Parigi, una messa
di Dario Borso
Il 21 aprile 1964, nella gran sala del Palais dell’Unesco, strapiena, Jean Beaufret prende posto sulla tribuna a lato di Jean-Paul Sartre e di Gabriel Marcel. L’occasione è un omaggio a Kierkegaard. Si assiste quasi a una prova generale di certi aspetti del Maggio 68: la folla degli studenti, esclusa dalla sala riservata agli invitati, preme violentemente alla porte e riesce a forzarle; s’installa sui gradini e deborda ovunque. Perché tale insistenza quasi insurrezionale? Per ascoltare Sartre che legge con voce secca e monocorde un testo notevole (Questioni di metodo), ma troppo arduo per un uditorio divenuto intanto saggio e silenzioso. E Beaufret? ‘Rimpiazza’ Heidegger, il quale gli ha fatto tradurre una conferenza che non ha niente a vedere con Kierkegaard: La fine della filosofia e il compito del pensiero. Leggendo lentamente, e come con devozione, questo testo molto ‘heideggeriano’, in cui il Maestro non ha fatto concessione alcuna a qualsivoglia pubblico conducendo però un’interessantissima autocritica a proposito della sua interpretazione della verità in Parmenide rapportata alla Lichtung, produce sull’uditorio praticamente l’effetto di un marziano. Ne sono ben cosciente sul momento e sinceramente desolato, constatando lo scarto incommensurabile tra l’importanza di questo testo e l’effetto catastrofico prodotto sul pubblico. Poco dopo, nell’ottobre dello stesso anno 1964, a Royaumont, in occasione di un convegno hegeliano, avrò il piacere di sentire Hyppolite dire a Gadamer a proposito di quella prestazione: “Era una caricatura della caricatura”.
La testimonianza è di Dominique Janicaud (1937-2002), che la inserisce corsivata in epilogo al cap. VI del suo monumentale Heidegger en France (2 voll., Albin Michel, Parigi 2001, vol. I, pp. 228-9). Essa è sorprendente per più versi: innanzitutto perché esaurisce in sé l’analisi di un episodio non certo secondario della penetrazione del pensiero di Heidegger in area francofona, quando di norma il libro intero brilla per acribia; ma poi perché contiene quattro inesattezze.
1- Il testo letto da Sartre, come si può vedere in Kierkegaard vivant, (ossia negli atti del convegno stesso, usciti da Gallimard nel giugno 1966), è L’universale singolare. Invece Questioni di metodo, apparso originariamente nel 1957 su una rivista polacca, era uscito da Gallimard nel 1960.
2- La traduzione del testo heideggeriano non è del solo Beaufret, ma parimenti di François Fédier, come si può desumere sempre da Kierkegaard vivant. (La stessa versione a quattro mani verrà poi ripresa in M. Heidegger, Questions IV, Gallimard 1976, mentre l’originale tedesco appare per la prima volta in M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tubinga 1969)[1].
3- Beaufret al convegno legge solo una sintesi (1/5 circa), che in Kierkegaard vivant sta anteposta al testo in extenso, con una nota dello stesso Beaufret in cui è definita “una messa a punto di Martin Heidegger della relazione presentata”. Dal che si deduce che abbiamo un testo di Heidegger di cui al momento almeno è introvabile l’originale, e che perciò è rimasto escluso dalla Gesamtausgabe. Eccolo in prima traduzione, italiana o mondiale che sia.
MARTIN HEIDEGGER
LA FINE DELLA FILOSOFIA E IL COMPITO DEL PENSIERO
traduzione di Angelo Bonfanti e Paola Fornara
Verranno poste due domande:
1. In che senso la filosofia, all’epoca presente, è entrata nel suo stadio terminale?
2. Quale compito, alla fine della filosofia, rimane riservato al pensiero?
In che senso la filosofia è, all’epoca presente, entrata nel suo stadio terminale?
Comprendiamo troppo facilmente la fine di qualcosa in un senso puramente negativo come la mera cessazione, come l’arresto di un processo, se non addirittura come declino e impotenza. Tutt’al contrario, l’espressione «fine della filosofia» significa il compimento della metafisica. Ma da un capo all’altro della filosofia, è il pensiero di Platone che, in diverse figure, rimane determinante. La metafisica è da cima a fondo platonica. Nietzsche stesso caratterizza la sua filosofia come rovesciamento del platonismo. Con il rovesciamento del platonismo, a venire attinta è dunque l’estrema possibilità della filosofia.
Fine significa compimento; compimento significa raccoglimento sulle possibilità estreme. Ma tali possibilità devono esse stesse essere comprese in tutta la loro ampiezza. Ché alla filosofia appartiene un tratto caratteristico, e sin dall’epoca della filosofia greca: vale a dire, lo sviluppo delle differenti scienze entro il dominio aperto dalla filosofia. Lo sviluppo delle scienze, e al contempo la loro emancipazione dalla filosofia, fanno parte del compimento della filosofia.
La fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione mondiale in quanto essa risponde, mediante lo sviluppo delle scienze, alla spinta iniziale della filosofia stessa.
Ma c’è per il pensiero, fuori dall’ultima possibilità che è il dissolvimento della filosofia nel progresso delle scienze tecnicizzate, una possibilità prima da cui il pensiero filosofico doveva certo prendere avvio, ma di cui non era tuttavia in grado, come filosofia, di fare la prova e di tentare l’impresa?
Ecco perché si pone la seconda domanda:
Quale compito, alla fine della filosofia, resta ancora riservato al pensiero?
Ogni tentativo di aprire uno sguardo sul compito, forse, del pensiero, si vede rinviato a considerare l’intero che è la storia della filosofia. Già per questo, un simile pensiero rimane evidentemente ben al di qua della grandezza dei filosofi.
Questo pensiero tenta soltanto, davanti al presente, di far intendere in un preludio qualcosa che, dal fondo dei tempi, giusto all’inizio della filosofia, è già stato detto per questa, senza ch’essa l’abbia propriamente pensato.
Porre la domanda sul compito del pensiero significa: determinare ciò che, nell’orizzonte della filosofia, concerne il pensiero, ciò che per il pensiero non cessa di essere problema, ciò che è il punto centrale della questione. Questo è in tedesco die Sache: la cosa in questione, quella che Hegel nomina come Husserl. Cos’è dunque che rimane impensato, tanto nella cosa propria alla filosofia quanto nel metodo che le è non meno proprio?
Con Hegel, ad esempio, la dialettica speculativa è la modalità secondo cui la cosa della filosofia, ovvero la soggettività, a partire da se stessa e per se stessa, entra nella dimensione dell’apparire e così si espone in un presente. Un simile apparire avviene necessariamente entro una certa chiarezza. È solo attraverso tale chiarezza che quanto emerge può lasciarsi vedere, ovverosia apparire. Ma la chiarezza stessa ha il suo riposo nella libertà ancora più ritratta dell’Aperto.
Chiamiamo tale stato di apertura che solo rende possibile a checchessia d’essere dato a vedere: die Lichtung. Il sostantivo Lichtung rinvia al verbo lichten. L’aggettivo licht è la stessa parola di leicht (leggero). Etwas lichten significa: rendere qualcosa leggero, renderlo aperto e libero, ad esempio diradare in un luogo la foresta, sgombrarla dagli alberi. Lo spazio libero che appare così è la Lichtung. Niente di comune fra Licht, che vuol dire leggero, rado, e l’altro aggettivo licht, che significa chiaro o luminoso. Bisogna farvi attenzione per ben comprendere la differenza fra Lichtung (la radura) e Licht (la luce). Ma la luce può visitare la radura, ciò che ha di aperto, e far giocare in essa il chiaro con lo scuro. Non è comunque mai la luce che prima crea l’Aperto della radura; è al contrario quella, la luce, che presuppone questa, la radura. La radura, l’Aperto, non è libero solamente per la luce e l’ombra, ma altrettanto per la voce e per tutto ciò che suona e risuona. La Lichtung è radura per la presenza e l’assenza.
Forse un giorno il pensiero potrebbe non brancolare più davanti a se stesso, ma domandarsi infine se la libera radura dell’Aperto non sia precisamente il sito ove l’ampiezza dello spazio e gli orizzonti del tempo, come tutto ciò che in essi si presenta e si assenta, sono contenuti e raccolti.
La filosofia parla sì della luce della ragione, ma non considera la radura dell’essere. Il lumen naturale, la luce della ragione, non fa che giocare nell’Aperto. Essa incontra certo l’Aperto della radura, eppure la costituisce così poco che ne ha ben piuttosto bisogno per potersi espandere su ciò ch’è presente nell’Aperto. Tuttavia, da un capo all’altro della filosofia, l’Aperto che regna già nell’essere stesso, nello stato di presenza, resta come tale impensato. La conseguenza è che rimane non meno oscuro perché e come la determinazione dell’essere dell’ente non cessi, da un capo all’altro della storia della filosofia, di cambiare. Da dove la determinazione platonica dello stato di presenza come ιδέα riceve la sua legittimità? Relativamente a cosa l’interpretazione della presenza come έvέργεια può far legge? Queste domande da cui la filosofia si astiene così stranamente, non possiamo nemmeno porle fintantoché non avremo fatto esperienza di ciò di cui è occorso a Parmenide di fare esperienza: l’άλήθεια, lo stato di non-latenza.
Se traduco ostinatamente la parola άλήθεια con «stato di non-latenza», non è per amore dell’etimologia, ma per cura della cosa stessa con la quale bisogna affaccendarsi per rimanerle fedele meditando ciò ch’è chiamato: essere e pensiero. Non essere latente è per così dire l’elemento in seno a cui tanto l’essere quanto il pensiero sono l’uno per l’altro e sono il medesimo. È solo nell’elemento della Lichtung, nella radura dell’Aperto che, quanto l’essere e il pensiero, la verità stessa può essere ciò che è. L’άλήθεια, la non-latenza come radura di presenza, non è ancora la verità nel senso corrente dell’esattezza e della validità delle proporzioni. È dunque meno della verità? Non è di più?
