A proposito di un popolo di poeti
Biagio Cepollaro e Luca Vaglio
La conversazione che segue tra Luca Vaglio e me ha trovato spunto iniziale dall’articolo-inchiesta da lui pubblicato il 29 maggio 2015 dal titolo Un popolo di poeti, ma chi li legge oggi? su Gli Stati Generali Rileggendo l’articolo ho fatto alcune riflessioni che gli ho poi inviato via mail. E così è nata questa conversazione sul tema dell’ ipotetica diminuzione della “percezione” della poesia da parte del pubblico “colto”.
Biagio Cepollaro:
Continuo a non essere sicuro della validità dell’ipotesi iniziale e cioè che oggi la poesia sia meno ‘percepita’ dalle persone di buona cultura rispetto a ciò che sarebbe avvenuto negli anni ‘50… Questa ipotesi dovrebbe essere suffragata da un’indagine adeguata. Però nonostante i miei dubbi, devo riconoscere che l’inchiesta ha sollecitato una serie di riflessioni interessanti. A me pare che le risposte si siano disposte sostanzialmente su due versanti: uno “sociologico” confermante questo declino: le vendite o le mancate vendite, l’istruzione, i mass media, i social network, il mandato sociale e la superiorità della canzone o del ruolo ‘pubblicistico’ del narratore; l’altro più fiducioso e minoritario, tradizionalmente idealistico o avanguardista: la fiducia nella poesia e nei suoi tempi lunghi, la valutazione della vivacità innovativa della lingua poetica.
Credo sia necessario partire dalla considerazione che non esista un solo modo di concepire una “buona cultura”: in questi ultimi tre decenni si è trasformata proprio la forma della cultura, fino a diventare quasi irriconoscibile per le ‘generazioni’ di cultura precedenti. Negli anni ’90, anche sulle pagine della rivista Baldus, riflettevo su questo sulla scorta di riferimenti alle suggestioni provenienti da Wittgenstein e, per altri motivi da McLuhan e Walter Ong, da Lyotard e Paul Virilio. Quelle riflessioni andrebbero aggiornate con il nuovo campo di discorso istituito dalla rete.
Le forme della cultura non sono solo vesti retoriche, sono anche una sorta di a priori che sembrano determinare i modi concreti in cui i contenuti possano apparire ed essere trasmessi, anzi, condivisi. E non si può forse prescindere da questo. Né si può più dire che la ‘poesia non la legge nessuno’ perché vi è un consumo in rete notevole che non corrisponde certamente al mercato librario che resta quasi inesistente, se sono corretti i numeri citati dall’articolo. Mi viene il sospetto insomma che il problema non sia tanto della marginalità del genere poetico (ma è mai stato davvero un problema? Forse no …) quanto piuttosto del passaggio ad altra forma della cultura che non prevede la centralità della parola e la forma della soggettività che a quella centralità si riferiva (penso a Robert Musil che scriveva La conoscenza del poeta nel 1918, affidando al poeta ciò che dell’esperienza è singolare, la singolarità, l’eccezione …). Il digitale ha intaccato sia la solitudine della parola che riflette, mescolandola profondamente all’immagine e al suono, sia l’esperienza del singolare che è diventata una specie di ‘personalizzazione’, nel senso che questo termine ha assunto nelle “opzioni” che ogni programma prevede … Il singolare, l’eccezione, di fatto sono previsti dal programma … Ho sentito anche il neologismo “customizzare”… Le forme della soggettività (o della soggettivazione, meglio) dipendono dalla piattaforma, come una volta dal campo di discorso che istituiva le parti e i ruoli. Quindi credo che sia molto mutata sia la forma della cultura che la sua trasmissione e condivisione e che la poesia come genere letterario scritto abbia subito un’ulteriore mutazione grazie alla rete che l’ha ricondotta in quella condizione che Walter Ong definiva di ‘oralità secondaria’, dopo le forme imposte e introiettate del libro stampato.
Luca Vaglio:
L’intenzione, come precisato nell’articolo, è di riflettere, di far riflettere su di un tema, quello della marginalizzazione del genere della poesia, di cui la critica già negli anni scorsi si è occupata. Non va trascurato il calo delle vendite denunciato da un editore storico come Crocetti e che una condizione analoga, pur in assenza di dichiarazioni, riguardi i pochi altri grandi editori che ancora pubblicano poesia. E c’è anche che rispetto al recente passato risulta nel complesso meno forte la presenza dei poeti all’interno dell’industria culturale. Non esistono, o non sono facilmente reperibili statistiche di sistema sul numero delle vendite e dei lettori di poesia. E la ricerca Nielsen secondo cui poesia, classici e saggistica insieme valgono il 3% del mercato rafforza l’idea che i numeri con cui abbiamo a che fare siano piccoli. E’ vero poi che oggi molta poesia viene letta e pubblicata su blog letterari e in altri spazi online, ma si tratta comunque di una fruizione di nicchia. Superando la logica dei numeri, che per la poesia non sono e non sono mai stati il centro del discorso, l’ipotesi di partenza è che la poesia, il ruolo e il nome dei poeti oggi siano meno percepiti dal pubblico vasto rispetto ad alcuni decenni fa. E il fenomeno è più notevole se avviene anche tra persone con un livello di formazione elevato e che mostrano interesse verso altri generi letterari e artistici. Forse il tema meriterebbe un’indagine statistica, che comunque non risolverebbe ambiguità e dubbi. Ma non mancano indizi che lasciano pensare che da qualche decennio i poeti italiani siano meno conosciuti o percepiti dal grande pubblico. Può essere un arbitrio usare per una ricerca di questo genere lo strumento dell’inchiesta giornalistica, di sicuro adatto a casi, come quelli della cronaca o dell’economia, più facili da circoscrivere nel tempo. Però si tratta di un arbitrio cosciente, di un rischio calcolato, poichè l’inchiesta, potendo ospitare in poco spazio diverse opinioni, si presta bene a sollevare problemi, introdurre discussioni e avviare riflessioni. Se questo avviene, posti alcuni dati di fatto e un lavoro attento, di norma vuol dire che la domanda è corretta, che il tema c’è, al di là di possibili investigazioni successive.
