Appunti indiani #4
di Sergio La Chiusa
Per accedere al tempio, qui a Guruvayur, gli uomini devono sfilarsi la maglia o la camicia, mostrarsi al Dio a torso nudo. Penso al duomo di Milano, dove il controllore di turno, davanti al portone di bronzo, verifica che tutte le spalle siano ben coperte. In entrambi i casi si tratta, dicono gli amministratori del culto, di una forma di rispetto dovuta all’unico Dio.
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L’odore dell’India è come il suo cibo aromatizzato; il risultato di un tale miscuglio di odori diversi che separarne i singoli elementi è un’impresa disperata, materia per esperti. Un olfatto sensibile potrebbe forse distinguervi escrementi umani e animali, urina umana e animale, fiori freschi, fiori marciti, l’olio delle friggitorie, i gas di scarico, vari tipi di spezie, balsami, incensi e molti altri odori ancora, tutti lungamente mantecati con la polvere, l’eterna polvere che copre e uniforma l’India intera.
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Campo degli elefanti di Guruvayur. Fa un certo effetto vedere settanta pachidermi asserviti a questi esseri fragili, con le gambe sottili come stecchi. Alcuni elefanti se ne stanno legati ai ceppi, spezzano grossi rami con una facilità impressionante, sembrano nervosi. Altri trasportano tronchi, sotto la guida dei mahout, o se ne vanno in giro per conto loro, trascinandosi le catene e un gran rumore di ferraglia. Altri ancora, i più, sono radunati nella grande vasca d’acqua verdastra per il consueto lavaggio. Visti così, con gli occhi socchiusi, stesi su un fianco, e docilmente sottoposti alle cure dei mahout, queste enormi creature ispirano un sentimento di dolcezza. Il lavaggio è un’operazione piuttosto lunga e faticosa, che porta via diverse ore. I mahout strofinano con violenza ogni angolo del corpo dell’animale. Usano bucce di noci di cocco. Gli elefanti sembrano provare un certo sollievo, almeno a giudicare dalle espressioni e da come sollevano le zampe a comando per farsi sfregare le parti interne. Questi giganti sono schiavi dell’uomo, ma schiavi alla cui conservazione l’uomo dedica più cure che a se stesso. Un po’ come figli troppo sviluppati, tenuti in catene affinché non prendano la propria strada, e tuttavia ben cibati, puliti, castigati con la sferza al primo cenno di ribellione e poi coccolati, amati di un amore da padrone. Vedo gli elefanti sollevarsi pesantemente dopo il lavaggio, tirati a lucido, pronti per la prossima cerimonia religiosa. E poi i mahout, sfiniti, lerci, sudati, camminare scalzi tra grandi mucchi di letame fumante.
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Seguo il corso contorto del fiume Moyar, un serpente d’acqua giallastra che si snoda in mezzo alla giungla. Sembra acqua morta, eppure quell’acqua è il centro vitale dei villaggi sparsi nei dintorni. Vedo i mahout dondolare tra le cime degli alberi, in bilico sugli enormi animali che si fanno largo nella giungla, scendendo pigramente al fiume. Lungo la riva, gli uomini, seminudi, si insaponano i corpi scuri, allegramente. Le donne sono riunite in piccoli gruppi, tutte accoccolate, intente a sfregare le stoviglie fino a farle luccicare. Di tanto in tanto i loro corpi spariscono dietro il riverbero accecante del metallo. Sopra la mia testa, i macachi balzano di ramo in ramo facendo un gran fracasso… Sono così poco avvezzo alla natura, che mi sembra davvero di essere una presenza clandestina, immotivata. Trattengo quasi il respiro, per non disturbare questa bellezza primordiale.
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La stazione degli autobus è, insieme al tempio, il cuore e il ricovero di ogni villaggio indiano. Ci sono interi gruppi famigliari, che, più che aspettare con l’ansia nomade di chi si appresta ad un viaggio, sembrano vivere come animali stanziali nelle zone d’ombra di questi spiazzi polverosi. Come queste donne che se ne stanno accoccolate per terra, intente a fabbricare trecce di fiori, masticare arachidi con la flemma di chi nemmeno sospetta il trascorrere del tempo. L’imperturbabilità dei viaggiatori in attesa è come nascosta dal movimento caotico dei venditori, che trottano da una parte all’altra della stazione, carichi di povera mercanzia, urlando a squarciagola. Quando l’autobus arriva, sollevando nuvoloni di polvere, tutti gli accoccolati improvvisamente si alzano, si mettono a correre, fanno ressa intorno all’autobus. Prima ancora che il mezzo si arresti, durante le manovre, sembra che l’autobus si porti già con sé, caricato sulle sue superfici ammaccate di lamiera, tutto quel gran fardello di corpi. Dall’interno dell’autobus, noto che invece di avvicinarsi alla porta anteriore quasi tutti i partenti cercano di aggrapparsi ai finestrini, dall’esterno, con le mani sollevate che agitano nell’aria un qualche indumento, una maglia, un fazzoletto, un semplice straccio. Proprio sotto di me, in strada, una donna ha sfilato la gonnellina alla sua bimba e, dal basso, mi fa cenno di prenderla, insiste, si mette a sventolare il povero indumento, quasi me lo sbatte in faccia. Guardo, senza capire, i suoi occhi un po’ supplicanti e un po’ irritati per la mia stupidità, e gli occhi della bimba, completamente nuda, sporca, che sembrano invece spaesati così come devono sembrare i miei. Poi mi guardo intorno, senza sapere cosa fare; e ci metto ancora un poco a capire che tutti quegli stracci che svolazzano dentro i finestrini e che si accasciano mollemente sui sedili sono semplici biglietti di prenotazione.
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Il giovanotto, vestito all’occidentale, con calzoni e camicia, cammina scalzo in mezzo all’immondizia, con naturalezza. Ad un tratto – e per me è una sorpresa – si ferma come se proprio ora si fosse ricordato di qualcosa di urgente. Sembra preoccupato, si tasta nervosamente le tasche dei calzoni, dall’esterno, poi ci infila dentro le mani, rovista. Deve avere trovato quello che cerca, perché gli si è illuminato il volto. Sorride, ora sembra calmo… Mi distraggo un momento perché un commerciante mi sta proponendo qualcosa. Quando torno ad osservare il giovanotto, vedo che sta camminando di nuovo, scalzo, in mezzo all’immondizia, e intanto, con un pettinino di plastica sdentato, si sta lisciando con cura i capelli. Sembra soddisfatto.
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Chennai è una metropoli in continua espansione, dove grandi vetrine di negozi moderni, hi-tech, sfavillanti di luci, gremiti di computer, hi-fi, tv, convivono con vere e proprie fogne a cielo aperto. Ingobbito nell’autorisciò, alla stessa altezza dei gas di scarico delle automobili e delle motociclette che strombazzano senza sosta, respiro tutto l’inquinamento acustico e atmosferico di Chennai. Pioviggina. Il cielo è grigio. La città intera è grigia. Solo i cartelloni variopinti che reclamizzano film a basso costo danno colore alla città; un colore posticcio, incollato di recente sulle facce decrepite dei palazzi. Ma, forse, è da preferire il grigio incerto del cielo alle gigantografie dei cartelloni, dove campeggiano eroi dall’aria ridicolmente virile ed eroine dall’aria ridicolmente patetica di vergini salvate. I loro nuovi eroi bidimensionali, in fondo così tristemente simili ai nostri.
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4- fine
Grazie a Sergio La Chiusa per questi godibili appunti.