Che una tale domanda rimanga affidata come compito al pensiero. Cos’è l’άλήθεια in se stessa rimane latente. È l’effetto di un mero caso? È solo il seguito di una negligenza da parte del pensiero umano? Oppure va così perché ritrarsi, rimanere latente, in una parola la λήθη appartiene all’άλήθεια non come mera aggiunta, né come l’ombra appartiene alla luce, ma come il cuore stesso dell’άλήθεια? (Poema di Parmenide, I, 29).
Fosse così, allora la Lichtung, l’Aperto nella sua radura, non sarebbe soltanto l’apertura di un mondo della presenza, ma la radura del ritrarsi della presenza.
Fosse così, allora sarebbe solo con questa domanda che saremmo su un cammino conducente al compito del pensiero, quando la filosofia è a fine corsa.
Come sapere se è così? A tal fine, è di un’educazione del pensiero che abbiamo prima bisogno. Da dove tale educazione deve far uscire il pensiero? Non è dalla filosofia stessa? Il primo passo su questo cammino è stato Sein und Zeit [Essere e tempo]. Ma il cammino iniziato e il compito del pensiero meglio intravisto esigono ora una determinazione più appropriata del tema ch’era stato un dì indicato sotto il titolo Sein und Zeit. Il titolo deve ora suonare così: Anwesenheit und Lichtung [Presenza e radura].
***
[1] Sull’importanza, cui Janicaud stesso accenna, cfr. instar omnium R. Capobianco, Heidegger’s die Lichtung: From ‘The Lighting’ to ‘The Clearing’, in “Existentia: An International Journal of Philosophy”, n. 5-6 (2007), pp. 321-35.
“Lo sviluppo delle scienze, e al contempo la loro emancipazione dalla filosofia fanno parte del compimento della filosofia.”
non ostante l’auctoritas di martin, trovo questa affermazione ridicola.
la filosofia non si compie con le scienze, ma semplicemente viene annientata dalle scienze, che la ostacolano fino all’ultimo e lo fanno anche oggi (vedi i vari severini), sostanzialmente in due modi:
in modo diretto, opponendovisi apertamente.
in modo indiretto, cioè facendo credere alle numerose anime perse di cui si fregia l’epoca nostra che esista una qualche forma di possibile conoscenza che non sia anche scienza.
sorvolo sulla tristezza della solita attrezzeria hideggeriana su termini come “essere” “ente” eccetera, residuo fossile delle condizioni in cui si era ridotto il pensiero auto-referenziale.
se non si capisce è perché mi sono sbagliato.
sono le scienze ad essere ostacolate dalla filosofia.
la quale, non potendo più nulla su di esse, tenta disperatamente di farle passare come un compimento di sé.
mentre non è così.
(adesso lo vedo già il commento successivo: ma chi 6 tu per commentare il grande martin? eccetera. lo spirito gregario agisce ovunque)
“la quale (filosofia), non potendo più nulla su di esse, tenta disperatamente di farle passare come un compimento di sé.”
Di scienze/filosofia non so nulla, ma che la filosofia tenti disperatamente di mettere le mani sulla poesia, è altrettanto vero.
A volte in modo affascinante (per me) a volte cercando di strozzarla, sminuzzarla, costringerla nel sacco, impadronirsene per brandirla a proprio vantaggio e nutrirne il suo pensiero come un parassita si nutre dell’organismo al quale si attacca.
Ma in fondo, il suo compito non è proprio questo?
Voltaire: “Quand celui qui parle ne se comprende plus, on appelle cela de la métafisique”.
Questa frase è citata in un saggio: “Prologo a Parmenide” che, a sua volta, è sintesi di un’opera più vasta, scritto, e scritta, da Giorgio de Santillana – filosofo della scienza ed ebreo italiano, costretto a lasciare l’Italia, nel 1938,
a causa della legislazione razziale mussoliniana.
Si trova all’interno di un piccolo libro: “Fato antico e fato moderno”, Adelphi, 1985.
Rappresenta, per me, il decisivo antidoto contro la patologia ontologica heideggeriana, sostenendo niente di meno che, il pensiero parmenideo, piuttosto che ontologico è UN PENSIERO SCIENTIFICO.
Una grassa risata divina non può che accompagnarci, in una escursione della storia della filosofia occidentale, quando le argomentazioni, e le prove, che De Santillana porta a favore della sua tesi, vengono fatte nostre.
Altre cose sono sopravvenute, poi, per dare colore alla cosa, non ultima, per me, l’analisi storico linguistica, di Giovanni Semerano, del termine “apeiron” che, originariamente, non sta ad indicare un qualsiasi “infinito”
metafisico o, peggio, teologico, ma, ben più concretamente, l’innumerabile, il “pulviscolo”.
