IOSIF BRODSKY
di Franco Buffoni
Brodsky conclude con una preghiera al visitatore la sua introduzione al catalogo della mostra L’altra Ego tenutasi a Torino, presso la Mole Antonelliana, nell’ottobre dell’89. L’esposizione era principalmente dedicata ad illustrare le figure dei partner dei poeti da Baudelaire a Pasolini, e Brodsky – fresco premio Nobel – era stato invitato ad illustrarla come poeta strettamente legato all’arte della fotografia. Ebbene, Brodsky non imperniò – e soprattutto non concluse – il suo scritto facendo riferimento al dato tecnico: l’importanza della invenzione della fotografia per quanto attiene la costituzione e l’evoluzione dell’immaginario del poeta; bensì travolse il lettore-visitatore sul piano sentimentale: “Osservateli non tanto con curiosità quanto con gratitudine”.
Gratitudine per avere scritto quelle poesie. Poi, certamente – e Brodsky ne dava subito atto – era intrigante vagare sulla piega del mantello di Catherine accanto a Valéry a Vence nel 1922, o sul sorriso spavaldo-imbarazzato di Christopher accanto a Auden. Tuttavia ciò che contava erano i testi, soltanto i testi. Persino lì, dove si parlava di fotografia. E ai poeti si doveva gratitudine per averli scritti. Dopo, solo dopo, veniva tutto il resto.
Se la distinzione tra il poeta e il saggista è essenziale trattando di qualsiasi autore, con Brodsky essa diviene fondamentale in quanto investe subito – in pieno – quella che noi italiani, da secoli, definiamo la questione della lingua. Perché Brodsky saggista, negli ultimi dieci-quindici anni della sua vita scrive in inglese pensando in inglese, mentre Brodsky poeta continua – apparentemente – a scrivere in russo, e quindi a “sentire” in russo.
E qui potremmo riflettere sulla fondamentale differenza tra una versificazione nata e pensata in russo – dove ancora la rima ferrea e la gabbia metrica fissa prevalgono – e una versificazione nata e pensata in inglese, dove a prevalere sono accenti e assonanze, e le rime sono sovente rifuggite per evitare che – cammin facendo – il lettore accorto prenda a scommettere su come finirà il verso successivo, in virtù della sua prevedibilità.
Per quanto attiene la scrittura poetica si potrebbe dunque parafrasare per Brodsky quanto affermato da Celan nei confronti della lingua tedesca: non poteva lasciare al KGB la lingua di Mandelstam.
Apparentemente, tuttavia, ho scritto in precedenza. Perché Brodsky continua sì per tutta la vita a scrivere poesia in russo, ma autotraducendosi in inglese. Nella piena consapevolezza – dunque – che quei versi dopo poco sarebbero risuonati anche in inglese. Tale condizione ci richiama alla mente quella dei nostri maggiori poeti dialettali. E’ vero che Franco Loi pensa, sente e scrive in milanese; ma è altrettanto inconfutabile che – mentre scrive – il suo inconscio sa benissimo che quei versi verranno letti in italiano. La traduzione a questo punto si può dire che nasca inscritta nel testo, oppure che nasca parallelamente come una sua variante.
Pound distingueva tra melopea, logopea e fanopea, cioè tra testi dove a prevalere è l’elemento della musicalità (si pensi per esempio ad Apollinaire), piuttosto che la narrazione, il “discorso” (si pensi alla poesia di Cesare Pavese), piuttosto che l’elemento epifanico, la visione: si pensi ai testi di Dino Campana. Ebbene, è evidente che il nascere assieme di un testo in due lingue – pur se a livello inconscio – annulla in qualche misura tali distinzioni. Perché – inevitabilmente – laddove in un testo prevale l’elemento melodico in una lingua, può – nel contempo – riuscire più netta nell’altra lingua (semplicemente perché lì esiste il vocabolo più tagliente) l’estrinsecazione epifanica. E ciò che era logos può divenire immagine, e ciò che era immagine essere tradotto in pura musicalità.
