La vita in tempo di guerra
Per capire un libro non serve leggerlo da cima a fondo. I libri, più saggi degli uomini o forse solo più scaltri, cedono prima l’anima del corpo, tanto quella, si sa, è immortale. A volte la esalano così in fretta che non si fa neppure in tempo a toccarli. Non è difficile. Per cogliere lo spirito di un libro basta sfogliarlo, annusarlo un po’, leggerne qualche brano, e se vale davvero ne saremo subito conquistati. Succede così con La Vita Gueresca, le memorie dal fronte dell’agricoltore trentino Giacomo Beltrami. All’apparenza è il classico diario di un reduce della Prima Guerra Mondiale, che racconta i bombardamenti e gli assalti con una lingua elementare, ma è sufficiente scorrerne poche righe in un’antologia e fra mille errori si scoprirà un verso immortale, di quelli che si studiano a memoria nella scuola dell’obbligo. La perla è la celebre similitudine della poesia Soldati, solo che Beltrami la scrisse due anni prima di Ungaretti, nel 1916, osservando che il nemico “cadeva come le foglie deli alberi lautuno”. Non si tratta di plagio, sebbene l’analoga circostanza bellica autorizzi il sospetto, intanto perché il manoscritto di Beltrami non fu mai pubblicato, e poi perché i versi di Ungaretti valgono più per la struttura, con i due settenari ritmati dall’enjambement, che per la similitudine, tutto sommato ovvia; se no anche mio nonno anticipò Yves Klein quando pitturò di blu la porta della cantina. Però è il segno evidente di una sensibilità estetica non comune, dell’appartenenza a una grande tradizione, difatti la stessa immagine si trova, con motivazioni diverse, in Omero, Virgilio e Dante, volendo citare solo i maggiori. Per Ungaretti il motivo dell’accostamento tra uomini e foglie era la precarietà umana, quel “si sta” sempre in bilico tra la vita e la morte, mentre per Beltrami significava la caduta, la sconfitta, non a caso riservata al nemico; e il nemico di un suddito dell’impero austroungarico erano anche gli italiani, tanto che i trentini venivano mandati a combattere lontano, contro i Russi, temendo che lo scontro coi fratelli di lingua li potesse indurre a disertare.
Ma il ricorso alla similitudine in Ungaretti e Beltrami non fu un caso isolato. A leggere le tante testimonianze dal fronte pubblicate per il centenario, come quelle incluse nella Storia intima della Grande Guerra di Quinto Antonelli (Donzelli editore), fu soprattutto con la similitudine, la più semplice e diretta delle figure retoriche, che i poeti nei versi e i fanti nelle lettere provarono a raccontare gli orrori del conflitto. Evidentemente, una violenza così cieca e distruttiva, frutto della prima guerra davvero mondiale per dimensione, uomini e Stati coinvolti, doveva essere ricondotta a qualcosa di noto per renderla comprensibile a chi era rimasto a casa. A parte questo tratto comune però, la scrittura dei soldati e quella degli ufficiali appartenevano a due mondi totalmente diversi. Gli ufficiali si arruolarono volontari, perché fu il partito degli intellettuali e dei giornalisti, come i futuristi di Marinetti e i seguaci di D’Annunzio, a trascinare in guerra una nazione titubante. Secondo loro l’Italia era fatta ma non compiuta, e serviva un lavacro di sangue per riconquistare le terre irredente e cementare lo spirito identitario del popolo. Nel voluminoso epistolario degli ufficiali curato da Antonio Monti, la retorica patriottica della bella morte che anima quelle lettere è finalizzata a sostenere la bontà della causa italiana. Anche considerando la mano pesante della censura, i veri destinatari sembrano essere i posteri, più che i familiari. Le similitudini usate dagli ufficiali restano lugubri e angosciose ma sono sempre riscattate dallo scopo eroico, dal sacrificio consapevole, al punto che a volte, come nelle parole del sottotenente Annibale Calini, s’invitano i genitori a benedire la guerra perché “come il fuoco mi ha distrutto, ma ha coronato di luce la mia fine”. Al contrario, il soldato semplice in genere era un contadino, un artigiano o un manovale obbligato a combattere. Molti ufficiali lo ritrassero in modo paternalistico e indulgente, come fosse un bambino sperduto, in alcuni casi lodandone addirittura la beata ignoranza.