Provando ad affiancare altre considerazioni a quelle presenti nell’articolo, qui sopra e in altri luoghi, e senza pretendere di esaurire il problema, credo che giovi ragionare sul ruolo della canzone leggera. Proprio su questo, a mio avviso, come evidenzia Guido Mazzoni nel suo saggio “Sulla poesia moderna”, si gioca molto dello spostamento di percezione del grande pubblico e della conseguente marginalizzazione del genere della poesia. L’argomento merita di sicuro più spazio, però non è un fatto di poco conto che proprio a partire dal dopoguerra e per il periodo successivo si affermi sempre di più, e con gradi diversi di ambizione artistica, la canzone leggera. E’ possibile che la canzone, sebbene per struttura sia tutt’altra cosa rispetto alla poesia, essendo più immediata da recepire e a sua volta con il testo in versi, nella percezione e nella fruizione di molti abbia, almeno in parte, sostituito la scrittura poetica. O, forse meglio, può essere che la canzone abbia in qualche misura eclissato la poesia, anche soltanto nell’immaginario collettivo di una porzione del pubblico potenziale. E la facilità di diffondere le canzoni attraverso la radio e la televisione può aver rafforzato il fenomeno. Questo processo probabilmente ha favorito un grado di confusione tra la poesia e la canzone. Spie, cartine di tornasole di questa confusione sono stati diversi interventi apparsi sui media. Tra questi il dibattito, presente sui giornali a più riprese nel corso degli anni ’90, che aveva portato alcuni critici musicali a domandarsi se le canzoni dei cantautori potessero essere considerate poesia. Tema sul quale il poeta Mario Luzi interviene nell’aprile del 2000, rimarcando la differenza tra il testo di una canzone e quello di una poesia: “Uno è intuitivo, l’altro di riporto. Ci sono canzoni molto belle, ma non ci sono collusioni fra loro e la poesia. Quando ho detto queste cose, ho ricevuto dai cantanti parecchi insulti mascherati, soltanto Francesco De Gregori ha capito”.
E’ giusto poi, come si fa qui sopra, calare l’indagine sulla percezione e sul ruolo della poesia nel contesto dei media digitali e delle mutazioni che questi stanno portando negli ambiti della comunicazione e delle forme artistiche. Senza scomodare McLuhan, basta osservare quanto l’email e le chat hanno trasformato il linguaggio della corrispondenza e delle conversazioni per poter ipotizzare che l’influenza di internet tocchi, con modi ancora difficili da definire, anche i generi letterari. Ed è prezioso quanto afferma Walter Ong sull’oralità secondaria, ovvero sulla possibilità di rapportarsi al tempo stesso con lo scritto e con la voce grazie ai media digitali. Trovo che meritino attenzione anche le riflessioni di Lev Manovich, secondo cui l’era contemporanea è quella del computer inteso come strumento metamediale che crea ex novo tutti i media o li converte dalle forme analogiche originarie attraverso una formula numerica, un algoritmo matematico. Il passaggio al digitale, che pure ha già liberato nuovi spazi per la letteratura, come accadde in seguito all’introduzione dei caratteri mobili, viene a modificare l’accesso ai contenuti e la loro fruizione. Se da un lato è sempre più facile riprodurre i contenuti per un numero indeterminato, potenzialmente infinito di volte, dall’altro si trasforma la relazione, anche sensoriale, con il testo e forse con il suo significato. Inoltre, credo sia importante osservare, come suggerisce Mazzoni, l’oscillazione nel corso dei secoli del linguaggio letterario, la sua maggiore o minore capacità di intercettare e rappresentare forme di pensiero collettive e il suo virare recente verso ricerche più singolari e soggettive.
Refuso da correggere: “come evidenzia Lorenzo Mazzoni nel suo saggio “Sulla poesia moderna”> Mazzoni si chiama Guido
Grazie :-)
Secondo me, la poesia soffre di una marginalizzazione secondaria o, se preferite, simbolica al giorno d’oggi ossia soffre della crisi o liquidazione del sistema letterario e della marginalizzazione della cultura umanistica. In questo contesto, essendo la poesia senza mercato per definizione, diventa l’emblema di un processo che riguarda tutti i generi tradizionali anche extraletterari di alta cultura. Da un punto di vista storico e socioeconomico la marginalizzazione della poesia come genere è del XIX secolo, quando si passa dal libraio-tipografo, che poteva accettare di pubblicare poche copie di una singola ode perché era un rischio d’impresa conforme alle sue disponibilità, al moderno editore, che punta e investe sul romanzo da feuilleton. Montale già negli anni ’50 affermava in un’intervista che il pubblico della poesia erano i poeti stessi, tuttavia vigeva un prestigio culturale e un valore simbolico della poesia, connessa con il dominio dell’estetica dell’originalità, all’interno del sistema letterario.
Il modo in cui Luca Vaglio imposta e affronta la questione e’ senz’altro serio e ben fondato. Io pero’ credo che ad un certo punto i poeti o i critici debbano parlare d’altro, perche’ anche questo e’ una sorta di tema stregato, maledetto, che torna come nuovo e sempre insolubile ad ogni nuova generazione. Vedi quanto dice Mascitelli su Montale e gli anni Cinquanta, vedi quanto dice Cepollaro sugli anni Ottanta. Se uno poi va a vedere la situazione della saggistica, anche li in termini numerici e’ disperante, e andate poi a parlare con i romanzieri che non fanno parte della tutto sommato piccola famiglia che vende tanto, e che vorrebbero considerare il romanzo nel suo aspetto polimorfo e audace che ha avuto nel Novecento, vita grama anche per loro.
E di nuovo mi sembra che se si vuole discutere si discuta come dice Giorgio del destino della cultura umanistica in generale.
Dopodiche’ si potrebbe scrivere del perche’ qualcuno continua a leggere poesia, e cio’ implicherebbe parlare di autori e testi concreti, cosa questa di cui c’e’ sempre bisogno.
Cmprendo, concordo, Andrea, e Giorgio, il tema può essere posto anche al di fuori della poesia, come correttamente viene detto, come viene accennato anche da Mazzoni nell’articolo de GliStatiGenerali, e pure spostato nel tempo, ben più indietro degli ultimi decenni. Con visioni, modi, e in contesti diversi si riflette sulla cosa già a partire da Baudelaire.
Però, forse ha un significato via via riportare questa riflessione all’Italia di oggi, al campo dei media di questi anni e all’ambito particolare della poesia. Dando spazio all’interrogazione pura, anche al di là dei giudizi di merito.
Probabilmente è vero sia che si tratta di un discorso maledetto e che non chiama soluzioni sia che può giovare, in vario modo, tornarci, ovviamente senza poi limitarsi a questo gesto, restando sempre sui testi, sulle singole esperienze, su quello che succede.
