mi inghiotte. Ogni volta ne esco come il pescatore del racconto del Maelstrom di Edgar Allan Poe, ancora più incanutito. Ci consuma il pensiero di non poter essere d’accordo con ciò che è accaduto. Dipende dall’età. I più giovani sono liberi da questo. Che cos’è Ecuba, ossia Königsberg, per loro? Ma anche persone che sono più vicine alla mia età sono più libere da questo di quanto lo sia io. Questa è l’esperienza che ho da raccontare. Questo è il mio problema. Per il momento non mi stancherò di parlarne, nella speranza di poter ancora scoprire, in tal modo, che non è solo il mio problema.

Il discorso tenuto da Martin Walser il 30 ottobre del 1988 ai Münchner Kammerspiele in occasione dei “discorsi sul proprio Paese”, organizzati dal 1983, è doppiamente degno di nota. Si tratta di un tentativo provocatorio di trasmettere alla coscienza pubblica la propria esperienza di un contesto nazionale con motivazioni storiche, ponendosi al di fuori dell’atteggiamento di rimozione di allora, persino nelle discussioni politiche. Al contempo tale discorso fu un’anticipazione lucida del desiderio di riunificazione delle due parti della nazione tedesca, spaccata in due dalla cortina di ferro, un desiderio che un anno dopo diventò pubblico e acquistò un impatto storico e che alcuni intellettuali, non solo dell’ex Germania Est, ma anche dell’ex Germania Ovest, sorpresi dal 1989, cercarono di sminuire alcuni anni dopo, come avvenimento con motivazioni prevalentemente economiche, contrariamente al giudizio più positivo di Walser. (Lo stesso Walser il 5 dicembre del 1989: “Centinaia di migliaia di persone, quindi masse, si sono espresse in maniera più autentica e precisa, e quindi più giusta, di tutti gli intellettuali”). Nella seconda parte del discorso Walser parla, tra l’altro, del poeta di Weimar Wulf Kirsten, originario della zona di Meißen, la cui lingua viene elogiata da Walser come “carica di passato”, come una lingua che“da noi”, a Ovest, non è mai stata utilizzata in opere scritte, una lingua “a cui” si può “attingere per opporsi alla velocità, all’adattamento, alla perdita”. [da: Die deutsche Literatur in Text und Darstellung, Gegenwart II, a cura di Gerhard R. Kaiser, Reclam, Stuttgart, 200, p. 26-30].


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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.