Tifosa
di Federica Fracassi
Non c’è che dire: essere l’unica donna in compagnia di quattordici uomini per una settimana ti cambia la vita e anche la postura.
Sto urlando con tutto il fiato che ho in gola. E’ un momento, che sembra durare meno di un momento. Salto, abbraccio, rido. Con la bocca spalancata strattono mio fratello e mi sbraccio e non mi frega più di essere una femmina composta o con il mascara messo bene. Sono inguardabile, tutto sta colando, mi scendono anche le lacrime vere. Me ne accorgo solo dopo però, mentre cammino per strada verso il treno e abbraccio i rumeni per le loro medaglie. Un sessantenne mi stringe le mani e mi ripete che ama il mio paese, con la sua faccia piana e stanca, aperta e stremata. Mi colpisce, mi imbarazza un po’. Dell’Italia sembra più fiero lui di me.
Ma a questo penso dopo. Anche di questo mi accorgo solo dopo. Ora scatto e reagisco come un animale. I sensi all’erta, fissi su ogni movimento, i nervi tesi che sembrano vedere come mille occhi e mi strappano a forza dalla sedia dove tento di tenermi incollata.
Mi sto semplicemente emozionando. Come non mi accadeva da tempo.
Sto semplicemente seguendo la gara del ginnasta Igor Cassina nello Stadio Indoor del più grande complesso olimpico costruito per i giochi 2004 di Atene.
Sono semplicemente una tifosa.
Abbiamo appena fischiato la giuria per più di dieci minuti per un punteggio vergognoso dato all’atleta russo, “un punteggio assolutamente al di sotto del suo esercizio” commentiamo con aria da saputi. E abbiamo continuato a fischiare quando l’americano in gara è balzato a un primo posto chiaramente immeritato. Clima da guerra fredda? Non in questo caso. Non c’è bisogno di essere un esperto per notare un’ingiustizia. E’ un fatto però che la maggior parte del pubblico che segue le gare non stia dalla parte degli Stati Uniti. Sarà per la loro strapotenza? In fondo scatta sempre il meccanismo psicologico della difesa del più debole. Più probabile, perché la politica degli Stati Uniti in questo momento storico stona con l’etica, con la pratica, con il rispetto reciproco su cui si fondano questi giochi. E su cui dovrebbe fondarsi anche tutto il resto. (Ad essere sinceri, con lo spirito dei giochi stona anche la puzza di hamburger che si diffonde dal mega Mac Donald del villaggio olimpico. Di tanto in tanto non disdegno un Big Mac, ma come si fa ad affiancare l’immagine degli atleti semidei a quella di uno sponsor che ingozza bocche fameliche di patate fritte? La trovo quantomeno una pessima scelta estetica. Forse è un problema solo mio. Controllo ogni giorno e il mega Mac Donald del villaggio è sempre affollato di gente felice.)
Cassina entra in gara dopo il russo e dopo l’americano. Il quinto atleta dopo un casino tale che mantenere la grinta e la concentrazione è un’impresa titanica. Lui lo fa e sbalordisce. Non è minuto come gli altri atleti della sua specialità. I suoi volteggi alla sbarra sono amplificati dal paradosso che un corpo così scultoreo e alto possa farsi aria e scatto, forza e levità, qualità che si vedono solo nei documentari della sera tardi quando lo speaker tv ti parla dell’aquila e del giaguaro.
Cassina fa il suo esercizio alla perfezione (con una leggera sbavatura in uscita dirà poi lui) e vince la medaglia d’oro nella ginnastica. La prima medaglia d’oro italiana nella disciplina della sbarra orizzontale.
E io di nuovo urla, adrenalina.
Ma come mi è potuto accadere di finire così: una fanatica avvolta nella bandiera tricolore, che si ritrova a canticchiare l’inno nazionale? Non posso essere io.
“Tifo” di per sé fa pensare a una malattia, a una febbre. Come dice il vocabolario al “coltivare con eccessivo entusiasmo interessi di varia natura”.
E’ vero che io sono sempre un tantino troppo entusiasta nella vita e quasi mai molto sana di mente, ma, per ritrovare una simile reazione eccessiva del mio fisico nella veste di spettatrice sportiva, devo andare molto indietro con la memoria, ai gloriosi tempi delle medie.
Io, con il mio cuscinetto nerazzurro, avvolta nella mia sciarpa nerazzurra che mi protegge dal freddo cane dello stadio di San Siro, mentre invoco a gran voce Alessandro Altobelli e Karl Heinz Rumenigge.
Io, nel Palazzetto dello Sport sempre a San Siro, poi crollato per una nevicata storica, che mi sgolo con lo striscione alzato guardando la Sei Giorni e la lotta furibonda tra Francesco Moser e Giuseppe Saronni.
Bandiere, striscioni, emblemi. Che poi cosa sono? A cosa servono? Necessari ad alimentare il tifo, la malattia, a proteggere dal resto del mondo, a dirigere l’attenzione. A dare la spinta per stare concentrati su una priorità, come se quella fosse il mondo, con la sua lingua, i suoi simboli, le sue lucine d’orientamento.
Come potrebbe essere altrimenti? Come sarebbe possibile, senza un apparato di riferimento iconografico, simbolico, concettuale, arrivare ad ammazzare per una squadra? Senza andare troppo in là… come arriva un soldato ad ammazzare per la patria? E’ sufficiente convincersi che tutto il resto non esiste, tagliare i riferimenti con il resto del mondo. E per poterlo fare è necessario un terreno ben costruito su cui appoggiarsi.