Non so, ho l’impressione che la crisi di lettura della poesia abbia ragioni che vadano oltre le tendenze avverse alla cultura umanistica presenti oggi nella nostra società.
Pur rimandeno al livello delle sole conoscenze personali, e quindi poco significativo dal punto di vista statistico, non posso fare a meno di notare che i libri di poesia scarseggiano anche nelle biblioteche di case che rappresentano dei veri e propri bastioni della cultura umanistica: oltre ai classici, poco o nulla, e quel poco chiaramente intonso («me l’hanno regalato» è stato un commento che ho sentito ripetuto più volte).
Il bell’articolo di Vaglio si apre con una sfida retorica: «Provate a chiedere a un avvocato, a un medico, a un ingegnere o anche a un pubblicitario di dirvi quali siano i poeti italiani di età compresa tra i settanta e i quarant’anni che apprezzano di più.» Ecco secondo me sarebbe più illuminante porre la stessa domanda ad un filosofo, ad uno storico, o ad un insegnante liceale di greco e latino.
piccola integrazione del mio commento di sopra: sì, il discorso, pur con alcune differenze, può valere anche per altri generi letterari, può essere esteso al campo della cultura umanistica… ma c’è anche che, all’interno di un processo più ampio, la condizione della poesia nella percezione collettiva (non penso qui tanto alle vendite o al numero dei lettori) è peculiare, singolare, e che conviene registrare e analizzare le trasformazioni che in questo ambito sono avvenute in Italia negli ultimi decenni.
Scusate, ma: stando al rapporto Nielsen che leggo qui (slide n. 13), la “non-fiction specialistica” ha fatto il 14,8% del mercato nel 2014 (in valore). Questo numero che sta girando, secondo cui “poesia, classici e saggistica” farebbero solo il 3% del mercato (suppongo a valore), da dove salta fuori? A me pare, così a occhio, poco credibile. Mi sono aggirato nel sito del Cepell, ma non lo trovo.
In alternativa, bisognerebbe capire che cosa intendono i signori della Nielsen per “poesia, classici e saggistica”. Perché nei vari sunti di rapporti di ricerca che trovo qua e là vedo delle categorie che, ahimè, non mi pare corrispondano molto alle effettive categorie merceologiche (leggi: alle effettive ripartizioni nelle librerie), e spesso mi sembrano confuse (saranno precisissime, ma in assenza di spiegazioni a me sembrnao confuse): se ho una categoria che si chiama “Narrativa e letteratura”, immagino che questa contenga anche poesia e teatro (oppure poesia e teatro non sono considerati letteratura?), ecc.
Grazie.
Si tratta di una sintesi, nom fatta da me, di dati Nielsen relativi a quegli anni. Più in generale, andando a cercare all’inizio di quest’anno dati relativi ai numeri della poesia, è risultato complesso rintracciare statistiche chiare, oltre che uno storico facilmente leggibile sulle vendite della poesia. E questo, se si vuole, è indicativo. Però, risulta diffusa e credibile la percezione di un calo recente delle vendite (che può anche essere letto alla luce della fruizione online, certo). Ma, come dico anche nell’articolo, il numero delle copie vendute, probabilmente non è il centro del discorso, e forse per la poesia non lo è mai stato. E così pure le indagini a campione e le categorie merceologiche spesso possono fornire risultati opinabili.
Da chi è stata fatta la “sintesi di dati Nielsen relativi a quegli anni”?
Gentilissimo Mozzi, ho cercato in queste ore il dato, ma non lo trovo, le assicuro che non me lo sono inventato (ho cercato dati e numeri soltanto presso aie e nielsen), è probabile che in quella sintesi la parola “saggi” fosse intesa in modo fin troppo restrittivo. La ringrazio della sua precisazione e della sua riflessione, ma come ho più volte detto i numeri non sono al centro del mio articolo, né lo possono essere. Se così fosse darei molto più spazio a numeri e statistiche. Se vuole dire che quel numero è discutibile, lo può dire, con la mia approvazione, e in linea con lo sviluppo del mio discorso che punta su tutt’altro. Dell’articolo, di quello che lì si dice lei che cosa pensa? O le interessa poco? Continuare in questo affondo temo porti fuori tema, la prima metafora che mi viene in mente è quella del dito e della Luna… Però ancora la ringrazio, come si dice nei giornali, per “avermi fatto le pulci” :-)
Chiedere la fonte di un dato non è mica un “affondo”. E non è mica colpa mia se l’articolo fornisce un solo dato, e questo risulta poco credibile nonché di fonte (al momento) ignota.
Comprendo, ma per la millesima volta dico che i numeri non sono il punto dell’articolo, se lo fossero ce ne sarebbero di più. Ho accolto la sua obiezione, che posso fare di più? L’articolo le pare poco credibile, poco fondato? A molti è parso fondato, credibile, lei da due giorni sta con la lente di ingrandimento su una cosa abbastanza piccola. Grazie
L’ipotesi
ha tutta l’aria di essere vera. Se non altro perché, rispetto ad alcuni decenni fa (ma quanti? propongo: cinque; quindi rispetto al 1965), la popolazione italiana è aumentata (da 49 a 62 milioni, grosso modo), e soprattutto è aumentata la popolazione sufficientemente scolarizzata da poter costituire un almeno teorico “pubblico della poesia”: per dare un’idea, nel 1961 circa il 25% dei maschi e il 15% delle donne accedeva all’istruzione superiore (dopo le medie); oggi entrambi i sessi sono sopra il 90% (vedi).
Nel contempo è molto aumentata la produzione editoriale in genere (non ho statistiche sottomano, a occhio direi: è raddoppiata almeno).
Se nel 2014 hanno letto almeno un libro 23.750.0000 italiani (vedi), cinquant’anni prima non c’erano forse in Italia altrettante persone abbastanza alfabetizzate da poter leggere autonomamente un libro. “Quasi una famiglia su dieci (il 9,8%, pari a circa 2,5 milioni di famiglie) dichiara di non avere alcun libro in casa. Anche nei casi in cui è presente una libreria domestica, il numero di libri disponibili è molto contenuto: il 28,9% delle famiglie possiede non più di 25 libri e il 63,5% ha una libreria con al massimo 100 titoli” (Istat, riferito al 2014, vedi): nel 1961 chiunque avrebbe sottoscritto questi dati come obiettivi di crescita culturale e sociale: solo una famiglia su dieci senza libri in casa! Due terzi delle famiglie con 100 libri in casa! Che meraviglia!