Tradotto, dunque, potrebbe essere il termine-chiave per penetrare nella officina poetica brodskiana. E magari anche in quella dei suoi traduttori in altre lingue. Caterina Graziadei, per esempio, nella traduzione italiana del poemetto “Cappadocia” – che fa parte della raccolta So Forth apparsa nel 1996 per i tipi di Farrar, Straus and Giroux – traducce il passo
…………………….. Sulla, forgetting Marius,
brought here legions to clarify to whom,
despite the brand of the winter moon,
Cappadocia belongs……………………………………
con
……………………………Dimentico di Mario,
Silla qui ha tradotto le legioni,
per dirimere in bello a chi appartenga –
ad onta del sigillo della luna d’inverno –
la Cappadocia.
in tal modo ripristinando con quel “tradotto” – mi assicurano amici di madrelingua russa – la polisemia intrinseca al testo russo, andata perduta nel “brought” inglese, uscito dalla penna dello stesso Brodsky coadiuvato da Paul Graves.
Una accezione del “tradurre” che ritroviamo pari pari nella memorabile lettera di Marina Cvetaeva all’amica Anna Teskova in occasione della morte di Rilke: “Sono certa che quando morrò, verrà a prendermi. Mi tradurrà all’altro mondo, come io ora lo traduco (per mano) in russo. Solo questo significa per me la parola tradurre”.
Più cautamente Giovanni Buttafava così traduce il passaggio essenziale dell’elegia “York: In Memoriam W. H. Auden”, composta nel 1976-7 e apparsa nella raccolta A Part of Speech (Farrar, Straus and Giroux 1980). Buttafava, naturalmente traduce dall'”originale” russo:
………………………………………………Nulla
trasforma così un noto portone in una selva
di colonne come l’amore per un uomo,
specie se egli è morto.
Che cosa intendiamo dire? Che – tutto sommato – non conta se si crede di star trasformando, traducendo o trasportando; ciò che realmente conta è la profondità alla quale avviene il processo. E ricorriamo deliberatamente al termine processo. Perché tale è la traduzione di poesia. Un processo che inizia dall’avantesto, dalla “germinazione” di un testo (Pareyson, a riguardo, parla di “formatività) ed è destinato a non concludersi mai completamente, perché ogni nuovo atto di lettura sarà comunque un atto interpretativo e quindi traduttivo.
In un poeta come Brodsky il processo creativo è inscindibilmente legato al processo traduttivo. Dalla germinazione del testo, magari al Village tra fonemi anglosassoni pronunciati latinamente, ma trascritti in cirillico, alla pubblicazione in russo, a quella in inglese, alle successive revisioni delle traduzioni in altre lingue. Si pensi anche soltanto all’importanza che per Brodsky ebbe sempre l’altra grande lingua slava e baltica: il polacco.
In Brodsky, pertanto, siamo tentati di configurare un paradigma di fusione tra melopea, fanopea e logopea, che si estrinseca nel processo medesimo di creazione-traduzione. Confortati anche dalla costellazione di “strong poets” – per dirla con Bloom – tutti, tranne uno, fortemente legati alla riflessione sul processo creativo-traduttivo – da Brodsky stesso evocata a Stoccolma il giorno della consegna del Nobel: oltre ai già menzionati Mandelstam, Cvetaeva e Auden, anche Achmatova e Robert Frost. Perché, proprio Frost si pone all’altro capo della riflessione teorica sul tradurre, ancorato come è alla antica dicotomia ut orator/ut interpres (o – per dirla con Mounin: “traductions des poètes/traductions des professeurs”). Una dicotomia che consegna la traduzione di poesia insieme alla poesia stessa al dominio dell’ineffabile, e quindi dell’intraducibile (o che considera traducibile solo un ipotetico “contenuto”: il che è pura astrazione). Diceva dunque Frost: “What is poetry? What gets lost in translation”.