Ma se quello era solamente un antidoto, direi che esiste per il pensiero heideggeriano, non dico un vaccino più potente, ma una vera e propria cura da “cavalle” che – siccome mi piace usare volgarità che abbiano l’efficacia giusta – chiamerò “lo sciaquone definitivo” di ogni pensiero filosofico che non sia o scienza o narrazione: Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, 1986.
Un ben ritornato a Dario – ci sei mancato – e un grazie a Domenico.
più che ontologia, questa messa di heidi parmi un’antologia
(e l’apeiron, più che un antidoto, un aperitivo)
Mi rivolgo al dott. Pinto in quanto specialista della lingua (scritta, parlata e udita):
è vero che la paronomasia fa venire la parotite?
Grazie.
O.
Già che ci siamo non perderei di vista un testo di critica al “Maestro”, per me importante: “Gettare Heidegger” di Luciano Parinetto (è un libro postumo, del 2002). Dario che ha avuto Parinetto come collega alla Statale di certo se lo ricorda.
certo gianni, e mi ricordo anche che discutendo del libro a un certo punto gli ho detto: “attento a non gettare il martino con l’acqua sporca”. e lui mi ha risposto: “già, dobbiamo tenere l’acqua”.
un mito, praticamente!
no, l’unico mito è il mite dal pra (detto antimito).
Quello che questo stralcio dalla Fine della filosofia di Heidegger suggerisce, aldilà del linguaggio che oggi può sollecitare ironia, è in realtà l’apertura del pensiero dell’occidente a posizioni tipiche di quello orientale, specialmente del buddismo: l’andare oltre la separazione tra l’uomo e la natura, la psiche e la materia. E questo attraverso la chiave della lichtung. Certo, non si capisce, e questo è naturalmente un limite tutto occidentale. E non è un caso che nemmeno la fisica o la chimica si capiscano, senza opportuno esercizio. E il tornare a Parmenide è esattamente questo: Parmenide commette per primo l’impensato (appunto): nomina la divisione tra essere (natura) e pensiero (io), e questo sarà per sempre: da un lato la fisica, dall’altro la psicologia. Parmenide non può essere più scientifico che filosofico semplicemente perché viene prima della creazione di questi due concetti: filosofia e scienza. Il tentativo di Heidegger (e di tutti quelli che vengono dopo di lui) è ricucire la separazione, come avviene per esempio nel buddismo. Il suggerimento finale è che la filosofia “finisce” nella pratica, in una etica dell’agire: come nella cerimonia del tè. (E così si riassorbe la separazione di Parmenide, in cui peraltro tutti continuamente caschiamo.)
Sarebbe bello essere “illuminati” (e non “alleggeriti”) da Dario.
“Sage mir, was du vom Übersetzen hältst, und ich sage dir, wer du bist.”*
* M. Heidegger, “Hölderlins Hymne ‘Der Ister’”, Klostermann 1984, s. 76.
*
Il guaio è in parte moderno. A cominciare dall’opera di salvataggio sui testi compiuta dai grandi filologi del secolo diciannovesimo, le varie scuole hanno cercato, una dopo l’altra, di iniettare i loro pregiudizi nel significato di quei testi, secondo il loro modo di leggere la storia delle idee filosofiche.
Ora, si dà caso che la moderna storia della filosofia, da Hegel in poi, sia scritta soprattutto da idealisti, che hanno trovato naturale conservare il disegno neoplatonico e presentare Parmenide come l’anello indispensabile della loro catena intellettuale, il fondatore dell’ontologia.
Verrebbe da chiedere a questi intrepidi modernizzatori: chi potrebbe immaginarsi un Fichte, uno Hegel o uno Heidegger passare da enigmatiche affermazioni sull’Essere e sul Non-essere a un trattato sui meccanismi planetari e la luce della luna, o sulla sterilità dei muli?
Perchè sono proprio questi gli argomenti della seconda parte del poema di Parmenide.
De Santillana, op.cit. pagg. 82, 83.
*
appunto! mi sarei aspettato ad es. una domanda del tipo: le inesattezze sono 4 o 3? cavallo o mulo?
in mancanza, pongo io una domanda: chi illumina chi? l’illuminista l’illuminato, o viceversa?
A proposito: un’informazione (dal mio posto di lavoro).
Uscirà, a settembre, un saggio di uno dei pochi [secondo me] filosofi interessanti che operano oggi in Italia: Carlo Cellucci.
Il titolo: “Perchè (ancora) la filosofia.
L’editore Laterza ne dà notizia con questa scheda editoriale:
*
Carlo Cellucci parte da un limpido assunto: oggi la filosofia può ancora trovare il proprio senso solo se si pone l’obiettivo unico e pivilegiato del perseguimento della conoscenza, una conoscenza che non differisce in alcun modo essenziale da quella scientifica e che non è limitata ad alcun campo del sapere.
Ne consegue che gli scopi della filosofia (e la filosofia stessa) non sono molto differenti da quelli delle scienze.
Tuttavia una differenza c’è, ed è macroscopica: la filosofia si occupa di questioni che le scienze non sanno trattare perché esulano dai loro confini, e per farlo batte vie ancora inesplorate, anticipando le scienze e, in alcuni casi, inaugurando anche nuovi filoni di studio.
