Tutto il calcio minuta per minuta
di
Pasquale Vitagliano
Al processo lo dicevano
che la palla è tonda
che ogni partita è a sé
che il campo è neutro.
Allora l’arbitro era nero,
nera la notte di Hegel,
nessun altro colore se non
le casacche in campo.
Adesso che anche tu
fai la partita e te la giochi
la palla sembra pilotata.
Così appaiono guidati
i palloni sempre meno tondi
da un qualche dio intercettabile.
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Faccio lo steward
ho il campo alle spalle
non vedo mai la partita
vedo gli altri esaltarsi
o disperarsi, no!
Faccio lo steward
ho il campo alle spalle
lo spettacolo che vedo
è quello che vedono gli altri.
Sì! E gioiscono, urlano, saltano.
una volta però l’ho fatto.
Mi sono voltato.
È stato un secondo. Ed è stato orrendo.
Non c’era un prato verde
e non si giocava nessuna partita.
Ho solo intravisto
una spianata immobile di corpi.
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Collassa la terra
sul campo di gioco
in piedi è rimasta
la traversa della porta.
Le traiettorie sono sghembe
il linguaggio s’è fatto seriale
i numeri non esprimono gioco
ma una sgonfia liturgia.
Collassa il pallone
senza corrente e la voce
metallica si spegne nel vuoto.
La traversa resiste solida e dura
resta un altare senza più rito
lascia una scia per chi è rimasto a casa.
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Attendi, attendi.
Tutti sono rimasti fermi,
ad attendere che rompessi il muro,
i muri, tutti i muri, anche quelli invisibili.
Hai atteso, Ago, atteso troppo e troppo
attendevano da te. E tu che c’entravi coi loro muri?
Non hai temuto barriere, neppure quelle vere.
T’hanno scordato presto, solo perché sei morto.
La gloria t’ha tolto il sorriso,
la bandiere t’hanno strappato dal muretto,
contro la terra anche tu hai messo la faccia
lontano dalla porta, ad inseguire un tiro troppo forte.
Attendi, attendi, tanto tu sei regista,
quello che conta è far volar la palla,
perché tu sei rimasto solo a dirci che è solo un gioco.
Atteso, atteso, ti abbiamo atteso invano
per ascoltare da te che la recita è finita,
tu che poeta diversamente lo sei stato lo stesso.
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Non penso che il calcio
Sia dare un calcio ad un pallone
Per poi inseguirlo a frotte.
Penso che senza Marx
Non ci sarebbe stato Sacchi
E il gioco a zona.
Ma che grazie a Weber
Il gioco ad uomo resta insuperabile
Anche se non c’è più lo stopper.
Penso che Beckenbauer
Libero e tedesco sia un ossimoro
Come un argentino che balli la samba.
Ed infatti tra Maradona e Pelé
Scegliere è come dimostrare
L’esistenza di Dio per argomentazione.
Penso che il calcio italiano
Come a Caporetto confermi che
Gi italiani sono migliori dei loro generali.
Che l’Inghilterra non esiste in geopolitica
Che la Francia migliore è senza francesi
Che Russia o Unione Sovietica il gioco è sempre quello.
Penso che il calcio sia la prova
Che siamo tutti uguali altrimenti
Con i neri non ci sarebbe partita.
Che come ogni opera d’arte
Il calcio parla dei nostri corpi, anzi
Nutrito, dopato, tatuato è il corpo che parla a noi.
Penso che esista un calcio postumo
Perché in vita non ha vinto nulla,
Quello olandese troppo bello per essere vincente.
E penso che il calcio più bello
Sia quello che non si vede in natura
Come il cerchio esiste, ma non c’è.
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Su quanti campi ho giocato
i piedi rotti, nudi d’estate
sulle piastrelle rigate
e poi il sabbione e gli scarponi
la pantofola d’ora
nelle ore più calde del mondo
non ho conosciuto gli stracci
ma le tele più leggere
e le sfere arancioni di quando
ero triste e stronzo
finanche sulle zolle di terra
sulle palestre scoperte
e i campi da tennis divelti
e tra pietre e sassi come bersagli
i piedi duri e gli scarpini chiodati
le scarpette sull’erba di plastica
e pure con gli scarponcini
sull’asfalto rotto dalla pioggia
sul pavimento liscio nel più grande salone
del mio ultimo ufficio,
non più triste non più stronzo.
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L’erbetta, verde, l’erbetta
finalmente ecco il campo
il terreno di gioco ed io
su di esso con i tacchetti
che aderiscono morbidi
la gioia, la grazia, cosa si prova
la prima volta di tutto
sono il primo uomo sulla luna
anche se fosse tutto falso
allora la cosa più bella di un luogo
era se ci potevamo giocare a calcio.
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Anche nel calcio ci sono gli invisibili
quelli che per tetto e per legge
hanno solo la propria maglietta.
Chi si ricorda più di Furino?
Difficile a trovarsi e ringhioso
all’opposto di Brio, facile ma
unico difensore a terrorizzare i suoi.
Di Oriali s’è già cantato
ma di Buriani. Niente.
Stop. Carriera finita.
C’è chi ha avuto Ruben Sosa
E chi Batista o Talamonti.
Chi persino Blisset o un certo Adriano.
