TQ, fenomenologia di una generazione allo specchio : Andrea Libero Carbone
Sognai che ero una farfalla
che d’esser me sognava
guardava in uno specchio
ma nulla ci trovava
-Tu menti-
gridai
si svegliò
morii.
R.D. Laing
di
Andrea Libero Carbone 1
Di recente mi sono trovato a scambiare due parole con persone che in buona parte non avevo mai incontrato prima e che partecipano alla discussione di TQ, uno di quei crocicchi che inevitabilmente si formano a margine delle grandi assemblee, quando certuni vanno a fumare o a prendere una boccata d’aria (che poi forse è lo stesso), e allora nuovi percorsi si delineano rispetto al discorso generale pronunciato ai microfoni. In effetti TQ ricorda tutte, ma dico tutte, le dinamiche di queste assemblee delle occupazioni, alle quali assistevo magari senza intervenire (o allora facendo delle figuracce) perché c’era sempre chi la sapeva più lunga di me, e con la retorica e con la dialettica se la cavava assai meglio.
La conversazione era incentrata, per dirla in estrema sintesi, sulle perplessità e sul da farsi, e anch’io ho detto la mia. In generale, ho l’impressione che, per citare un grande cantautore del Novecento, in TQ un po’ si fa a gara a chi è più Supergiovane, ma la tentazione di includere, accogliere, magari emulare, o comunque riconoscere legittimità a Matusa e Governi è forte. Per esempio, mi colpisce percepire che c’è una smania quantomeno sospetta di tirare dentro l’editore più grande, lo scrittore di casa in tv ecc., giusto perché fa figo, anche se i suoi problemi, il suo vissuto, la sua storia e in generale l’orizzonte di senso in cui opera non hanno e non possono avere comune misura con ciò in cui la maggior parte degli altri che partecipano alla discussione potrebbe riconoscersi.
A fronte di dubbi come questi, la mia partecipazione a TQ è frutto della scelta di essere pragmatico. Pur condividendo molte delle perplessità espresse da altri e avvertendone molte altre mie, ho scelto (per il momento) di resistere alla tentazione della vertigine metadiscorsiva che mi avrebbe condotto a una irrimediabile mise en abîme di tutto quanto il dibattito. La dialettica e la retorica le ho poi studiate a fondo, ne sono diventato per così dire un esperto sul piano teorico, e benché la mia maestria pratica sia rimasta sostanzialmente invariata nella sua deficienza ho potuto capire che – sempre e da sempre – è più facile e comodo il ruolo di chi fa le domande, ed è più semplice e privo di rischi tenersi fuori da un tentativo di discorso comune e additarlo con scherno dicendo «guarda come sono goffi, brutti e cretini». E stavolta non ho voluto concedermi questa scorciatoia.
Ora, se ho deciso di partecipare, non è perché sia rimasto persuaso dalle motivazioni teoriche di questa chiamata a raccolta (a inviti): non ce n’erano, di fatto, o non erano rilevanti, e del resto nessuno era chiamato a fare altro da quello che quotidianamente fa; e non è perché sia stato colpito dal “livello” del dibattito che ne è conseguito, dato che non ho partecipato al seminarione inaugurale romano, e i suoi postumi telematici mi sono sembrati per lo più fiacchi (ma con molte eccezioni brillanti), appesantiti da chi crede di sapersi destreggiare molto bene con gli strumenti del momento ma di fatto usa una mailing list come se fosse una chat e a dispetto della quantità di post contribuisce poco o punto quanto al merito delle questioni; e pur avendo visto molti intervenire non mettendo a disposizione degli altri competenze o capacità di analisi, ma fidando sulla popolarità regionale, corporativa, cameratesca. Se l’ho fatto, è perché credo che molti di noi hanno davvero, realmente, visto le migliori menti della nostra generazione (spesso allo specchio) distrutte o comunque umiliate o frustrate dal precariato o in ogni caso dalla precarietà, dall’assenza di prospettive, dalla revoca di ogni possibile senso e di ogni ammissibile traducibilità rispetto al sistema di valori delle generazioni precedenti e rispetto a ogni sistema di valori e di pensiero finora immaginabile, e nel contempo le hanno viste anche invidiarsi, scazzarsi, fare sciarra o, peggio, peggio, ignorarsi, negarsi ogni legittimità, disconfermarsi.
