SUL CASO BRAIBANTI
di Franco Buffoni
Il colpo di pistola di Verlaine contro Rimbaud nel 1872 svegliò la Francia sull’esistenza dei legami omosessuali, come il processo a Wilde svegliò l’Inghilterra nel 1895, e il suicidio di Heinrich Krupp la Germania nel 1902. La Spagna dovette attendere l’assassinio di Federico Garcia Lorca nel 1936. L’Italia, buona ultima come sempre, anche nelle negatività, se ne rese conto con l’assassinio di Pasolini nel 1975, o al più con il processo Braibanti nel 1968. Aldo Braibanti, partigiano e intellettuale, condannato a nove anni di reclusione, poi ridotti a due, per “plagio” nei confronti del ventiduenne Giovanni Sanfratello. Che la cattolicissima famiglia volle amorevolmente “curare”: in clinica psichiatrica, con quaranta elettrochoc e otto coma insulinici. Il fatto che due uomini adulti potessero amarsi era così inaccettabile che un qualche reato doveva per forza essere stato commesso. L’Italia parve svegliarsi solo allora – e molto malamente – su questi temi, giungendo a campagne di stampa simili a quelle francesi, inglesi e tedesche di molti decenni prima.
Fa rivivere “Il caso Braibanti” in chiave drammaturgica lo scrittore MASSIMILIANO PALMESE in un mirabile atto unico andato in scena al Teatro Belli di Roma dal 24 al 26 giugno scorsi – e prossimamente in scena al Teatro Nuovo di Napoli – per l’efficace regia di Giuseppe Marini e un’impagabile interpretazione di Fabio Bussotti e Mauro Conte.
Scrive Palmese: “L’Italia non ricorda, è una delle prime battute che ho dato ad Aldo Braibanti, nel testo a lui dedicato. Quando mi sono imbattuto nel “caso Braibanti”, mi è infatti sembrato davvero singolare che di una pagina oscura ma altamente istruttiva della nostra storia si parlasse così poco, e che fosse ricordata solo dai più adulti e da qualche giornalista. Per fortuna internet ha reso disponibili interessanti articoli di giornale e autorevoli commenti alla vicenda. Prezioso per me è stato il saggio di Gabriele Ferluga, “Il processo Braibanti”.
Poco o niente c’è nel testo teatrale che non provenga direttamente dagli atti del processo, da libri o da articoli di giornale con interviste ai protagonisti o con commenti che intellettuali ed artisti hanno riservato alla sentenza. Le lettere di Braibanti alla madre sono originali, e la poesia finale è dell’autore. Non ho voluto “inventare” nulla. Mi sembrava che si dovesse trovare solo il giusto tono, un equilibrio tra satira di costume e dramma psicologico, per tenere insieme per esempio le parole degli avvocati, così violente, insieme alle loro tesi, così ridicole. Sono a tratti divertenti infatti gli interrogatori e le arringhe; mentre sono agghiaccianti le dichiarazioni omofobiche dei cosiddetti “periti”, per non parlare delle cartelle cliniche firmate dagli “specialisti in malattie nervose” dei manicomi dove fu rinchiuso il giovane amico di Braibanti, Giovanni Sanfratello.
La mia conclusione è che la lunga inchiesta – quattro anni – e infine il processo a cui fu sottoposto Aldo Braibanti, e con lui Giovanni, furono una vicenda medioevale. Ma una vicenda è indicativa di come in tema di diritti civili e di laicità l’Italia sappia guadagnarsi sempre l’ultimo posto nelle classifiche europee. IL CASO BRAIBANTI ci racconta infatti come nel ’68, mentre il mondo si trasformava in un luogo meno repressivo, in Italia bastò una “cricca” di avvocati, di psichiatri e di preti, per trasformare una storia d’amore in un “Romeo e Giulietta” omosessuale, in cui i padri per punire i figli non esitano a denunciarli per “plagio” o a sottoporli a coma insulinici ed elettrochoc. E, se ancora oggi nel nostro Paese le stesse cricche politiche, reazionarie e ipocritamente bigotte, si oppongono a una seria legge contro l’omofobia o alle unioni civili per i gay, vuol dire che IL CASO BRAIBANTI non è una pagina del passato ma storia presente che deve ancora farci indignare.”
Non abbiamo molto da aggiungere a queste parole dell’Autore, se non un caldo invito ad assistere allo spettacolo, che riesce persino ad essere divertente grazie alla bravura degli attori. Con grande forza mimetica, infatti, i due protagonisti, sempre in scena unitamente al musicista Mauro Verrone, recitano anche la parte degli avvocati, dei preti, dei genitori, caratterizzandoli grottescamente nelle rispettive inflessioni dialettali. Ne fuoriesce uno spaccato di Italia clericale e omofoba, che tanti atei devoti vorrebbero perpetuare anche ai nostri giorni.
Caspiterina è un’ operazione difficile da ralizzare, sono proprio curioso.
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