Chi ha scambiato Pirlo
con un tale Guly
pensando ad un affare.
A molti questi nomi non diranno nulla,
meno dell’appello di una classe scomparsa.
E figuriamoci se nominassi i miei
Filisetti, Podavini e Mele,
nomi di impiegati d’oro
o di politici trombati.
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Al di là della linea d’ombra,
grigio Dino, non divo, grigia
la maglietta, grigi i capelli,
stupefacente il silenzio
e le parole piane e chiare
per qualcuno miope
ed invece capitano.
Al di là della linea d’ombra,
noi al di qua di quella di porta
c’hai trattenuti stretti
noi pallone, noi bambini, noi divi.
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Io so che adesso
è negli stadi che vive Quasimodo.
Gli stadi, i campi, l’arena,
non più le cattedrali, il catino,
il campo di concentramento,
il pianeta crollato, l’astronave,
i colossei, l’uovo, l’occhio.
Entrate, il calcio rende liberi
allegoria del pallone
che non vuol dire nulla
e invece dice tutto.
Nota
di
effeffe
Gli undici apostoli
In un’intervista al figlio di Martin Heidegger, a cura di Antonio Gnoli e Franco Volpi, a un certo punto leggiamo:
“Da giovane ha praticato molto sport: è stato un buon atleta, soprattutto ginnastica attrezzistica, ha giocato al calcio, ha remato e soprattutto sciato. Amava guardare le partite della nazionale di calcio e quando c’ erano incontri importanti li seguiva da una televisione di un vicino. Tifava molto per Beckenbauer”.
C’è qualcosa di religioso nel mondo del calcio. Per esempio il fatto che i giocatori diano le spalle al pubblico – con l’eccezione di una piccola porzione di spettatori che godono e non per tutto il tempo della frontalità- l’arbitro su tutti e un tempo vestito di nero, come un sacerdote. O la constatazione che il gioco, qualunque esso sia, si giochi all’interno di rituali ben precisi, poco importa quanto collettivi- la sfilata d’ingresso in campo, l’inno a squadre schierate – o individuali- i gesti di scaramanzia dell’uno, l’esultare per un gol realizzato o evitato, degli altri.
Il calcio è un gioco che gioca sé stesso, come nel magnifico film Fuga per la vittoria, diretto da John Houston in cui è chiaro a tutti i giocatori- resistenti in campo e fuori- che non c’è disegno politico, piano d’evasione che tenga di fronte alla necessità metafisica di giocare il secondo tempo, a costo di rischiare la vita. Esattamente come accadde nell’episodio che l’aveva ispirato, la famosa partita della morte giocata tra ufficiali tedeschi e giocatori ucraini della Dinamo e della Lokomotiv nel 1942, e in cui furono passati per le armi a fine match rei di aver vinto loro malgrado.
E se c’è qualcosa di religioso deve esserci per forza qualcosa di profondamente filosofico liddentro. Quindi non sorprende ad esempio l’amicizia nata in Francia in questi mesi tra Jean Claude Michèa ed Eric Cantona. Considerato tra i filosofi più interessanti della scena francese, il primo ha addirittura intitolato uno dei suoi pamphlet “Le plus beau but était une passe” ( Il più bel gol è stato un passaggio) proprio riprendendo una delle battute del secondo che tra l’altro lo ha voluto in un film documentario girato insieme a Gilles Perez, Foot et immigration . Eppure, dalle nostre parti, l’elenco è lungo di questi fortunati incontri, anzi sovrapposizioni, che hanno visto gente come Pier Paolo Pasolini o Carmelo Bene vivere e far rivivere i miti fondatori – non c’è religione senza fondazione, senza mito- attraverso il calcio praticato o guardato. Come quando al cattolico si chiede se è praticante oltre che credente. La poesia di Pasquale Vitagliano, come nel calcio d’antan, è senza riserve, – questo costrinse Beckenbauer a giocare con un braccio rotto- e come il calcio si svolge con un ritmo naturale, appassionato – lo stesso che incede con l’elenco dei giocatori recitato dagli altoparlanti in uno stadio- moltiplicando un solo punto di vista in undici diversi ruoli, paesaggi, voci. Non è possibile sapere in anticipo- tanto meno ora- se la sua è una poesia a zona o a uomo, se premierà la poesia poesia degli sperimentatori – con repentini cambi di ritmo- o la prosa poetica dei marciatori del verso.
Ma allora, se il calcio- ma andrebbe detto per lo sport in generale- è un fatto religioso- e dunque filosofico- perché si gioca a undici e non a dodici? Come gli apostoli? Per esempio. Forse perché come nella partita dei filosofi “giocata” dai Monty Pyton – in cui la terna arbitrale è composta da santi – una qualche casacca nera ha deciso di tenere fuori Giuda; eppure sappiamo che non è così. Ci piace invece pensare che il dodicesimo sia davvero lo spettatore, colui che guarda e sempre per rimanere nel campo delle analogie tutti sappiamo che la partita della poesia, come quella di calcio, senza il dodicesimo uomo, che è il lettore, sarebbe non solo impossibile giocarla ma profondamente inutile.
Questi versi riconciliano ( ce n’è proprio bisogno ! ) con la poesia
Grazie Pasquale
leopoldo –
Grazie Leopoldo per questo commento.
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