Ad essa idealmente Brodsky oppone la sua verità circolare: “Poesia è traduzione. Traduzione di verità metafisiche in linguaggio terrestre”. E peggio per chi si ostina a voler continuare a non comprendere.
Come corollario a quanto detto vi è dunque in me ora soltanto il desiderio di parlare di Brodsky poeta, senza pensarlo russo o americano, o tradotto in italiano. Ma pensarlo poeta da poeta, nella lingua che, per l’appunto, traduce le verità metafisiche in linguaggio terrestre. E allora cogliamo in lui un grande poeta dell’analogia, della poesia del “come”:
Come la calza di seta della spogliarellista
seminuda, che sale lungo la coscia:
cancrena
nella poesia “A Polar Explorer”, per descrivere la maniera insinuante in cui il male – che è freddo – e il freddo – che è male – risalgono lungo il corpo del testardo esploratore, Ulisse dei ghiacci.
E questo, già dalle prime prove adulte, dalle poesie composte in Russia negli anni sessanta. Come “Quasi un’elegia”
Di fronte a me c’è un parco./…/
Nel fitto del fogliame le pere mature
pendono come testicoli.
Non certamente perché Brodsky menziona un parco, ma poiché menziona un parco in quel modo – in un testo che principalmente basa il proprio vigore sull’analogia – a me torna in mente la definizione che Anceschi diede della poesia di Linea lombarda quasi sessant’anni fa: “Fu una faccenda di piogge, di laghi, di discorsi in un gran parco verdissimo”. In una geografia del “come” che si amplia dal “Plat Pays” di Jaques Brel (“In questi piatti paesi quello che difende / dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede / più lontano”, scrive Brodsky) alla Trieste di Cergoly:
Un tempo anch’io aspettavo che cessasse
la pioggia fredda,
sotto il colonnato della Borsa.
Questo è l’attacco della poesia “Quasi un’elegia”. Il colonnato della Borsa per Brodsky è qui quello di Pietroburgo, proiettato in Europa, fino a raggiungere idealmente quello di Trieste, così come le pianure baltiche possono distendersi a confinare con quelle delle Fiandre.
Comincia a essere arduo spiegare ai più giovani che cosa rappresentò la cortina di ferro, da Trieste a Danzica, per cinquant’anni. Forse ci può riuscire la “poesia del come” di Brodsky:
Una veranda assalita dai salici.
……………………………………………il corpo
come morena fuori del ghiacciaio.
Legata – in questo – a quella di un altro Premio Nobel, “emigrato interno”, come lo stesso si definisce. (Ma quale differenza tra l’esilio di Brodsky e l’esilio di Heaney; tra le smorfie a Seamus perché non si firma James, e il processo inquisitorio a Iosif stenografato furtivamente dall’amica timida.) Quale comunità in poesia, invece:
Il freddo mi ha educato
e mi ha messo una penna tra le dita,
per riscaldarle strette a pugno
si legge in Brodsky in funzione quasi di dichiarazione programmatica: di abbraccio della scrittura come riscatto e irrinunciabile vocazione.
Tra l’indice e il pollice ho la penna,
Comoda come una pistola
“Userò quella al posto della pala”, afferma Heaney in “Digging”. Brodsky, ai lavori forzati, le dovrà usare entrambe.
*
Molto è stato detto e scritto circa le influenze di altri poeti precursori su Brodsky. In cima a tutte configuriamo quella di W. H. Auden. Non perché quelle di Cvetaieva o Achmatova non siano state fondamentali; o perché quella di Mandelstam non sia stata viscerale. Proprio perché furono assolutamente connaturate alla crescita, al divenire del giovane Iosif mi pare persino inadeguato – nel caso dei poeti russi citati – il termine influenza: piuttosto si potrebbe parlare di consustanziazione. Mentre – per quanto attiene Auden – parlare di influenza mi pare assolutamente adeguato.