Per questo mi è sembrato preciso il criterio generazionale. Per questo ho deciso di adottare una mitezza che pure non mi si addice, perché il sentimento che principalmente colora le mie giornate è una rabbia sorda, e perché il ruolo in cui più mi riconosco è quello del negoziatore e insieme anche del traduttore, adepto di sport che si praticano sì su una scacchiera, ma mescolando tecniche, espedienti e trucchi tratti tanto dalla boxe che dal wreslting (per riprendere i termini di un’analogia proposta da Simone Barillari per illustrare la differenza tra letteratura e scrittura commerciale), conformandomi così alla pratica deleuziana del pourparler: non guerra ma guerriglia, senza quartiere e senza potere. E portando pazienza. E nutrendo a oltranza fiducia. Perché credo che finora ci siamo troppo e troppo spesso tirati indietro. E che senso non c’è se non in quel che facciamo. Quindi, intorno alla questione cruciale sollevata da Gilda Policastro, cioè «Cosa esattamente ci proponiamo di fare?» ho concluso che quel che faccio di importante (sempre ammesso che tale sia, cioè capace di incidere sulla realtà), io lo faccio già come editore (e altri come scrittore, o come critico ecc.), e che in TQ si tratta di parlarne con altri, come con altri ne parlo già altrove, ma di fare in modo stavolta che tutti insieme, uniti nella diversità come una piccola e irredimibilmente grottesca Europa delle lettere, noi altri si possa dare un peso politico più generale e condiviso a quel che già facciamo.
Per esempio provando a dare una risposta e a organizzare una pratica di lotta intorno a questioni che altrove nessuno sembra disposto ad affrontare, come «È possibile che pochi grandi gruppi editoriali si spartiscano la piazza controllando tutti i passaggi della filiera editoriale?» ovvero, «Non occorrerebbe una legge che impedisca a un soggetto di essere contemporaneamente editore di libri, editore di periodici, promotore, distributore nel canale libreria, proprietario di catene di librerie, distributore nella GDO, grossista, distributore nel canale digitale e e-book ecc.?» oppure anche «Perché il Centre National du Livre francese prevede e attua 4 forme di sostegno agli scrittori, 3 ai traduttori, 13 agli editori, 4 ai periodici, 2 alle biblioteche, 5 alle librerie, 5 alle librerie francofone all’estero e 2 alla “vita letteraria” mentre il nostro Centro per il Libro e la Lettura italiano non si sa bene a cosa serva?» o «Siamo sicuri che le provvidenze per l’editoria (periodica) siano una buona cosa?» e «Quali aiuti servono a editori e librai indipendenti?».
NOTE- Dopo Simone Barillariho chiesto ad Andrea l’autorizzazione a pubblicare una sua riflessione sul TQ. effeffe🡅
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Questi sono pensieri sparsi.
La questione sta dunque – lo dico da esterno ma non estraneo a tutta la cosa: l’essere nato nel 1960 mi ha escluso dall’invito al “seminarione inaugurale” e da tutte le attività non pubbliche successive, ma è evidente l’interesse comune – nel trovare una connessione tra una scelta etica e una scelta politica; tra l’agire individuale all’interno dei meccanismi della Repubblica delle lettere, dell’Industria culturale, alla fin fine di questo Paese, ciascuno secondo la propria posizione “professionale”; e l’agire collettivo con il quale ci si pone, rispetto a questi meccanismi, all’esterno (cosa che può apparire paradossale, ma è necessaria).
