Le bambine nei fumetti

di Francesca Matteoni

Nipotine di Alice o dell’elfo caparbio Jane Eyre, reincarnazioni ostinate di Cappuccetto Rosso e di Gretel, creature che cavalcano il tornado e che sanno di essere a un tempo Dorothy e la Strega dell’Ovest, le bambine vanno per il mondo, guidate da un’unica paradossale regola: imparare a perdersi. Lose something everyday, scriveva Elizabeth Bishop e mi pare che questa frase calzi meglio di una scarpetta di vetro alle varie ragazzine che ho conosciuto negli ultimi mesi dentro le storie a fumetti. È successo forse che verso la fine dell’inverno mi sono ricordata della Stefy, tipetto con salopette rossa, cipolla di capelli neri in testa e occhi strabuzzati per lo stupore, di cui leggevo sul Corriere dei Piccoli quando avevo la sua stessa età. Maestra di esplorazioni e pasticci mi portava tra creste colorate ai concerti punk, in giardini nascosti dentro le case o fin dentro la vita di Sandro Pertini che entrambe amavamo come un nonno di tutti. O era invece a salutarmi la Giovanna, ragazzina sovrappeso, con il nasone e una chioma scarruffata di riccioli rossastri, che di notte insieme al suo cane Ciccio sogna e nei sogni è una dama medievale amica del drago Tommasone? Fatto sta che un po’ per volontà un po’ per magia altre bambine hanno bussato alla porta di casa.

Viola-giramondo-Teresa-Radice-620x360Con la carovana del Circo della Luna è arrivata Viola Giramondo, nata dalle visioni e dalle storie di Teresa Radice e Stefano Turconi. Viola Vermeer ha dodici anni ed è figlia dell’infinitamente piccolo come dell’entusiasticamente grande: un entomologo e una donna cannone, che insieme a Nonno Tenzin, all’amico Samir, al fintamente autoritario zio, direttore del circo, e agli altri girovaghi e giocolieri formano la sua famiglia. L’epoca in cui si svolgono le sue avventure è un vagheggiato Ottocento in cui la ragazzina viaggia da Parigi al Canada, alle distese nord-asiatiche. Siamo quindi in un’epoca in cui la lentezza è ancora contemplata e lo spostamento nel paesaggio diventa la propria storia di formazione. Accanto a Viola si trovano personaggi singolari e famosi dell’epoca, come Henri de Toulouse-Lautrec e Antonìn Dvoràk, amici magici che mi riportano a quando anch’io, ragazzina, parlavo con i poeti e gli artisti saltati fuori dai libri, dalle immagini, dalle note sfrigolanti del giradischi.  Perché Viola, come facevo io, fantastica e si definisce cittadina del mondo, innamorata di tutte le sue diversità, come quando tra tavole splendide per tratto e colore, incontra Hiawatha, nativo americano che capisce gli animali e fa sorridere chiunque come me abbia sempre preferito gli indiani ai cavalieri – un odore muschioso di terra selvatica, di capanna e stelle, erba frusciante, bestie tra cui la tribù umana è solo una fra le tante. La sua vicenda, in parallelo con la vita, si conclude con l’esperienza del distacco, accompagnando Nonno Tenzin fra le steppe dell’Asia per morire ricongiunto al suo paese. E anche l’addio e il dolore nutrono la bellezza di cui la bambina è parte. È un mondo nomade quello che ci accoglie nel fumetto, esistenze in continua migrazione, che come i nomadi fanno tesoro della terra che solcano, delle persone in cui capita di abitare, dei loro desideri. Chiede al lettore, che sia bambino o lo sia stato, di avere fiducia, ma con gli occhi aperti, con la capacità di riconoscere sempre qualcosa d’altro oltre se stesso.

Dal vagare ramingo al ricordo, per Mamette del francese Nob l’infanzia è lo scrigno intatto del passato. L’anziana Mamette infatti siles-souvenirs-de-mamette rivede bambina quando,  con tutt’altro sentimento rispetto a Viola, lascia i luoghi conosciuti per andare a vivere in campagna. L’affido temporaneo della madre ai nonni è un modo di nascondere l’abbandono: dal volto corrucciato di Mamette esplodono le paure e le delusioni dovute agli adulti, ma anche la caparbietà di chi non può fare a meno di pretendere il suo posto tra gli affetti. Mamette è piccola, sembra un folletto brusco, non comprende il quotidiano duro e semplice dei suoi parenti e tuttavia impara a trasformare il trauma in una lezione di vita. L’espressività del disegno soccorre proprio tutti i momenti in cui da bambini si ascolta, non si capisce, ci si sente straniti al confronto con gli adulti e nel silenzio si forgia la propria memoria come una resistenza. È più facile allora far amicizia con un animale, una capretta ad esempio, che non verrà mai meno, non tradirà la nostra speranza. Alla fine del primo albo la bambina fugge nel buio. È il buio di tutto il futuro che si raccoglie nel sonno notturno della Mamette da vecchia, la quale al risveglio forse non sa più se ha sognato, se il passato va davvero a dimorare da qualche parte, se davvero ci allontaniamo nel tempo e come ci separiamo dal corpo che abbiamo avuto molti anni fa. Di nuovo l’autore non ci dice questo espressamente, ma lo si legge sopra occhiali della protagonista con la nostalgia perfino del dolore.