Chi conosce l’opera di Auden sa che in The Sea and the Mirror il poeta non volle – come potrebbe sembrare di primo acchito – parodiare lo Shakespeare della Tempesta; bensì fortemente mostrare la propria avversione all’irruzione della sfera della vita nella sfera dell’arte, e viceversa; in altri termini: del mondo di Ariele in quello di Calibano, e del mondo di Calibano in quello di Ariele. E l’opera si apre con un Prospero stanco e sconsolato che – appena calato il sipario – si volge verso Ariele pregandolo di restare con lui mentre finisce di preparare i bagagli.
Si consideri l’attacco brodskiano della poesia “Ulisse e Telemaco”:
Telemaco mio,
la guerra di Troia
è finita.
Si tratta della stessa intonazione. Dello stesso uso del materiale classico (la Tempesta di Shakespeare come l’Odissea di Omero) in funzione apparentemente anti-mitica. Apparentemente, perché in realtà tale intonazione va assolutamente a rafforzare il mito.
Ma si consideri il finale del componimento, che risale al 1972: l’anno del trasferimento di Brodsky in occidente, con Auden pronto ad accoglierlo in Austria, e poi a portarlo a Londra per qualche giorno in casa di Stephen Spender, e a presentargli Angus Wilson e tanta altra gente importante. Auden sarebbe morto l’anno successivo. Gli ultimi versi che Brodsky idealmente fa proferire a Ulisse recitano:
Certo non sei più quel fanciullino
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.
E questa è l’intonazione che in The Age of Anxiety – l’opera pubblicata da Auden nel 1947 – si trova particolarmente nella sezione dedicata alle “Sette età” dell’uomo.
Quanto, nel 1972, Brodsky – dopo il processo e i lavori forzati – avesse voglia e tempo di pensare al complesso di Edipo, sinceramente ci sfugge. Osiamo supporre che in versi di quel tipo Brodsky desiderasse più che altro dimostrare amore per il suo mentore, che aveva enormemente contribuito a far sì che sul governo sovietico si esercitasse una forte pressione internazionale con la creazione di un caso Brodsky.
Così invece Brodsky cinque anni più tardi, nel 1977:
Sono quattro anni che tu sei morto
in un albergo austriaco. Sotto la freccia
del passaggio pedonale non c’è un’anima:
solo tetti, asfalto, calce, pioppi.
Anche Chester è morto,
lo sai certo meglio di me.
Il riferimento è a Chester Kallman, l’ultimo compagno di Auden. L’eterosessuale Brodsky è ormai occidentale. Non è più un “vittoriano” nei confronti della sessualità, come all’epoca del suo arrivo in Austria: “Non sapevo che Wystan fosse omosessuale. La cosa mi era sfuggita. Non che io faccia troppo caso a queste cose. Ma venivo comunque dalla Russia, che in un certo senso è un paese vittoriano”.
Riflessione per me sconcertante. Come sia possibile leggere e amare per anni un poeta come Auden, senza comprendere un dato così essenziale della sua formazione e del suo carattere, per me rimane un mistero. Si pensi a quel passaggio di The Age of Anxiety (opera amatissima da Brodsky ragazzo), laddove Malin, palese proiezione del poeta sulla scena, pensa con riferimento al giovane Emble:
Girlishly glad that my glance is not chaste
He wants me to want what he would refuse
(Sgualdrinamente felice che il mio sguardo non sia casto
Egli vuole ch’io desideri ciò che poi mi rifiuterebbe).
Come è possibile, leggendo passi di questo tipo, non comprendere il tipo di sensibilità nei confronti del sesso che permea la poetica dell’autore? La risposta – con riferimento a Brodsky – può solo riguardare le categorie della suprema purezza poetica. Ma forse – ed è ben peggio – anche quelle del costume: la “cosa” nel mondo slavo godendo di così infima reputazione, non poteva concernere un grande poeta come W. H. Auden.