E’ possibile che oggi il numero dei lettori di poesia (al di là di flessioni di vendite dovute alla crisi ecc., o magari legate a un ciclo di un certo editore [qui si va nell’opinabilissimo, ma a me pare che oggi Crocetti pubblichi cose meno interessanti che vent’anni fa]) sia considerevolmente più alto che cinquant’anni fa; tuttavia, persi nel mare magnum dei milioni e milioni di persone formalmente istruite, questi lettori si vedono poco.
Ciò che voglio suggerire è solo un approccio generale. Non è che la poesia sia stata marginalizzata: è che, mentre gli “interessati alla poesia” sono forse rimasti costanti, o sono aumentati di poco, nel frattempo un sacco di gente è nata, è cresciuta e ha ricevuto una istruzione di base e superiore.
Perché tutta questa gente, pur essendo passata attraverso la scuola, non ha interesse alla poesia? Ipotesi: (a) non c’è relazione precisa tra istruzione formale e interesse alla poesia; (b) abbiamo avuto cinquant’anni di cattive pedagogia e didattica della poesia; (c) la poesia è comunque una cosa per pochi, e non c’è relazione tra scolarizzazione di massa e allargamento delle élite culturali; (d) varie ed eventuali.
I numeri “non sono il centro del discorso”, ne convengo.
Grazie per questo prezioso supplemento di indagine, e per i numeri Istat, utili a supportare un ragionamento possibile. Il punto probabilmente è proprio questo, quello che si individua qui sopra, variamente interpretabile a seconda di sensibilità, punti di vista, valutazioni… Io dico, intuitivamente, magari senza giovarmi di troppi numeri (se vogliamo un mio limite, a cui posso provare a rimediare e che opportunamente può essere integrato), che all’aumentare della popolazione e al crescere considerevole della cultura media (o almeno del grado medio di formazione) potrebbero essersi in qualche misura spostate le percentuali relative ai consumi culturali: ovvero i lettori non sono aumentati in parallelo all’aumento del grado medio di formazione, e così pure forse sono cambiati i gusti, le sensibilità, le possibilità di orientamento di molti potenziali fruitori di libri e di altri prodotti culturali e artistici. Nel mio articolo, come pure in altri usciti nelle scorse settimane e anche in passato, e in alcuni saggi citati nello stesso articolo si prova a riflettere sulla condizione particolare della poesia all’interno di questo discorso, anche osservando alcuni dati di fatto (non numerici, ma sostanziali) relativi al “sistema della cultura”.
E si ipotizza che alcune spiegazioni vadano cercate nel processo ampio di trasformazione dei media (in cui quello che percepiamo potrebbe essere soltanto un passaggio, breve), nelle trasformazioni (cicliche) della fruizione dei generi letterari e artistici. Altre spiegazioni potrebbero trovarsi nell’evoluzione delle forme, delle “ragioni” della poesia, e della capacità di intercettare i linguaggi collettivi o del bisogno di esprimerne di singolari che la poesia ha assunto di recente.
Poi, è possibile che i lettori di poesia in senso stretto non siano diminuiti ultimamente (sono sempre stati pochi, probabilmente), sebbene risulti un calo recente delle copie vendute, grazie anche alla diffusa fruizione interattiva dei testi. E presumo che i lettori possano crescere ancora. Conta però anche indagare sull’eco collettiva, sulla percezione, sullo spazio sociale che un genere letterario riesce ad avere in un’epoca determinata. E qui possono giovare numeri buoni, altre valutazioni legate a fatti e situazioni contingenti, intuizioni, interrogazioni. Tutto questo per tracciare ipotesi ragionevoli.
Io non ho notizia di un “calo recente delle copie vendute” delle opere di poesia. Ho notizia di Crocetti che dice che i suoi libri hanno avuto recentemente un calo di vendite.
Ci sono anche altri editori: non so come vada a loro.
Ipotizzando che un calo delle vendite di libri di poesia ci sia effettivamente, bisognerebbe vedere se tale calo è in linea con il calo delle vendite in generale dei libri. Magari (faccio per fare un esempio) il calo delle vendite dei libri di poesia è stato inferiore al calo delle vendite dei libri in generale: solo che gli editori vocazionali di poesia hanno strutture aziendali piccole e fragili, e quindi soffrono di più.
Questo per dire: servirebbero informazioni. Bisognerebbe fare un’inchiesta.
Uso quell’espressione perché in certi casi non sono stati forniti dati né lasciate dichiarazioni, ma la sensazione abbastanza chiara era quella che dico. C’è poi il minore spazio dedicato dai grandi editori alla poesia, a fronte di un notevole, anche se a volte faticoso, dinamismo di molti piccoli, realtà di cui recentemente hanno detto sia Avvenire, sia il Corriere, guarda caso senza fornire alcun numero (che sia cosa complessa?). Il mio ragionamento però, pur tenendo presenti i discorsi che si fanno qui, indaga soprattutto altri aspetti, quelli che ho detto e ridetto. Poi, certo le indagini che si possono approfondire sono numerose, tutte più o meno utili, come pure in un singolo articolo conviene scegliere un percorso, uno sguardo, senza pretendere di conoscere ogni particolare. E, se è giusto porsi più problemi, senza ironia e con gratitudine, mi viene da pensare che non si può vedere un elefante da troppo vicino, con la lente di ingrandimento, ma da più lontano, a costo di perdere qualche dettaglio.
Leggo:
Se ho degli indizi, cercherò le prove.
Naturalmente, per cercare le prove dovrò cercar di formulare l’ipotesi con la massima precisione possibile. Quando dico “i poeti”, chi intendo? Intendo tutti i poeti, ovvero tutti coloro che scrivono poesie; oppure tutti i poeti pubblicati; oppure tutti i poeti pubblicati da editori veri (escludendo cioè le autopubblicazioni e le pubblicazioni a spese dell’autore); oppure tutti i poeti pubblicati da editori qualificati (e si apre la discussione su come riconoscere la qualifica agli editori); oppure tutti i veri poeti (e si apre la discussione su come distinguere chi è un vero poeta da chi non è tale); oppure tutti i poeti ai quali Giulio Mozzi riconosce un valore (dove al nome di Giulio Mozzi può essere sostituito quello di chiunque altro); eccetera. Ciascuna di queste formule ha le sue buone ragioni e le sue cattive ragioni: si tratta di sceglierne una per delimitare il campo, ossia per decidere di che cosa si parla.