Per sviluppare una filosofia che abbia simili requisiti è necessario liberarsi di alcune ‘chimere’ che hanno influenzato per lungo tempo la strada del pensiero filosofico: verità, oggettività, certezza, intuizione, deduzione, rigore e mente.
Cellucci smantella questi ‘miti’ che portano fuori strada la riflessione filosofica e si dedica a un’analisi a tutto campo degli aspetti fondamentali della conoscenza. In particolare prende in considerazione il suo statuto, i suoi mezzi e la sua trama, a partire dal ruolo che la conoscenza svolge nella vita di tutti gli esseri viventi (umani e non) e dal significato che questi le attribuiscono.
*
Perché come foto avete messo Cappuccetto Nero?
il dibattito finora è stato interessante, in quanto ha dato diversi elementi di giudizio a me come ai 2 traduttori, che seguono non ritenendo però opportuno intervenire.
a giustificazione del “pezzo” devo specificare che esso costituisce la puntata XVI di GIOVENTU’ TEDESCA, il feuilleton antisemita di cui NI aveva pubblicato le prime 2 puntate. l’ultima e XVII comparirà su http://www.secretum.it (dove verrà svelata la IV inesattezza).
Sì, il dibattito potrebbe essere interessante. Se Dario Borso intervenisse sul merito del dibattito credo che lo potrebbe essere anche di più. E credo anche che le questioni inerenti la traduzione stessa (“Sage mir, was du vom Übersetzen hältst, und ich sage dir, wer du bist”) qui non interessano molto (e forse sarebbe anche più “sano” che interessassero meno anche nelle università. E così il thriller sulle 3 o 4 inesattezze.) Ma davvero è interessante per i filosofi? Credo invece che gli spunti di Tash, Alcor e giovannicossu siano molto più interessanti per tutti. Se i filosofi non rispondono a queste obiezioni e pensano alla filologia di atti di convegno, allora provocatoriamente [e non troppo, dato che sono laureato proprio in filosofia (con Carlo Sini, allievo di Dal Pra), e un’idea dello stato in cui versa/versano i cardinali-reggitori panciuti di cattedre (con limitatissime eccezioni) me la sono drammaticamente fatta] viene da pensare che i primi “morti del pensiero” siano proprio loro, altro che Zur Sache des Denkens. E questo con tutto il grande rispetto per Dario Borso (e quello enorme per Luciano Parinetto), che infatti invito nuovamente (e senza l’ironia con l’illuminazione questa volta, che sembra averlo molto divertito) a dire qualcosa in merito alla morte della filosofia. Sono cose che io sento molto vicine. Se infatti la filosofia è morta che cosa fa lui all’università? Poi, rapporto filosofia/scienza. Aldilà di Heidegger (che credo sia più interessante per tutti trattare come uno spunto) mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensa lui. Gliene sarei davvero grato, qualsiasi suggerimento è ben accolto!
“Carlo Sini, allievo di Dal Pra” è un’iperbole.
dimmi cosa pensi di “Sage mir, was du vom Übersetzen hältst, und ich sage dir, wer du bist”, e ti dirò chi sei.
“invito db a dire qualcosa in merito alla morte della filosofia. Se infatti la filosofia è morta che cosa fa lui all’università?”
appunto, che cosa ci faceva mh all’università?
Ops, volevo scrivere allievo di Enzo Paci. Mi sono confuso con dal pra di sopra.
la fisofia sarà morta quando non se ne parlerà più. finché se ne parla come morta, è viva. perciò il primo maggio avevo inviato a ciascun redattore di NI la seguente e-mail (cui nessuno ha risposto):
*Penso di non intervenire più nei commenti di NI, fintantoché essi saranno letti da una percentuale così bassa (si parla di un 5% rispetto alla quantità di lettori dei post di NI: fosse anche il 10% o il 20…) Invece ritengo abbia un senso che io continui nei post. NI, seppure in crisi, non ha esaurito la sua spinta propulsiva, e io ci guadagnerei una tribuna di sinistra (bisognosa comunque di medicamento, cfr. risultanze elettorali). NI a sua volta ci guadagnerebbe in qualità (scoperto rimane infatti il settore filosofico) e pure in quantità (altri lettori si aggiungerebbero agli attuali). La mia proposta è dunque: datemi un post settimanale (al venerdì), senza chiavi in mano (non ho bisogno cioè di controllare i commenti: basta che nessun redattore entri a censurare). db
A me piacerebbe molto.