Mentre erano di Auden certe immagini stupefacenti in poesia; era di Auden la nonchalance nello sbalordire repentinamente il lettore, sconvolgendolo con un’analogia sorprendente. Così il giovane Brodsky lo elegge a maestro e clandestinamente gli invia in occidente versi del tipo
Una veranda assalita dai salici
oppure
Il corpo di ballo docile a un archetto invisibile
delle farfalle
convincendo in tal modo il vecchio maestro Auden dell’esistenza di un giovane genio della poesia perseguitato in URSS, e scatenando l’intelleghenzia occidentale (sempre bisognosa di salvarsi l’anima) in una specie di gara per la sua protezione.
In virtù di tale processo, maturando, dopo la morte di Auden, le immagini di Brodsky vanno sempre più rafforzandosi, acquisendo anche – a tratti – venature di surrealistico compiacimento:
La pioggia di ottobre accarezza
quel che è rimasto del cervello nudo
oppure
Intanto la biancheria del letto
si aggroviglia disperatamente
dentro la lavatrice in cantina.
Fino a far pensare che l’ormai non più giovane Brodsky, adeguatosi ai cliché del mondo occidentale, giunga a immaginare minuscole telecamere – come nelle operazioni chirurgiche – inserite nel corpo dei “pazienti”:
That’s what it looks like inside a virgin
(E questo è come è una vergine di dentro).
Lontano il tempo dei quaranta metri quadri a Pietroburgo da condividere coi genitori, ponendo sopra l’armadio scatoloni e valige al fine di ottenere un minimo di intimità, allorché una ragazza fosse stata disponibile a mostrare “qualcosa di più del seno”.
*
Nel 1992 apparve a Minsk in due volumi Forma vrement, la raccolta completa in russo dell’opera poetica di Iosif Brodsky. Il titolo significa La forma del tempo, e il poeta stesso così lo commenta: “Tutti i miei versi, più o meno, parlano della stessa cosa: il tempo”. Al di là della apparente forzatura insita nella dichiarazione, rileggendo il corpus poetico brodskiano alla luce di tale indicazione, si ha come la sensazione di avere trovato la bussola, capace di fondere e trasformare istanze poetiche slave e anglosassoni, novecentesche e classiche.
Nella concezione brodskiana che l’eternità non sia che una frazione del tempo, acquista assoluta centralità concettuale il famoso discorso di accettazione del Nobel, legato al ricordo delle due sponde del Baltico che da ragazzo lo avvicinavano e – nel contempo – lo separavano irrimediabilmente dal mondo libero. Un concetto pienamente esplicitato in un componimento del 1975 intitolato in inglese dallo stesso autore “North Baltic”:
così un orologio a pendolo,
compagno di ogni battito del cuore,
fermo su questa sponda del Baltico,
continua a ticchettare sull’altra,
testimoniando il tempo.
Un concetto – questo del tempo – che, una volta individuato, può trovare molteplici e variegate esemplificazioni. Dalla fusione con l’idea di spazio sfumante nei grandi recessi della storia (“lo spazio – ad ogni passo delle legioni – intende quanto ciò che è lontano trasmuti in ciò che è vicino”) al recupero di immagini mitologiche desunte dalla tradizione:
Solamente all’aquila, familiare alla sua ala,
mentre ruota nell’oscurità
è forse dato di conoscere il futuro.
Un concetto che per profondità – e nel contempo leggerezza – di stratificazioni, crediamo possa fare il paio – come elemento costituente della poetica brodskiana – con un altro elemento costantemente presente nella sua scrittura: l’acqua. “Soltanto l’acqua, infatti, sempre e ovunque resta fedele a se stessa”, scrive Brodsky, “insensibile a ogni metamorfosi, liscia, distesa, là dove non è più terraferma”. E l’acqua diviene idealmente il tempo, e il tempo acqua
Tutto il pathos della vita
l’inizio, il mezzo, il calendario che si sfoglia,
la fine… tutto svanisce in spume lievi,
eterne, senza tinte.