Giani Stuparich (in Guerra del ’15, fresca ristampa di Quodlibet), notando un contadino sul treno per il fronte, ne rimarcava l’espressione terrorizzata e ammutolita da animale condotto al macello; e forse fu proprio per ridargli voce che l’interesse degli storici col tempo s’è concentrato sulla scrittura popolare dei combattenti. L’emersione di uno sterminato corpus di epistolari e memorie ha favorito una storiografia “dal basso” che intendeva porre l’accento sui veri protagonisti della guerra. Sembrerà strano che in quelle condizioni bestiali, dentro trincee infestate da topi e pidocchi e in mezzo a cadaveri insepolti, i soldati sentissero ugualmente il bisogno di scrivere, ma quello era l’unico modo che avevano per fuggire l’orrore del presente. Filippo Guerrieri, un giovane tenente, in una lettera ai genitori spiegò l’importanza di quel rapporto: “Difficilmente mandiamo delle maledizioni, perché a tutto siamo abituati, non ci si arrabbia se piove e non abbiamo da cambiarci, se il rancio non arriva, se il fuoco infuria, siamo alla guerra e deve essere così, ma guai se la posta non arriva, è l’ira di Dio che si scatena”. Molte lettere esprimono la nostalgia di casa, la paura di morire, la speranza in una rapida fine delle ostilità; ma in alcune regna lo sconforto più nero, come le parole agghiaccianti che il fante Andrea Pistoia rivolse alla moglie: “non pensare troppo a me, considerami perso, io non sono più niente, non esisto più, non spero neanche più di vederti”. La sintassi è spesso impacciata, rasenta l’afasia, quasi che la necessità e l’impossibilità di raccontare l’inferno non fossero due principi opposti, bensì due facce di un unico processo. In una lettera del calzolaio trentino Angelo Poli, coinvolto nella terribile battaglia di Rawa-Ruska, questo ossimoro suggella un lungo elenco di atrocità. Dopo aver tratteggiato dettagliatamente un panorama apocalittico da “finizione del mondo”, Poli conclude dichiarando: “era una roba che non si può nemmeno deschrivere”. In queste lettere si avverte spesso lo sforzo di abbandonare il dialetto, e tuttavia è grazie a quei goffi tentativi che la lingua risulta più aderente ed efficace nel registrare lo choc della guerra.
Anche la scrittura di Beltrami risente della sua formazione vernacolare, oltre al fatto che compila le sue memorie a quarant’anni, ben lontano dai ricordi scolastici, eppure i frequenti errori non affaticano il lettore, che si sente totalmente immerso nella storia grazie allo stile diretto e partecipe. Spedito nell’agosto 1914 a combattere in Galizia, Beltrami scrisse queste memorie due anni dopo, durante la prigionia in Uzbekistan. Da quel gelido finisterrae raffigurò il tramonto della sua civiltà con grande tenerezza ma senza infingimenti, sapendo che le contraddizioni di quella civiltà erano insuperabili, ma sapendo pure di affondare le proprie radici in quelle contraddizioni. In questo senso, La Vita Gueresca è il resoconto di una disfatta personale e collettiva, il testamento di un’esistenza che si scopre infine abbandonata a se stessa. Al ritorno a casa, dissolto l’impero asburgico, Beltrami diventerà il suo nemico fraterno: un cittadino italiano. Farà in tempo a sposarsi, ad avere una figlia, a vedere un’altra guerra e a morire poco dopo, nel ’48, senza più riprendere in mano la penna. Quel bellissimo manoscritto resterà un unicum, tenuto nascosto perfino ai familiari. Consegnato postumo all’Archivio della scrittura popolare di Trento, oggi lo si può leggere integralmente solo in rete, in allegato alla bella tesi di laurea che Federico Manica gli ha dedicato. Descritto dai discendenti come un uomo basso e schivo, dedito unicamente ai frutti del suo orto e alla coltivazione del tabacco, Beltrami visse l’esperienza della scrittura come una breve parentesi, qualcosa che cominciò e finì con la guerra. Fece come le nespole che danno il meglio di sé e acquistano le ali cadendo, quelle che maturano nel breve spazio tra il ramo e il suolo, che si staccano acerbe e trasmigrano come anime nel tempo di un respiro, lasciando sul terreno soltanto una piccola poltiglia silenziosa.