Cioè, mi piacerebbe molto uno spazio di riflessione e confronto anche filosofico su NI. No di certo dei post filologici o storici ex cathedra che disaffezionano e basta, salvo tirarsi indietro poi dalle discussioni per motivazioni che dimostrano come le scienze (economiche e statistiche, percentuali e dare/avere) siano invero nascostamente infiltrate ovunque. Le lezioni-svuota-cervello (anziché il contrario) le ho già subìte (nella maggioranza dei casi) all’università: qui siamo fuori dall’università, questo dovrebbe essere un forum, un’agorà (per farti felice) libera, e possibilmente e idealmente un confronto di intelligenze creative. Aspetterò che ti diano lo spazio per avere una tua risposta a quanto dicevamo prima, sempre ammesso che ci sia abbastanza gente presente.
http://www.secretum-online.it
Ribadisco la mia offerta, articolandola. Devo pubblicare ancora 14 puntate di Gioventù Tedesca, e specie per le prossime 2 (la III e la IV) avrei intenzione di giovarmi dell’Anfiosso, il quale potrebbe poi entrare in NI par mio, con un post settimanale di musica classica (settore pur esso scoperto). Come biglietto da visita (ce ne fosse bisogno), un coccodrillino vivo:
Non l’ho fatto per Di Stefano († 03/03/2008), di cui peraltro s’è parlato deludentemente poco (non credo tanto per via della morte di Pavarotti, † 06/09/2007, che non era propriamente a ridosso, quanto per il fatto che era pochissimo amato dai critici e da tutti quelli che scrivono e discutono di opera), forse perché mi è dispiaciuto troppo, lo faccio per Leyla Gencer, 10/10/1924-10/06/2008. E’ una cosa molto singolare il fatto che anche lei fosse di pochissimo più giovane della Callas (otto mesi), come anche la Sutherland, che aveva solo tre anni meno: eppure la sua collocazione nella storia dell’opera è quella di una delle più accreditate eredi, una delle più illustri epigone. Tra le molte eredi non ce n’è una più meritevole o più importante delle altre, dal momento che il legato della capostipite, si può dire, è stato fatto a pezzi e distribuito in parti piuttosto eque tra le diverse primedonne, che ne hanno poi fatto il meglio che sapevano: la Caballé ha fatto sua la voce-strumento, un po’ flauto, un po’ oboe, un po’ violino, apprezzabilissima nelle nenie specialmente, donizettiane e belliniane; la Sutherland, fulmine di guerra, ha approfondito tutto il discorso sulla coloratura, pervenendo ad esiti di inedita astrazione; altro dovrebbe essere detto delle cantanti nere, che la vigorosa “etnicità” della Callas ha contribuito come nient’altro a consacrare (penso alla Verrett, soprattutto), altro su cantanti, come la Deutekom, che a partire da quei presupposti hanno fatto tutt’altro, con originalità e spregiudicatezza — ma sempre a quella matrice si rifanno. Sono tutte quante diverse e indipendenti, nessuna di loro merita alcuna palma sulle altre; ma la Gencer, tra tutte le eredi, è quella che con la cara estinta ha i più marcati tratti di somiglianza. Una somiglianza di estrazione, che non l’ha schiacciata, perché le era coessenziale: una greca, sia pure per modo di dire, l’altra turca; una studia con una cantante spagnola (Elvira de Hidalgo) in Grecia, l’altra con una cantante italiana (Giannina Arangi Lombardi) in Turchia. Hanno una formazione del tutto “europea”, ma sono irredimbilmente orientali; l’una, la maggiore, di famiglia non incospicua ma déraciné, incerta, un pajo d’occhj spalancati sull’orrore; l’altra, di estrazione altoborghese, figlia di diplomatici, pacata, sicura di sé. Tutte e due destinate ad importare nell’opera qualcosa di straniero, di alieno, o forse semplicemente di originario. Quando la Callas, dopo il ‘57, entrò in crisi, furono diverse le cantanti che cercarono di riportare Norma e Violetta alla Scala, ma finivano regolarmente fischiate e prese a pomodori marcj (gl’insulti vomitati dal loggione erano irriferibili): alla Scotto e alla Freni, accolte al grido di “guitta! guitta!” o ingaggiate in scambj d’insulti proscenio-loggione, non disse affatto bene, e si allontanarono per qualche anno dal massimo teatro italiano. La Gencer, non senza tensioni ma alla fine successful, poté riprendere Anna Bolena e Norma immediatamente a ridosso delle produzioni incentrate sulla Callas, o in anni in cui il ricordo della Callas era ancòra vivo, doloroso e bruciante, e il rancore nei confronti di tutto quello che aveva contribuito a distruggerla era feroce. Ciò si spiega col fatto che la Scotto e la Freni, benché fossero cantanti majuscole, potevano passare per rappresentanti di quell’italianità asfittica, melensa e al fondo aggressiva, a cui pareva essersi sacrificato un po’ troppo; la Gencer, invece, era un’infiorescenza rara ed esotica; la sua terra era, per estensione, quella della Callas. Aveva il merito di portare altrove, e oltre, in anni che avevano ben poco di bello da offrire. Accanto alla Simionato e a Zaccaria, in una bellissima Norma che tuttavia non vale la sua Bolena, ebbe un mezzo trionfo. Seguendo la vulgata (per quanto riguarda la Callas), c’è un’ulteriore rima interna nel fatto che anche le sue ceneri sono state inghiottite dal mare (l’Egeo per l’una, quello del Bosforo per l’altra), ma è una cosa macabra. Mi sono riferito a Di Stefano, poco sù: con Di Stefano fece una bella Forza del Destino, 1957, direttore Votto. La consiglio, perché no? Era una cantante straordinaria, interpretò decine di ruoli (a differenza, stavolta, della Callas, che aveva un repertorio ecletticissimo ma non cantò molti ruoli), fece molte grandi cose.