“Conoscere” e “percepire” sono due verbi vaghi. Quando posso dire che un cittadino italiano “conosce” un poeta? Quando ne sa il nome? Quando ricorda di averne letto qualcosa? Quando lo riconosce in fotografia? Quando possiede un suo libro? Quando segue il suo blog? Eccetera: anche qui, ciascuna definizione ha le sue buone e le sue cattive ragioni. Idem per “percepire”.
“Qualche decennio”: quanti? Si può partire dal 1960, dal 1970, dal 1980, dal 1990, ma anche dal 1963, dal 1977 eccetera. Ogni scelta di periodizzazione ha le sue buone e le sue cattive ragioni. E, naturalmente, se si confronta l’oggi con un altro momento, bisognerà avere informazioni sull’altro momento.
Che cos’è il “grande pubblico”? E’ costituito da tutti gli alfabetizzati? Da tutti coloro che hanno comperato (o letto) un libro nell’ultimo anno? Da tutti coloro che ne hanno comperati (o letti) almeno 2, 3, 7, 11, 13, 17, 19, 23, 31, eccetera? Ogni scelta di definizione del “grande pubblico” ha le sue buone e le sue cattive ragioni.
Tutto questo per dire: mi pare che il tema meriti un’inchiesta.
A proposito dell’elefante: Umberto Eco, Il nome della rosa, Primo giorno, Terza:
:-)
Gli articoli si leggono nel loro complesso, non isolando singole parole-frasi, mi sembra che le ipotesi siano sostenute da un ragionamento logico, da alcuni dati di fatto significativi, e approfondite da intervistati autorevoli che hanno portato interessanti elementi di riflessione. Detto questo, non si pretendeva di andare a caccia di certezze granitiche, e a loro volta contestabili, ma, appunto, si cercavano ipotesi plausibili. Il tema ha già meritato inchieste, tra cui quella qui sopra, e altre ne meriterà. Mi sembra che questa discussione possa interrompersi qui, moltiplicare i dubbi e le domande temo giovi poco.
:-) Grazie
E perché interrompere? Facciamo piuttosto un’inchiesta. Raccogliamo informazioni.
Intendo dire che per il momento sono stati esposti i temi che si potevano esporre
a Giulio Mozzi,
la tua proposta di realizzare un’inchiesta il più possibile documentata e precisa mi sembra condivisibile. E cio’ nell’ottica di riflettere su alcuni fenomeni che vanno al di là della questione crisi o salute della poesia. E qui riprendo un tuo passo importante:
“Ciò che voglio suggerire è solo un approccio generale. Non è che la poesia sia stata marginalizzata: è che, mentre gli “interessati alla poesia” sono forse rimasti costanti, o sono aumentati di poco, nel frattempo un sacco di gente è nata, è cresciuta e ha ricevuto una istruzione di base e superiore.
Perché tutta questa gente, pur essendo passata attraverso la scuola, non ha interesse alla poesia? Ipotesi: (a) non c’è relazione precisa tra istruzione formale e interesse alla poesia; (b) abbiamo avuto cinquant’anni di cattive pedagogia e didattica della poesia; (c) la poesia è comunque una cosa per pochi, e non c’è relazione tra scolarizzazione di massa e allargamento delle élite culturali; (d) varie ed eventuali.”
In effetti, sarebbe importante affrontare con dei dati più completi e precisi questione come il nesso tra istruzione, ad esempio, e interesse per la poesia.
Personalmente trovo insopportabile il lamento (e devo dire non solo italiano, ma europeo) che i poeti fanno sulla marginalità della poesia. E trovo poco convincente che questo lamento vada a parare sulla colpa della scuola o al contrario sull’onnipotenza della scuola, che potrebbe foggiare milioni di lettori di poesia o al contrario disgustarli. Pero’ tutti questi discorsi mancano in effetti di dati, e si basano in gran parte su induzioni spesso fragili.
Su cosa s’intenda per “poeti italiani”, è poi altra cosa ancora, e una definizione convincente non credo sia semplice da dare. E su questo, più che un’inchiesta, sarebbe interessante un dibattito. Un dibattito che ha anch’esso i suoi rischi, perché una cosa è certa: oggi dire chi e cosa sono i poeti italiano è senz’altro più difficile di quanto fosse dirlo negli anni Sessanta. E quindi aprire oggi questo dibattito, vuol dire doversi orientare senza i punti fermi di una volta, come ad esempio le collane di poesia di riferimento. (Quali sono oggi le collane di poesia di riferimento?)
Comunque si, facciamola l’inchiesta.
Tre questioni interessanti: su cosa s’intende per poeti italiani, nel 1965, per usare la data scelta da Mozzi, non ci sarebbero stati molti dubbi si sarebbero stai indicati i nomi di Quasimodo, Montale, Ungaretti e probabilmente Pasolini e qualcuno avrebbe perfino detto che c’era un gruppo di giovani poeti chiamati neoavanguardia o gruppo 63, che contestava la poesia tradizionale anche se non ne conosceva i nomi. Oggi nulla di tutto questo sarebbe possibile. Chiediamoci perché, è solo per ragioni critiche e qualitative interne o è un segno di una modificazione dello statuto simbolico della poesia, perchè le vendite non erano molto diverse?
Seconda questione: accanto all’inchiesta andrebbe studiata la storia della diffusione di singoli libri, come ha fatto Bourdieu, perchè ci indica quali sono i percorsi di sopravvivenza delle singoli opere. Infatti il compito oggi è favorire la salvezza di individualità ossia singoli libri di poesia e non della poesia, che non è più garantita perché il sistema letterario moderno è finito.
Terza questione la scuola: in un certo senso tutte le spiegazioni indicate da Mozzi sono pertinenti. Tutto sommato nella scuola italiana rispetto a molte realtà europee la poesia è insegnata ancora decentemente, anche se dipende molto dalle capacità del singolo docente. I risultati di questo lavoro si vedono, però, più nel successo delle letture dantesche di Benigni o nel successo del film di Martone o del libro della Szymborska dopo che Saviano ne parlò in televisione. Un altro segno di questo lavoro è nel fatto che moltissimi giovani scrivono poesie. Infatti la concezione dominante della poesia è di tipo espressivistico anzichè comunicativo: la poesia è uno spazio dell’interiorità in cui conta l’autenticità del proprio stato d’animo e non la maestria formale e il dialogo con la tradizione. In una concezione siffatta non si sente il bisogno di leggere i poeti, ma di scrivere poesie.
Infine sul lamento dei poeti, infine, la penso come Andrea.