Basta tifo.
In questi anni non mi capita più.
Non solo mi distanzio dal tifo sportivo, ma me la dò proprio a gambe quando si tratta di tifo nazionale, di inni e di sventolate.
Mi ripugna l’uso che si fa del concetto di patria, le bandiere che saltano fuori quando ci scappa il morto giusto, rito funebre da reality show, pianti a comando amplificati e messi col profilo migliore davanti alla telecamera. Mi ripugna lo sport nazionale, calcio dai troppi soldi, il lato più esaltante le storie d’amore degli attaccanti. Mi fa schifo l’immagine che diamo del nostro paese, l’abbruttimento sistematico su cui ci hanno programmato e soprattutto la copertura sistematica di tutto quanto non è abbruttimento. M’incazzo quanto penso che hanno messo il ® alle parole “forza italia” e anche al rosso, bianco e verde della bandiera italiana ®, e all’azzurro delle divise italiane degli atleti ®. Senza chiedere il permesso. Dittatura morbida, diciamo con un amico. Con le sue bandiere e le sue bandane.
E allora come faccio a ritrovarmi così scatenata sulle gradinate di Atene? Sono davvero io? Una io malata? O è qualcosa di diverso? Perché io lo so che lo sport non è più come prima, che c’è il doping, che ci sono i soldi, che ci sono i poteri. Ma questi giorni passati in un’Atene ospitale e rinnovata sono stati giorni belli, giorni vivi.
Ho scoperto ad esempio con grande stupore un rapporto sano tra il mondo olimpico e le sue bandiere. Ho potuto dare una ridimensionata a tutte le distorsioni inflitte ai colori del mio paese. Ridere dell’inquilino del mio palazzo, che per fare un dispetto alla mia bandiera della pace aveva comprato un mega striscione tricolore, come se “Italia” e “pace” fossero concetti opposti. Riprendermelo un po’ questo tricolore con ironia, cosa che del resto facevano tutti gli altri: argentini, francesi, marocchini, cinesi, ucraini…sportivamente, senza troppe menate politico- simboliche.
E poi soprattutto ho scoperto che esiste la possibilità che tifo non sia l’equivalente di malattia. Mi sono appassionata di persone, corpi, facce. Ho visto il divino nei corpi, la bellezza nei corpi e mi è parso possibile per un momento che l’uomo tra tutte le brutture potesse essere anche questo:
Cassina, dalla Brianza alla gloria.
La rumena Catalina Ponor, che vince volando due ori nella ginnastica ed sale sul podio con un volto così forte e preciso da sembrare dipinta e con un sorriso talmente fragile da spaventare.
Giuseppe Gibilisco, che gareggia con una gamba dolente, bronzo nel salto con l’asta.
Alexandre Despatie, argento canadese nei tuffi dal trampolino di tre metri: bello, preciso, con i capelli lunghi.
E l’atleta russo, che vince gli ottocento metri con una volata da centometrista che lo fa risalire dall’ultima posizione.
E la sudafricana del salto in alto, che mima con le mani come un’attrice il percorso da fare prima di partire.
E il norvegese del giavellotto, che fa le boccacce alla telecamera.
E Baldini, che lascia dietro tutti e dà un nuovo presente alla maratona.
Ma anche il saltatore con l’asta caduto fuori dal materasso.
L’atleta greca a cui si è slacciata una scarpa.
Il brasiliano fermato in gara dal predicaotre pazzo.
La ragazza cinese arrivata quarta per un decimo di secondo, che da quattro anni come gli altri ripete lo stesso esercizio scordandosi tutto il resto, inseguendo un sogno che dura niente. Una fanatica. Una malata. Una tifosa.
Allora ecco. Io lo so che lo sport non è più come prima, che c’è il doping, che ci sono i soldi, che ci sono i poteri.
Però in questa settimana olimpica me ne sono scordata, mischiata a questi Dei fanatici. A questi tifosi sani. Goffamente avvolta in una bandiera tricolore.
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Impossibile non pensare a quello che Genna ha scritto di Federica Fracassi. O per lo meno, per me è stato impossibile. Leggevo il pezzo qui sopra e pensavo a lei, al suo pallore, ai suoi occhi rossi…
Bello il pezzo. Trasuda entusiasmo. Il tifo, quello sano, dovrebbe essere proprio questo.
P.s. per Federica: non ci sono più Spillo e Karlheinz, ma segui un po’ Adriano… Un gigante buono. Il migliore.
“da quattro anni come gli altri ripete lo stesso esercizio scordandosi tutto il resto, inseguendo un sogno che dura niente”
ho letto da poco, in Rilke, Lettere a un giovane poeta: “Lì non si dà nessun misurare con il tempo, lì nessun anno vale, e dieci sono nulla. Essere artisti significa: non calcolare né contare; maturare come l’albero che non forza i propri succhi e consolato sta nelle tormente della primavera senza la paura che dietro possa non venire l’estate. Viene. Ma viene solo ai pazienti che stanno come se l’eternità fosse davanti a loro, distesa, così spensierata e calma e ampia”.
:)
Stasera ho conosciuto Federica che è proprio una di quelle persone che ti piacciono subito, senza riserve; ha letto pezzi di Nove e di Moresco e, giuro, lei è così: pallida, di un pallore irreale, con gli occhi rossi quando recita… vorrei tanto avere una cassetta con la sua voce registrata che legge Canti del caos: è emozionante sentirla recitare.