Dolore e passaggio costituiscono i tratti di I kill giants narrato da Joe Kelly e disegnato da JM Ken Niimura. Barbara Thorson è una bambina solitaria, brava nei giochi di ruolo a sfondo fantasy, accudita dal fratello Dave e la sorella Karen, che manda avanti la famiglia da quando il padre se ne è andato. La bambina non ha amici, ma è costante oggetto di derisione da parte dei compagni della scuola elementare, ai quali si rivolta con rabbia. Ciò che gli altri ignorano è che Barbara custodisce gelosamente il martello Koveleski, un’arma incantata, capace di distruggere i giganti. Perché sì, nel mondo, noti solo a Barbara, queste creature si muovono malevole e pronte a sferrare attacchi da cui occorre difendersi nei modi più strani: per esempio dormendo in cantina, evitando di salire al primo piano della propria casa, dove un mostro devastante chiude la via per la sua vecchia stanzetta. Forse sorgono dal mare che bagna la piccola cittadina. Forse sorgono dalla furia di Barbara, che nasconde l’ indicibile di chi non riesce a capire l’esperienza in cui è immerso, non ha una bussola per uscirne e quindi non può che ricorrere alla propria fantasia per sopravvivere anche a costo dell’estrabarbaraniamento. Cosa succede quando da bambini ci sorprende una realtà ostile dove il vero si ribalta nell’orrendo e l’interiorità nell’unica dimensione abitabile? I giganti che Barbara deve sconfiggere di cosa sono fatti? La loro materia è il trauma di chi cresce prendendo consapevolezza della morte di coloro che amiamo; è la società che non accoglie il bizzarro, il diverso, inteso qui come chi esige le sue parole, la sua narrazione di fatti altrimenti sconvolgenti. Gigantesca è la conformità che cancella d’un colpo la sofferenza come l’amore. Gigantesca onda che ci travolge, aumentando nelle vignette. Gigantesca è la pazzia con cui si cerca una via di fuga, bambine di ogni età dentro la perdita, e se fuggire significa farsi travolgere, può pure andar bene. Ma poi c’è il momento in cui una presenza amica, un affetto, toglie il velo e la fantasia torna a poggiare sul suolo, si fa strumento per accettare il male e attraversarlo. Allora il martello di Koveleski compie la sua magia: è una madre morente al piano di sopra che va guardata e lasciata trascorrere nel proprio cuore; è una sorellanza familiare che si estende oltre i confini parentali, per raggiungere pochi, forse, ma che non tradiranno. Fino alla fine ricordare che è tutto vero – e che un gigante per essere domato, va prima di tutto compreso.

O, con un cambio di prospettiva, bisogna indossare i panni del mostro che ci terrorizza affinché si riveli come nient’altro che la nostra mutevole identità. “Il giorno in cui nacque Amina … fu il giorno in cui sua madre morì”. Così comincia Amina e il vulcano di Simona Binni, anticipandoci che quanto vedremo è la storia di chi si trasforma nel suo proprio io e ci riesce nonostante l’amore di un padre che può farsi opprimente per troppa paura. Il fumetto è costruito come una fiaba: l’eroina proviene da un lutto, come Cenerentola o Biancaneve; ha un padre amorevole, ma cieco davanti alla sua natura e una matrigna insofferente; viene allontanata per un periodo da casa con lo spettro di un rientro che comporterà una clinica psichiatrica. Perché Amina ha una dote speciale: parla con gli animali. Sogno avverato di tanti bambini (e adulti), la straordinaria capacità è per la matrigna sinonimo di squilibrio mentale, rompe le sicurezze di un’esistenza dove le strade sono già state tracciate da chi le ha percorse prima. La vacanza estiva sull’isola di Stromboli, presso la casa dei nonni materni, è l’avventura iniziatica che la libera, lascia che dentro Amina risplenda l’Anima.

L’anima è infatti  un contatto felice con la creatura  fantastica che ci conosce dal profondo, che fa di quel mare stravolto in I kill giants,amina una distesa quieta, immersa nella luce degli astri. La fiaba di Simona Binni riecheggia di tutte le voci acquatiche del folklore europeo, che indossano sia un abito animale che uno umano e cercano di essere amate in questa doppia natura che le rende misteriose e affascinanti. La lezione che ogni volta si apprende ci dice che trattenere qualcuno in una forma che non gli appartiene significa ucciderlo o perderlo per sempre. Nella tavole vediamo Amina che vuole sapere, che si impaurisce, che riconosce un serpente marino il cui tocco non la stritola, ma è gentile, le svela il segreto della sua persona. Tutto questo avviene in un paesaggio marino ancora incontaminato, dove roccia e acqua del mare meravigliano e insieme ammoniscono lo spettatore umano, gli chiedono di tornare umile e saper aspettare che la vita abbia il suo corso, triste e gioioso assieme. Il vulcano sopito dell’isola mediterranea è una leggenda antica che rivive nelle cure dei nonni e poi nella bambina che va incontro alla sua maturità emotiva espressa nel cambiamento favoloso del suo corpo, dove l’umano e l’animalità, il domestico e il selvaggio infine si uniscono.