Se giova, preciso che il mio articolo non si fa portatore di alcuna lamentela, né io ritengo che sia questo il punto. Semplicemente, approfondisco un tema, verifico alcuni dati, raccolgo pareri qualificati. È già un’inchiesta, con il vostro permesso :-), poi se possono fare altre, senza dubbio.
Luca, come ho già scritto, il tuo articolo cerca di comprendere e mettere a fuoco un’ipotesi, e questo non è lamentela. Ma la lamentela è cio’ che costituisce l’ambiente dentro cui quell’ipotesi (in sé anche legittima) emerge. Ti assicuro che ho in mente due episodi, uno in Francia, l’altro in Romania, dove poeti diversi, di diversa età, dopo tre minuti di discorso pubblico sulla poesia, hanno cominciato il lamento sulla marginalità della poesia. Ora, se uno vuole aprire un’inchiesta sullo statuto della poesia nella società contemporanea, come tu vuoi fare, è cosa ben diversa del lamento. Ma bisogna essere consapevoli che quel lamento è il sostrato culturale dentro cui l’ipotesi si forma.
Sono poi molto d’accordo con Giorgio, su
“Seconda questione: accanto all’inchiesta andrebbe studiata la storia della diffusione di singoli libri, come ha fatto Bourdieu, perchè ci indica quali sono i percorsi di sopravvivenza delle singoli opere. Infatti il compito oggi è favorire la salvezza di individualità ossia singoli libri di poesia e non della poesia, che non è più garantita perché il sistema letterario moderno è finito.”
Questo è il lavoro più importante che possiamo fare. E non è facile.
Sulla scuola e i rapporti con i lettori/scrittori di poesia, mi piacerebbe davvero avviare una discussione ampia. Partendo magari dall’osservazione di Giorgio.
Capisco, Andrea, a mio avviso la postura, psicologica e intellettuale, del lamento non è la migliore per un’indagine serena. Poi che alcuni arrivino a porsi il problema a partire da questa posizione è vero, può essere vero. Ma la cosa mi riguarda poco: si può porre un problema, vivere l’aspetto critico di una situazione, ma stare lontani da sfoghi e lamentazioni.
Per il resto, sì, la storia di un genere è fatta dalla storia e dalla ricezione dei singoli libri, sempre. Tuttavia, si può anche indagare sul contesto, sulla mutazione dell’ambiente sociale dentro cui le singole opere si collocano, farsi alcune domande, ove si ipotizzi una trasformazione del contesto. Il discorso sulla scuola è importante, potrebbe giovare approfondirlo, ma, anche per un’esigenza di selezione, è stato soltanto lambito dal mio lavoro, vi fanno cenno due intervistati (Cepollaro e Zublena).
(Note sparse)
Andrea, tolgo di mezzo subito una cosa. Tu scrivi:
E io dico: No, il dibattito no!. Ovvero: se andiamo a progettare un’inchiesta, ovviamente dovremo adottare una definizione di “poeta italiano contemporaneo” e una di “poeta italiano degli anni Sessanta” (se si sceglieranno i Sessanta come termini di confronto); e per trovare questa definizione si discuterà quanto necessario. E dovrà trattarsi di una definizione che permetta di stabilire con certezza quale autore sia “dentro” e quale sia “fuori”.
Faccio un esempio. Nel 1960 Montale aveva 63 anni, Ungaretti 72, Quasimodo 59. Quindi, visto che questi nomi sono stati citati più di una volta con valore esemplare (in questa discussione e nelle parallele), potremmo decidere che un “poeta italiano contemporaneo” del 2015 comparabile (per questi aspetti di notorietà, diffusione ecc.) con loro dovrà avere tra i 59 e i 72 anni. Resterebbero dunque fuori Valerio Magrelli (che è del ’56) e Nanni Balestrini (che, essendo del ’35, ha superato i limiti di età).
Altro esempio: possiamo selezionare un gruppo di antologie e decidere che i “poeti italiani contemporanei” sono quelli contenuti in quelle antologie. Potrebbero essere antologie di natura diversa: militanti (tipo La parola innamorata), canonizzanti (tipo quelle dei Meridiani), esplorative del nuovo (tipo quelle della “bianca” Einaudi, scolastiche (cioè le sezioni di poesia delle antologie per le scuole). Fatta la lista delle antologie, chi c’è c’è; e chi non c’è, ciccia.
Entrambi i criteri qui proposti (che sono eventualmente incrociabili; e se ne possono pensare molti altri) presentano evidenti difetti e un pregio (il pregio di aiutare a decidere con certezza chi sta nella ricerca e chi no). E sono criteri sensati (mi pare: ma, appunto, c’è da discutere) per fare un lavoro di ricerca sulla “notorietà” dei poeti (che è solo un pezzo dell’eventuale inchiesta).
Ipotesi di lavoro:
– si realizza un questionario, simile a quelli che si fanno per le indagini di mercato (e, in effetti, questa è un’indagine di mercato), e lo si somministra a un certo numero di persone appartenenti a gruppi sociali che si ritengano interessanti: gli insegnanti delle scuole medie superiori, i giornalisti di cultura, eccetera. Raggiungere una vera rappresentatività è impresa ardua. Si possono studiare delle procedure. Ad esempio: se pubblichiamo il questionario in Nazione indiana e invitiamo gli insegnanti di passaggio a compilaro e rispedirlo, è evidente che otterremmo dei risultati significativi solo per i più attivi tra gli insegnanti lettori di Nazione indiana. Se invece individuiamo una trentina di insegnanti, stabiliti in trenta scuole diverse e decentemente disperse nel territorio italiano, e chiediamo loro di sottoporre il questionario a tutti i loro colleghi di Italiano, allora è già diverso.
Ovviamente un lavoro del genere darebbe un’informazione apparentemente misera: ci direbbe quali nomi di poeti, quali titoli di opere sono conosciuti, magari solo per sentito dire, da certe categorie di persone.
Un altro pezzo dell’inchiesta potrebbe rivolgersi agli editori. Si tratterebbe di selezionare (di nuovo…) alcuni editori ritenuti significativi, e di farsi dare da loro dei dati sulle vendite: possibilmente non generici e vaghi.
L’effettiva presenza in libreria dei libri di poesia può essere constatata, temo, solo andando a visitare qualche dozzina di librerie. Ma che cosa ci fosse in libreria negli anni Sessanta, sospetto che non lo sapremo mai.
Potremmo sbizzarrirci: ad esempio, potremmo andare a vedere se vengono citati nomi di poeti – e quali – nei discorsi parlamentari. Potremmo sfogliare le raccolte dei quotidiani. Eccetera.