Pietroburgo, con il padre ufficiale di marina, Stoccolma con il re ad onorarlo, Venezia… Venezia magica, come nelle leggende russe, sulle rive dei mari di zaffiro. Città incantata per la vita è sogno, e quindi per il dopo-vita, con i suoi ritmi dell’acqua e del tempo, dove crociati e mercanti, reliquie di S. Marco, turchi e galee, navi da guerra, da carico, da diporto… tutto diviene infine delicatissimo silenzio.
apprezzo sempre molto queste tue riflessioni sulla traduzione, caro Franco, ne approfitto per aggiungere che la grafia adottata normalmente in Italia per l’autore di cui parli, è Brodskij, fedele traslitterazione (stavo per dire traduzione…… :-) ) del russo Бро́дский. Gli americani quando “passano” le cose nella loro lingua americanizzano tutto, Iosif diventa Joseph e Brodskij diventa Brodsky. Ma siccome tu scrivi, a mio parere giustamente, Iosif, mi parrebbe coerente scrivere Brodskij. Ho guardato un po’ le varie wikipedie in varie lingue e molti usano la grafia americana, alcuni altri quella adottata, con strana pignoleria, in Italia. Ti segnalo che, come estremo, la traslitterazione cinese ufficiale in pinyin del nome del nostro è bùluócíjī!
Caro Sparz, grazie… quella delle traslitterazioni è proprio una vexata quaestio. Confesso che non mi entusiasma molto e sono tra quelli che tendono a semplificare, facendo leva sulla fonetica e sulla comodità per il lettore in lingua d’arrivo. Che, se vede Y, non ha dubbi sulla pronuncia; se vede J sì. Per esempio, io scrivo Mandelstam così… ma capisco il disagio “purista”…
Grazie Franco, un bellissimo saggio pieno di suggestioni tecniche e poetiche.
Il tema dell’esilio dalla propria lingua è ricco di implicazioni, basta pensare al bilinguismo di Beckett, alla scelta di Agota Kristof, lasciata l’Ungheria, di scrivere in quel suo francese asciutto con tanta chirurgica durezza. Lei stessa racconta che nella sua lingua madre, invece, scriveva cose più “romantiche” e “dolci”… e senza andare lontano come non arrendersi all’impoverirsi dell’attuale parlato/scritto italico? Ché una lingua si può esiliare anche da se stessa, in fondo.
Nell’incantata Venezia magica, come nelle leggende russe, un inedito Brodsky [ che così traslitterato sta scritto a San Michele sulla sua tomba ]
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Verissimo, Orsola, mi succedeva anche col primo Charles Simic, con quella sua grazia nel torcere l’inglese sempre un attimo sopra o sotto il pentagramma. E al vertice Conrad.
Interessantissimo approfondimento…
Vorrei solo sapere dove Brodskij scrive questo: ““In questi piatti paesi quello che difende \ dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede \ più lontano”;
e questo: “Poesia è traduzione. Traduzione di verità metafisiche in linguaggio terrestre”;
e dove Frost scrive questo: “What is poetry? What gets lost in translation”.
Attendo riscontro, grazie.
Forme d’acqua
Venezia, una domenica d’autunno
col vaporetto gratis, per “i Morti”:
cimitero di San Michele in isola –
reparto greco, tomba 36:
Igor Stavinskij, musicista. Due
metri quadri di marmo, e fiori sparsi.
Dagli Evangelici, nessuno: uccelli,
solo, tra gli alberi e il silenzio. Un secchio
pieno di penne e fogli vecchi, in russo.
Bacche per terra, in cielo nebbia e sole.
Sul retro della lapide di Brodskij,
questo: LETUM NON OMNIA FINIT. Ecco.
(Solo un ricordo – fine ottobre 2006)
Ma il riscontro atteso non venne…