Se Mamette e Amina si affidano agli animali, più a nord, in una Scandinavia immaginaria, ci imbattiamo in Hilda, ragazzina dai capelli blu, che  ha a che fare con qualsiasi tipo di essere vivente: un omino di legno; Twig, un volpino azzurro con piccole corna; i giganti e i troll, folletti burocratici ed elfi domestici. Scritti e illustrati da Luke Pearson i libri sono dotati di mappa che mostra i luoghi e le dimore dei vari personaggi di cui Hilda fa la conoscenza. Le tavole mostrano paesaggi nordici fatti di roccia, muschi, erba, pochi alberi, tempeste di neve. Nel mezzo sorge la casetta rossa e fumante dove abitano la bambina e sua madre, interessante figura di adulto, che la protegge senza invadere i suoi spazi, che, anzi, comprende di aver molto da imparare dalla bambina, mentre l’aiuta a crescere.

La bellezza dei libri di Pearson consiste nella realtà che la bambina percepisce nel tutto, perché tutto una volta immaginato esiste – ma anche in un universo naturale che ha un suo ritmo, non sempre rispondente alle aspettative e alla curiosità di Hilda. Di queste terre sono espressione i giganti addormentati che sembrano montagne e colline; l’ingegnoso uomo di legno, attratto dall’abitazione di Hilda, eppure imperscrutabile come potrebbero esserlo i pensieri della vegetazione; il popolo invisibile dei folletti che protesta contro le due umane, insediatesi proprio sopra i loro territori; un troll roccioso che si anima di notte. Proprio a questo troll, nella prima storia, la bambina ha recato un torto cui deve riparare. Il pericolo delle cose sta spesso nell’avventatezza con cui le affrontiamo o nell’ignoranza; ma Hilda è intraprendente, amichevole, fiduciosa quanto serve per risolvere inimicizie e mutare la diffidenza nella distanza rispettosa tra creatura e creatura. Nello spazio lei è il punto di domanda, l’esserino di corsa che scombussola l’ordinario solo per creare nuove connessioni. Pearson è bravissimo nell’illustrare la vastità intorno alla piccola casa e al contempo la vivacità infantile di Hilda, che emerge dalla sua stanzetta nelle ultime due pagine del primo libro. Un piatto di biscotti, un flauto di legno, maglioni variopinti, disegni sparsi ovunque, lucine che pendono dagli scaffali, campioni vegetali e sassi, pupazzi con le fattezze degli animali là fuori, Twig che dorme sotto la scrivania, un ciocco di legno, libri, oggetti raccattati un po’ ovunque, perché … non si sa mai cosa potrebbe tornare utile a una bambina – tutto questo è la colorata confusione di una mente fervida per cui ogni giorno è l’avventura dei propri sogni. Hilda legge, disegna, annota, esperisce l’indifferenza della grande natura, che la tiene in sé eppure a fatica la scorge: così nel secondo libro si chiude la vita tra le lande desolate a causa di un gigante distratto che cammina sopra la sua casa. Con la mamma e Twig deve quindi andare a vivere a Trolberg, la città. Alla nostalgia per l’esistenza perfetta nella solitudine delle montagne, la bambina sostituisce ben presto la scoperta: perfino la città ha le sue creature problematiche, come un pennuto nero che non sa più volare e con cui, irrimediabilmente incapace di rintracciare la via di casa, inizia a vagare per le strade. “È tutto così interessante. Non pensi?” gli dice. Piantine sorgono nelle spaccature; i portoni hanno tutti una loro personalità; i tetti colorati, che si vedono dalla torre campanaria, sono finalmente anch’essi una foresta. E sono poi così  tranquilli questi luoghi urbani? Non si aggirano anche qui mostri spaventosi, enormi segugi neri?  Divorano cose e persone (per poi restituirle, magari un po’ bavose), ma solo perché cuccioli fuori misura, sperduti e spaventati a loro volta. E laddove nella natura c’era un uomo di legno a soccorrerla, qua Hilda incontra un elfo domestico sfrattato.

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 Ecco, sono riemersa dalle immagini, ho scritto quanto dovevo, anche se oltre le protagoniste, tra le vignette, c’è sempre un ghigno, una faccia buffa, un elemento del paesaggio che mi sfugge. Aspetto di sapere cosa mai è accaduto a Mamette nell’oscurità e di seguire Hilda in un’altra storia di quotidiano incantesimo; aspetto di sapermi ancora bambina in un fumetto inesplorato. Metto nella mia borsa magica cinque parole: viaggio, memoria, dolore, trasformazione, immaginazione, che sono Viola, Mamette, Barbara, Amina, Hilda e moltissime altre bambine senza nome, tutte mescolate insieme in un talismano.

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.