Mi domando tra l’altro se l’essere autori, editori, critici, consulenti, lavoratori free-lance, eccetera, siano tutte posizioni “professionali” tra loro comparabili. Credo che in buona misura lo siano; benché non del tutto.
Tq appare ai miei occhi esterni e non estranei come una sorta di “congiura dei professionisti”. Non do nessun valore negativo alla parola “congiura”; la trovo preferibile a “complotto”, dove manca l’idea del con-jurare, dello stringere un patto.
Mi domando: che cos’è un professionista? E mi rispondo, un po’ tautologicamente: un professionista è una persona che si riconosce in un’etica professionale. Un ricordo degli anni Ottanta: un corso nel quale mi si spiegò che il vero professionista è colui che sa fornire il prodotto o servizio richiesto in tempi certi, a costi congrui, corrispondendo alle specifiche indicate dal cliente. Questa idea di professionista mi pare poco utile (anche se è vero che molte tra le persone del Tq, e io stesso, campiamo esattamente di prodotti e servizi forniti in tempi certi, a costi congrui, corrispondendo alle specifiche).
L’etica professionale è un costo: in molte circostanze appare conveniente passarci sopra, o addirittura stravolgerla. Il singolo professionista, per sopportare i costi dell’etica professionale, ha bisogno degli altri professionisti.
Nei mesi scorsi mi è stato detto spesso: ma tu, come fai a lavorare per Berlusconi? (Sono un consulente di Einaudi Stile libero; buona parte dei miei libri sono pubblicati da Einaudi o da Mondadori). Non pochi amici e conoscenti mi hanno esplicitamente detto che, finché avessi continuato a lavorare per Einaudi e pubblicare per Mondadori, sarei apparso ambiguo ai loro occhi.
Credo che potrebbe essere utile cercar di abbozzare una “carta” di principi etici per gli abitanti della Repubblica delle lettere. L’adesione di molti a questa “carta” sarebbe di per sé un gesto politico significativo. Permetterebbe di amplicare l’arco generazionale intressato. Aiuterebbe, credo, a rispondere alla domanda: “Cosa esattamente ci proponiamo di fare?”.
Mi domando, infine, se opporsi al fatto che un soggetto possa essere “contemporaneamente editore di libri, editore di periodici, promotore, distributore nel canale libreria, proprietario di catene di librerie, distributore nella GDO, grossista, distributore nel canale digitale e e-book” sia realistico. Queste concentrazioni sono fenomeni mondiali: Mediaset e Feltrinelli sono dei nani, dei meri operatori locali, rispetto a Bertelsmann. Credo che sia possibile creare o valorizzare dei centri di produzione e distribuzione del libro (dell’opera letteraria ma anche dell’opera scientifica, dell’opera d’intrattenimento ma anche dell’opera di divulgazione ecc.) effettivamente indipendenti. Questi centri di produzione dovranno imparare a sopravviere in un mondo popolato da pochi, brutali giganti. Ho il sospetto che l’esperienza di riferimento sia ancora quella di Slow Food.
Non ricordo quale poeta o scrittore scriveva un secolo fa che ciò che conta lui lo faceva alle spalle del pubblico. Vale a dire che al pubblico gli si dà da ingurgitare qualcosa che digerisce facile, per fare alle sue spalle ciò che è attinente all’arte, in termini di forme e di sostanze. Penso anche io, tutta l’arte, anche la letteratura va fatta alle spalle del pubblico. Non solo, dato che il progresso non ha fermate, ora bisogna farla anche alle spalle dell’editore, meglio se magnate, ché un magnate è giusto dia da magna’…
Rispetto alla questione TQ c’è un aspetto che non mi pare sia stato messo in evidenza: gli intellettuali di quell’età non possono fare i cervelli in fuga, come in questi anni stanno facendo alcune delle menti migliori della nazione. Mentre quasi tutti i TQ italiani che hanno qualche competenza si domandano come possano monetizzarla, e se non emigrano all’estero è soltanto per propria scelta personale visto che la competenza e il merito al di fuori dei nostri confini sono valori accolti con interesse, per gli intellettuali la competenza sulle cose d’Italia non è spendibile al di fuori dei nostri confini, o lo è in maniera limitatissima. L’Italia è lontana dal centro della scena e degli interessi globalizzati.