essere a tempo in tandem [1986]
il tropo esserci
citando l’essere
esercitò nel topo
la facoltà de’ sorci
ad essere soci
nello starci
a tempo
Non dimentichiamo che abbiamo lasciato il giovane Richard dal tipografo, secondo quanto vagamente sovvenuto dal mio socio (che non farà certo rimpiangere né Hans né Heinrich):
*Non credo che Meyerbeer gli ripugnasse. Non credo che gli ripugnasse alcunché, si considerava persino bello, e provava quella specie di coppola alla Fantozzi per ore tutte le mattine davanti allo specchio. Ed era anche convinto di essere a propria volta di origine ebraica, perché convinto di essere figlio di Geyer, e convinto che Geyer fosse ebreo. Tutte illazioni sue, probabilmente, e senza fondamento. (Ho l’impressione di aver letto nell’Autobiografia da qualche parte che una volta W. capitò in una bottega di tipografo, e scovò M. che cercava di nascondersi dietro una pila di foglj di musica. Come dare torto al povero M.? Non vedete che W. era pazzo?).*
*
Caro Doktor Professor Heidegger, vorrei sapere che cosa intende con l’espressione “caduta nel quotidiano”. Quando ha avuto luogo questa caduta? Dove stavamo noi quand’è avvenuta?
SAUL BELLOW, Herzog, Feltrinelli, 1965. 4°ed. 1976, pag. 69.
“caduta nel quotidiano”
è da collegare alla pennica: un primo pomeriggio estivo, dopo un primo e secondo abbondanti, nella poltrona buona di una sala troppo in ombra: alla terza pagina ovviamente, e più precisamente con la faccia sull’elzeviro
*Ciascun collaboratore ha un accesso personale al sito che gli permette di pubblicare autonomamente ciò che vuole, senza passare attraverso alcun filtro redazionale e alcun tipo di mediazione. L’organizzazione di Nazione Indiana è decentrata, orizzontale, rizomatica. Non esiste una redazione centrale, non ci sono posizioni unanimi, ma singole autonomie individuali.*
Dallo statuto di NI si evince che la mia proposta, per passare, può essere accolta anche da un solo collaboratore. per il momento ho scartato Biondillo e Kraspen. punterò su Pinto e Saviano.
Dario, per essere precisi, come già ti spiegai a suo tempo in privato, l’ingresso in NI è per proposta di un singolo redattore all’intera redazione, che decide a maggioranza se accogliere o meno il candidato. Da quel momento, come ci rammenti tu, il nuovo redattore *ha un accesso personale al sito che gli permette di pubblicare autonomamente ciò che vuole, senza passare attraverso alcun filtro redazionale e alcun tipo di mediazione. L’organizzazione di Nazione Indiana è decentrata, orizzontale, rizomatica. Non esiste una redazione centrale, non ci sono posizioni unanimi, ma singole autonomie individuali.*
Borso, se nazione indiana ti piace tanto, perché non cominci a dimostrarlo disturbando un po’ meno? Grazie
Dov’è il disturbo?
avanti Pinto o Saviano, allora
Secondo me, i redattori di NI si dividono in: rizomatici e rizosomatici. Alla prima categoria, sempre secondo me, appartengono Pinto e Saviano, alla seconda Biondillo e Krauspen (temporaneamente, trattandosi di una malattia curabile, di cui già ora provo a eliminare un sintomo laddove Biondillo afferma:
“L’ingresso in NI è per proposta di un singolo redattore all’intera redazione, che decide a maggioranza se accogliere o meno il candidato. Da quel momento il nuovo redattore *ha un accesso personale al sito che gli permette di pubblicare autonomamente ciò che vuole, senza passare attraverso alcun filtro redazionale e alcun tipo di mediazione. L’organizzazione di NI è decentrata, orizzontale, rizomatica*.”
Ecco, io non mi sono candidato affatto a nuovo redattore di NI: chiedo semplicemente a un attuale redattore di NI di concedermi un post x settimana senza alcun accesso mio personale al sito.
Se ho confuso perdonami Dario. Ho mentalmente sovrapposto un vecchio carteggio con questo tuo commento. Ti chiedo davvero scusa.
In questo senso, sì, hai ragionissima.
Praticamente Borso vuol fare il redattore esterno.
Un post a settimana? Propongo che abbia una sua rubrica “Borsite”; e che sia anche pagato.