Per fare un lavoro d’inchiesta bisogna, insomma, prima di tutto deciderne (e accettarne) i limiti. Luca Vaglio scrive nell’articolo:
Ecco, a me le opinioni non interessano tanto. E faccio notare che un’inchiesta è una ricerca di informazioni, non di opinioni. Lo so: la stampa italiana tende da danni a titolare “inchiesta” degli articoli che sono stati fatti dal giornalista raccogliendo qualche opinione. Ma è evidentemente un abuso della parola. Però, ecco, se ci interessa sapere se è vero che “da qualche decennio i poeti italiani sono meno conosciuti o percepiti dal grande pubblico” rispetto a un periodo scelto per confronto (Cepollaro accenna agli anni Cinquanta, secondo me è meglio riferirsi ai Sessanta o Settanta – per avere un termine di paragone meno squilibrato sul piano della scolarizzazione), anche lo strumento misero del questionario e dell’indagine statistica può dare qualche informazione.
L’ideale sarebbe: che a un lavoro di questo genere si dedicasse un dottorando o un assegnista.
Mozzi, lei continua a non citare il mio articolo, ma lo scambio di battute tra Cepollaro e me pubblicato qui su NI, con l’idea di proseguire la riflessione avviata dall’articolo de GliStatiGenerali. Mi sembra che si tratti di due cose diverse: il mio articolo si propone un’indagine qualitativa, con pareri qualificati, a partire comunque da dati di fatto. Diversa è un’indagine statistica, che non può di norma stare in un articolo di giornale, io stesso dico che la cosa potrebbe avere anche un senso, con i limiti della cosa, di tutte le indagini a campione, tanto più se come dice qui lei, si tratterebbe di un campione piutosto limitato. Discutibile anche l’ipotesi di fissare limiti di età per i poeti, anche per questo dicevo che qualche numero aiuta, ma che farsene imprigionare è pericoloso
e in ogni caso un’inchiesta giornalistica non è mai un fatto di soli numeri, quando è così di solito è una brutta inchiesta, ma a seconda del tema, incrocia dati, pareri qualificati, cose viste, cose dette da persone, ragionevolmente, informate sui fatti. Questa è un’inchiesta giornalistica, e la mia idea non era affatto quella di fare un’indagine di mercato, in assenza, poi, di mercato :-)
e ancora se poi l’indagine statistica viene raccogliere alcune decine di risposte, o poco più, mi viene da pensare che forse i pareri raccolti dal mio articolo hanno più valore, restituiscono una misura più reale e ragionata della situazione. Se indagine statistica deve essere che sia su numeri molto, molto più grandi. E ancora lei sa meglio di me quanto i questionari siano scivolosi, una domanda stile quiz orienta e a volte deforma le risposte. Escludo che un’indagine simile possa sostituire un lavoro qualitativo, fatto di pareri e di percezioni di chi ha lungamente studiato il tema, nella migliore delle ipotesi ne potrà venire un qualche supporto.
Luca, lo scopo delle discussioni non è mica solo quello di ragionare dentro la direzione tracciata dall’articolo che le avvia: è anche quello di proporre altre direzioni.
A me pare evidente che c’è una certa differenza tra
(a) il ragionare attorno a una questione senza avere informazioni precise e
(b) l’andare in cerca di informazioni sulle quali ragionare.
Mi pare evidente che la fase (a) ha una necessità preliminare: serve, se non altro, a capire che cosa ci sarebbe utile o ci interessa sapere.
Mi pare evidente anche che se non si passa dalla fase (a) alla fase (b) si resta limitati allo scambio di opinoni, senza possibilità di controllare (dove possibile, perché non è mica sempre possibile) se tali opinioni siano fondate o no.
Mi sono permesso di avanzare un’ipotesi, qui riassumo: “Non è vero che oggi la poesia contemporanea sia marginalizzata rispetto agli anni Cinquanta o Sessanta”. E mi interessa sapere se questa ipotesi, che a naso mi pare vera (sennò non la proporrei), sia vera o falsa (o mal formulata, ecc.).
La battuta
mi sembra segnale di un’incomprensione: per cui provoa spiegarmi. Se si dice che “negli anni Sessanta Ungaretti e Montale erano molto percepiti, mentre oggi i poeti contemporanei non sono molto percepiti“, a me pare che per fare un confronto dovrò considerare, nel contemporaneo, dei poeti che abbiano qualche caratteristica simile (dal punto di vista della percettibilità) a quelle di Ungaretti e Montale. Ad esempio, che siano sulla piazza da un certo tempo, che siano già presenti nelle antologie scolastiche, eccetera. Sarebbe sbagliato e inutile, tanto per fare un esempio, confrontare la notorietà di Ungaretti negli anni Sessanta con la notorietà di Gino Scartaghiande nel 2015.
Tutti criteri discutibili (e discuterne fa bene: solo ciò che dice un desposta è indiscutibile): ma non certo “pericolosi” (anche perché, quando si definisce un criterio, se ne definiscono anche i limiti).
Vedi anche, in Wikipedia, la voce Inchiesta.
ho detto chiaramente che le indagini possibili sono molte, mi sono permesso di ipotizzare che un’indagine statistica su campione limitato e con anche vincoli sul piano anagrafico possa poi fornire risultati alquanto discutibili. Più in generale, ho detto molte volte che il mio lavoro si pone il problema di una riflessione qualitativa su di un tema, e credo lo faccia in modo fondato, mi sembra molto di più che ragionare senza informazioni precise. Questo non toglie che si possano fare, come sono stati fatti, lavori di altro genere. Più in generale, se lei non si ponesse in modo piuttosto denigratorio nei confronti del lavoro altrui (qui, mio :-) forse mi troverebbe più dialogante. E ancora, su un tema come questo credo che restino più riflessioni come quella che propone un articolo come il mio (e il dibattito, non solo qui, lo testimonia) che i risultati di un questionario, che spesso una volta letti sono dimenticati. E non è detto che due indagini che arrivino anche a risultati opposti non possano, in casi come questi, essere entrambe preziose e capaci di illuminare aspetti diversi della realtà. Per il resto, le lunghe discussioni interattive sono per me faticose, per questo in precedenza avevo ritenuto di interrompere il discorso.
In ogni caso, ecco due numeri, questi sì, buoni: la poesia in Italia nel 2014 ha fatturato lo 0,59% del mercato dei libri, con un calo di oltre il 20% rispetto al 2009 (Nielsen). Come si è già detto questo dato andrebbe integrato con i numeri (di nicchia, sebbene significativi e difficili da quantificare) della fruizione online della poesia.