I TQ sanno (o pensano di sapere) tutto sulla nostra cultura, sulla nostra società, sulla nostra politica – ma il massimo che possono fare è raccontarla all’estero in una qualche lingua straniera, nei pochi mass media che dedicano spazi alle nostre questioni e nelle poche traduzioni di opere prodotte qui che vengono allestite. Al di fuori di tali spazi, che peraltro sembrano già ampiamente occupati se non saturati, i nostri TQ sono costretti a stare qua, a disputarsi il piccolo orticello della lettura e della scrittura in italiano con avversari temibili quali gli altri intellettuali TQ, con i CSSON (CinquantaSessantaSettantaOttantaNovantenni – oltre quella età è difficile trovarne anche se non impossibile) e adesso che c’è il web anche con le nuove leve DV, quei dannatissimi DieciVentenni che senza nessun rispetto osano affacciarsi sulla scena e sparpagliare in giro le loro parole piene di k, sn e così via.
Grazie a questa considerazione sono riuscito a spiegarmi un certo, ehm, odore di chiuso che avevo percepito fin da quando ero venuto a sapere del convegno presso la sede di Laterza. I TQ, mi pare, partono dalla sensazione di essere deboli, e invece di mettere in atto strategie per aumentare realmente la propria forza (per esempio tramite l’aumento delle proprie competenze) rivendicano la possibilità di incrementare il proprio ruolo pur mantenendosi allo stesso livello.
P.S. Per ragioni anagrafiche faccio parte anch’io della generazione TQ: sono nato nel 1965. Non me ne chiamo fuori, anche se vedo che è difficile fare di tutte l’erbe un fascio.
Ringrazio gli autori di questi primi commenti, che trovo molto stimolanti.
Trust, concentrazioni e cartelli in ambito editoriale non sono certamente un fatto soltanto italiano ma un fenomeno diffuso e globale. Non mi sembra però che questa sia una ragione sufficiente per non considerare realistico il proposito politico di contrastare questo fenomeno. È una caratteristica peculiare del cosiddetto “pensiero unico” neo-liberista, spacciare ideologicamente per realistico, realizzabile e in fin dei conti reale solo ciò che si conforma ai suoi criteri. Ed è precisamente questa artata evidenza di ineluttabilità che a mio avviso sempre in primo luogo bisogna denunciare, osteggiare e possibilmente scardinare. Come peraltro si tratta di un meccanismo nazionale, internazionale e transnazionale, così la critica e l’alternativa si vanno elaborando e praticando non solo a livello nazionale ma anche internazionale e transnazionale, come dimostra la formulazione di una “Dichiarazione internazionale degli editori indipendenti per la protezione e la promozione della bibliodiversità”. La promozione di una legge che regoli il mercato editoriale ponendo dei limiti alle concentrazioni e ai cartelli, poi, risponde se vogliamo a un approccio politico di destra, liberista classico: si tratta semplicemente di garantire la libera concorrenza sul mercato. Non la considero una linea a me specificamente congeniale, semplicemente mi pare soltanto una base minima e indispensabile. L’altra strategia, quella “dal basso”, di sinistra, che corrisponde al modello slow food/slow book, imperniata su una pratica dell’alternativa, sembra anche a me un riferimento imprescindibile e di certo mi è più simpatica. E anche per questa opzione, credo che la denuncia delle anomalie della filiera editoriale e l’informazione sui meccanismi del mercato del libro (opera in cui peraltro il contributo dato negli anni da Giulio Mozzi mi sembra il modello da emulare) serva a promuovere il “consumo critico” del libro.