Presidente Sparzanii, può mettere agli atti questa mia modesta proposta?
rizosomatico = rizomatico con presidente
presidente = trizomatico
difatti *Borso, se NI ti piace tanto* – ma avevo scritto *NI, seppure in crisi, non ha esaurito la sua spinta propulsiva* (come l’URSS, e non essendo necrofilo…)
*perché non cominci a dimostrarlo disturbando un po’ meno?*
a parte che il presidente disturba la trattativa, per togliere il disturbo dovrei farmi togliere il post da Pinto
Più seriamente: non redattore esterno, ma semplicemente detentore di una rubrica settimanale (come succede da che mondo e mondo nelle riviste culturali, che hanno i loro redattori interni e i loro rubricanti esterni)
Qui è pieno di rubricanti esterni. Non facciamo che pubblicare scritti di esterni. Di tutti i tipi.
severgnini non ne vedo
@Pinto. Nel testo di Heidegger, dopo le due domande, al secondo capoverso, un refuso: *Lo sviluppo delle scienze, e al contempo la loro emancipazione dalla filosofia fanno parte del compimento della filosofia.* (manca una virgola tra *filosofia* e *fanno parte*).
Un altro al quartultimo capoverso: la *E’* (apostrofata invece che accentata).
In qualche modo faremo… In qualche modo…
più che come severgnino, mi vedo come berardinello: penna indiana su foglio pallido
rizomatico: parla in prima persona singolare
rizosomatico: parla in prima persona plurale
trizomatico: parla in terza persona singolare
se penso che in italia oggi si diventa dottori scrivendo E’ invece di È, vien da mettersi le mani nei cavilli. quanto a *Lo sviluppo delle scienze, e al contempo la loro emancipazione dalla filosofia, fanno parte del compimento della filosofia*, sento puzza: opterei per “Lo sviluppo delle scienze e al contempo la loro emancipazione dalla filosofia fanno parte del compimento della filosofia”.
Vedo ora l’ultimo post: grazie di avermi rovinato la giornata. El polligrafo boliviano ha raggiunto quota 16 puntate e il mio GT è fermo a 3. Cos’ho io che ha mignano, a parte la faccia http://www.silviomignano.net ? È sempre spiacevole tirar fuori le credenziali proprie, ma io sono molto più indiano di mignano. Un indiano? Forse non proprio, almeno non nell’accezione che si attribuisce tradizionalmente alla parola. Ma se è vero che l’uomo porta sempre con sé, ben inciso nella retina, qualcosa dei posti che ha visto, che ha attraversato, che ha amato, allora io ho le stimmate dell’indiano. Nato a Fondelli, sul bordo dell’Agro Pontino bonificato negli anni Venti, terra di bufale e mozzarelle, vi sono rimasto poche ore, poi trasferito per 18 anni a Gaeta, borgo di marinai e pescatori, crocevia delle culture greca, latina, romana, bizantina, araba, francese, siciliana e borbonica. Un po’ di sangue arabo e hidalgo deve scorrere nelle mie vene, a giudicare dalla faccia. Ho vissuto tra il 1994 e il 2001 a Cuba e in Kenya, non potendo evitare di essere contaminato dal fantastico crogiolo di culture e sincretismi dei Caraibi e di assorbire i colori e profumi della savana e della Rift Valley (dove ho incontrato talora bufale più grosse di quelle che ricordavo dall’infanzia). Rientrato in Italia, mi son fermato a Milano per 3 anni prima di ripartire per Basilea, dove i rigori dell’inverno centroeuropeo mi hanno fatto rimpiangere certi languori dei tropici o dell’equatore, regalandomi in cambio i colori del Reno e di Art Basel, la più importante fiera di arte contemporanea al mondo – un’altra delle mie passioni. All’inizio del 2007 mi sono trasferito sopra Cogne, atterrando ai 4000 metri d’altezza di uno dei tetti del mondo. Nel frattempo mi sono sposato con Dania, modella di Fendi e di altri stilisti italiani. Che dire di più? Che sono rappresentato dalla Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency, presso cui ci si può rivolgere per mie prestazioni (anche a tempo determinato).
Mah, SUL BORDO dell’Agro Pontino, nell’AGRO Pontino, volevi dire, immagino.
Ma a parte la tua origine, e questa discussione in cui non voglio entrare, Dario, io non ho mai capito perchè lasci così negletto il tuo blog. Un po’ d’ordine, che diamine.
Da http://www.silviomignano.net/chie_2.htm
*È nato il 23 ottobre 1965 a Fondi, sul bordo dell’Agro Pontino bonificato negli anni Venti, terra di bufali e mozzarelle.*
ma alcor! stavo tranquillo a ubique (per modo di dire, si stava obliqui in 3…) quando è andato tutto per traverso, anzi peggio: le parole si mettevano tutte in verticale, anzi peggissimo: le lettere! poi dunque a ubicue, dove il passa-chiave è giunto a un punto tale che la gente va direttamente al post: ti credo che manca l’ordine!
Più in generale: per me la differenza tra ubicue e NI è come tra mangiare in casa e al ristorante, o se vuoi, tra mangiare un bordo dell’agro pontino e un brodo dell’argo pontino.
Dipende sempre dal cuoco.