Precisamente: i fatturati sono scesi (rispetto al 2009) del 24%, le vendite di oltre il 20%
Si può avere un link alla fonte dei dati?
Il calo di fatturato e vendite mi sembra in linea con il calo di fatturato e vendite generale del comparto libri. Cioè: non mi pare che in questi anni di crisi la poesia abbia “sofferto” più della narrativa (almeno stando ai rapporti annuali sullo stato dell’editoria dell’Aie).
Per il resto: Luca, i campioni sono per loro natura limitati. La cosa interessante della statistica è che può dare, oltre ai dati, delle informazioni sulla significatività (e quindi sui limiti) dei dati stessi. Le indagini qualitative spesso producono dati magari interessantissimi, la cui significatività è però poco valutabile. Per questo può essere utile fare entrambe le cose.
L’accenno ai “vincoli sul piano anagrafico”, ahimè, è del tutto incongruo. Non sto qui a spiegare ciò che ho già spiegato due volte. Propongo solo un concetto di base: si può comparare solo ciò che è comparabile.
sono dati disaggregati forniti da Nielsen, non c’è alcun link. Come ho già detto il mio lavoro muove anche da altri presupposti e segue una sua direzione abbastanza chiara – moltissime cose possono essere interessanti, direi però che, parlando di numeri, un’indagine su campione ampio vale di più di un questionario su piccoli numeri. E, certo, sono molte le indagini che possono fornire spunti preziosi, poi se si sa rispettare il lavoro, le analisi, i punti di vista e gli sguardi altrui è ancora meglio :-) Tutto qui, un saluto.
Visto che c’è bisogno di numeri, anche giustamente, vi do i miei. Ho preso in esame due letterature per i licei, il Martignoni-Segre nel IV volume, il Novecento, dell’edizione stampata nel 1993 e il Luperini-Cataldi ed.rossa nel VI volume, dal 1925 ai giorni nostri, stampato nel 2014. Scelgo questi due manuali perchè sono tra i più attenti sia per quantità sia per qualità al mondo contemporaneo. Ora nel volume del ’93 su 40 poeti antologizzati 14 sono viventi, in quello del 2014 su 23 antologizzati solo 2 sono viventi.
Ora questi dati nella loro brutalità, ci dicono che il processo di canonizzazione degli autori basato sul ciclo critica militante-critica accademica- divulgazione scolastica è entrato in crisi. C’entra con le scarse vendite delle poesia? Non credo, sia perchè la poesia vende poco da sempre, sia perchè una dinamica analoga, seppure meno marcata, può essere osservata per la narrativa. Probabilmente questo significa che il sistema letterario moderno si è disintegrato e la poesia è dentro questo processo. Allora il punto cruciale per la poesia è quella di creare nuove situazioni di circolazione.
Sul lamento dei poeti, Luca, non è un’osservazione rivolta a te, ma innanzi tutto a me, che pure poeta non sono, all’insegna di un certo ottimismo della volontà che deve accompagnare sempre il pessimismo della ragione.
Grazie Giorgio, il mio articolo prova a indagare nella direzione che metti in luce tu qui. Al di là dei semplici dati, dei numeri, delle vendite (valori pure importanti) credo che sia opportuno ragionare sul contesto, sulla proiezione sociale di un genere letterario e della letteratura stessa. E per questo, se possono giovare dei numeri, conviene trovare numeri assai mirati, rivelatori. Per il resto, ampiamente chiarita e risolta la questione lamento :-)
Luca, condivido: avere delle buone informazioni è meglio che averne di cattive. Mi sono pure preso del molestatore per averlo sostenuto, qualche giorno fa; ma pazienza.
Noto che per la seconda volta, richiesto della fonte di un’informazione, resti sul vago. Dove sono pubblicati, questi benedetti dati disaggregati forniti da Nielsen? Dove li hai letti? (Sono credibilissimi e sono assolutamente certo che non te li sei inventati: ma sarebbe carino da parte tua farci sapere da dove escono; magari, nello stesso luogo, ce ne sono altri che possono interessarci).
Tra l’altro, ho letto questa cosa in un rapporto Aie del 2005 (The Italian Book Market):
L’indice (spero affidabile) della collana del “Corriere” si può leggere qui. Si potrebbe prendere questa lista come base per immaginare che cosa è la poesia per il lettore di massa, oggi?
Non so se può essere utile questo vecchio intervento su scrittura e rete:
http://www.scribd.com/mobile/doc/53636090/Risposte-a-Verifica-Dei-Poteri#fullscreen
Solo per dire quanto omogenei alcuni fenomeni di spostamento del(la percezione del)le scritture possano essere con la nascita stessa di contesti e luoghi digitali (da Word alla rete)
Grazie
devo confessare che tanto discutere da ragionieri della cultura mi mette a disagio.
E mi stanca un poco. Un poeta attorno a tanti numeri, inchieste, statistiche,
mette già con l’altro piede in bilico. sono migliaia di anni che la poesia
sopravvive ai poeti, perché farsi venire il batticuore?
Ah, ecco, adesso tocca pure prendersi del “ragioniere della cultura”.
Mi scuso per i link mal scritti nel precedente intervento. I rinvii comunque sono giusti e funzionano.
L’ultimo commento che ho letto su quanto poco influente, importante, presente e letta sia la poesia credo sia datato milleottocentoerotti. Sicuro che ce ne sono di ancora precedenti. Mi sa che il problema è mal posto, un po’ come quell’esperimento a cui si tagliano le gambe al cane si suona il campanello il cane non corre verso di noi e la conclusione è che è sordo.
Altro discorso, invece, mi pare sia la presenza e l’influenza del poeta no solo culturale ma politica, sociale, antropologica, etica etc. Ma lì a poeta si può sostituire il termine a me poco gradito di “intellettuale” e parlare del peso perduto (?) nella società cui appartiene. E allora andiamo a cercare altre lunghissime discussioni finite nel nulla sotto altri articoli pubblicati su NI sulla funzione dell’intellettuale.
Qui si è ragionato della possibile mutazione della percezione di un genere letterario in una data epoca, e tra le sorti pubbliche della poesia e quelle dei poeti c’è, per quello che vale, una relazione abbastanza stretta. La questione relativa agli “intellettuali” e alla loro posizione sociale, sebbene forse possa avere qualcosa in comune con quella di cui si parla sopra, è un’altra.