Quanto al lavorare alle spalle dell’editore-magnate: non è raro in effetti che autori pubblicati da grandi editori destinino a editori più piccoli e marginali i frutti della loro produzione meno aderenti a un qualche standard.
Se poi è vero che “l’Italia è lontana dal centro della scena e degli interessi globalizzati”, ogni tentativo di discutere dello stato della cultura in Italia, per quanto parziale e controverso possa essere, dovrebbe teoricamente costituire comunque un passo in avanti per porre rimedio a questo stato di cose. D’altronde sono convinto che molti narratori e saggisti italiani in questi anni abbiano dato in più occasioni ottima prova di sé con una produzione che non ha nulla da invidiare a quella di altri paesi.
La “Dichiarazione internazionale degli editori indipendenti per la protezione e la promozione della bibliodiversità” risale al 2007 e si può leggere qui (in italiano qui). E’ firmata dall’Alliance internationale des éditeurs indipéndents, alla quale aderisce la Federazione italiana degli editori indipendenti (attualmente 146 soci, quasi tutti davvero molto piccoli – non ci sono, per dire, né Laterza né minimum fax).
L’intervento di Carbone è molto interessante (e divertente: cosa rarissima in tutto questo parlarsi addosso dei TQ…). Noto tuttavia che la sua prospettiva è più editoriale, mentre a quel che so il nucleo fondativo di TQ stesse elucubrando anche di scrittura e di peso generazionale all’interno della “futura” storia della letteratura italiana.. Senza dubbio, il versante editoriale è quello con più ciccia al fuoco: e meriterebbe approfondimenti. Sono invece in totale disaccordo con le posizioni di Carbone su eventuali provvedimenti contro le concentrazioni etc… Esistono già regole antitrust. Pensare di andare da un’azienda e togliere dei rami di business (Mondadori, Rcs, Feltrinelli) è piuttosto delirante… In realtà, anche nell’economia i grandi dinosauri evolvono e di estinguono: basta essere pronti con nuove specie, più aggressive, per prendere il loro posto. L’esproprio proletario è roba vecchia, oltre che un reato.
Mi risulta che in effetti negli ultimi anni l’autorità antitrust ha dovuto pronunciarsi in più occasioni sullo stato del mercato editoriale, e basandosi sulle regole attualmente in vigore ha ritenuto di dare il suo via libera. L’ultimo esempio in data è quello di Edigita, piattaforma di distribuzione per l’editoria digitale il cui azionariato è equamente ripartito tra Effe 2005 (Feltrinelli, PDE promozione e distribuzione), Messaggerie Italiane (Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, Messaggerie Libri) e RCS Libri. Tutto perfettamente legale. Dunque, a mio sommesso avviso, bisognerebbe cambiare alcuni aspetti della legge. Ora, voler cambiare una legge e a tal fine promuovere una libera discussione non mi pare in sé un proposito delirante, ovvero, per meglio attenersi al registro linguistico della politica, sedizioso o eversivo, o comunque comparabile all’esproprio proletario, tanto più se si tratta di contenere la sfrenatezza neoliberista in direzione sostanzialmente liberale classica – non mi pare cioè di aver proposto la nazionalizzazione dell’editoria (cosa che, lo preciso a scanso di facili equivoci, mi farebbe ribrezzo) – bensì un intento schiettamente politico, riconducibile alla democrazia parlamentare più tradizionale. Certo, ammetto che nel nostro paese mantenersi entro i canoni della democrazia parlamentare e ragionare nel merito sui problemi reali possa produrre per contrasto un effetto delirante. Mi pare comunque che, dati i recenti risultati elettorali, gridare al comunista a ogni richiesta di garanzie minime di equità stia diventando démodé, o che in ogni caso come stratagemma stia perdendo smalto.
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