Un giorno ci svegliamo vivi
[Esce per Valigie Rosse, Premio Ciampi 2016 per la poesia straniera, l’antologia di Ioan Es. Pop, straordinario poeta rumeno. Qui alcuni testi, in coda un brano dell’introduzione che ho scritto per il libro. a. i.]
di Ioan Es. Pop
traduzione di Clara Mitola
.
- (arco di trionfo)
questo faccio ora: torno a oltețului 15.
è venerdì ed è sera.
da venerdì a lunedì non abbiamo più motivo di vivere.
allora hans s’infuria e compra dell’alcool sanitario
e zoli s’infuria e compra dell’alcol sanitario
e io m’infurio e dico anch’io perché
e loro dicono perché e dopo mescoliamo
il tutto con dell’acqua e cominciamo a essere felici.
non dicono più perché, non lo dico più.
da venerdì a lunedì non ci sentiamo più.
prendiamo ciascuno la propria parte e cominciamo a essere
un po’ meno infelici, un po’ meno vivi.
e fino a domenica notte è tutto OK
e non conta se o se non.
si affaccia hans alla finestra e zoli alla finestra ma
non c’è nave che appaia da corinto.
e dicono non è ancora lunedì e io dico ancora no.
e a oltețului c’è di nuovo grande allegria.
arriva il venerdì e da venerdì a lunedì
è il nostro giorno notte giorno libero
e cantiamo da far tremare le pareti –
marinai navigati che sperano una domenica di veder spuntare
all’orizzonte, tra i palazzi di colentina,
la nave da corinto.
e lunedì, quando sono tutti via, alla fine arriva
anche qui il Figlio a redimere;
con la camicia sporca, gli occhi gonfi d’insonnia,
con la bottiglia vuota in una mano, barcollando e canticchiando.
s’arrampica su per le scale fino alla trecentocinque, allunga la mano e dice:
legami al suo legno, per dormire un po’anch’io, amico.
*
- quattro mughi con la barba girano intorno all’alloggio degli scapoli.
l’amministratore li rincorre a forbici sguainate.
noi siamo preti, gridano quelli, non possiamo essere rasati.
noi siamo magi, non possiamo.
sono tre mesi che veniamo a vedere
il miracolo della camera trecentocinque –
sporco erode, noi siamo magi e siamo venuti a confermare
la sua nascita e a portarlo al cimitero.
*
- l’uccello hans
è arrivato un uccello stanotte dalla finestra
e sono certo fosse hans.
era calvo come lui e ubriaco fradicio.
oh, ha detto, prendi 50 lei, vai qua di fronte, hanno un
grappa favolosa. nevermore, gli ho risposto.
dice: da quando vi ho lasciato, dice, mi hanno
assunto come custode di notte al belu. ho una
lanterna eccezionale. di giorno dormo. lavoro con
la polizia. con i soldi che ho vi ci seppellisco. sono la civetta
di minerva. apro gli occhi solo all’imbrunire.
ora mi hanno decorato. ho grandi medaglie al
fegato. questo già da quando stavo
qui con voi. oh! e le ferite mi fanno ancora male.
dai, su, vai a prendere qualcosa che festeggiamo.
hansi, gli ho detto, nevermore.
*
- nello ieud senza uscita anche noi ci siano, anche noi ci siamo stati una volta.
e ci siamo anche adesso e ci saremo anche domani dopodomani e
in eterno l’acqua dello stesso fiume ci lambirà.
quanti mesi non sono stati altro che giorno e notte
quanti mesi l’ho cercato ovunque?
passante, tienilo a mente: lo spazio in quel punto
si piega bruscamente a sinistra, il capo del rettile si
stacca dal corpo, il gesso della nuca s’incrina e si crepa. quel capo
solo galleggia ora su sterpaglie e acque,
solo se ne sta lì il solitario sul
bastione di sebastian.
ma tu tienilo a mente: se scivoli lì,
nessuna mappa ti sarà più d’aiuto,
invano ti affannerai a cercare l’uscita l’entrata l’uscita,
invano ti affretterai a strappare il sudario dello spazio
in cui sei scivolato. da quella parte non troverai altro
che l’ombra del tuo piede da questa parte.
senza margini è lo ieud e senza uscita.
nessuna geografia è ancora riuscita a stabilirne la grandezza.
nessun’aurea a preannunciarlo
nessuna coda di cometa a seguirlo.
come una nuvola sulle atmosfere galleggia su
sterpaglie e acque, nessun’aurea
a preannunciarlo nessuna coda di cometa
a seguirlo.
*
- ho pregato mircea gli detto mircea, mura una buona volta
questa finestra, qui non c’è nessuno,
forza, riempila di malta e mattoni, altrimenti un giorno
mi strapperà di nuovo fuori,
non posso stare tutto il tempo rannicchiato sotto di lei.
ma mircea ha detto eh! e tutti hanno detto eh! io ho detto
eh!, ha detto volevo prestarti da molto questa teiera
per mettertela in testa quando passi da una stanza all’altra,
sarà il tuo elmo scintillante nel bel mezzo della notte
e prendi la bacchetta con cui insegno io la spagna in geografia
sarà la tua lancia gloriosa –
alzati e vai a lottare contro te stesso, in-
figgi a sangue gli scarponi
nel ventre del nostro cavallo di legno
scendi nella granada della vasca da bagno, abbatti
le farfalle sulla lampada è il mostro che ci dà la caccia
il sole del bagno –
in cucina c’è cordoba, ci si sono installati i topi
del dubbio. vinci il dubbio, abbiamo vissuto con loro troppo a lungo
per sapere ancora chi dà la caccia a chi.
e nei nostri nuovi panni non siamo noi; da soli
sventolano disperati, coraggio,
lanciati verso la mancia dei nostri panni
trapassali con la tua lancia e liberali da noi,
sei il solo ad aver vissuto tutta la vita nella
spagna di questa stanza,
solo tu sai come.
*
- bussiamo alla porta perché ci aprano perché
ci lascino uscire, ma dall’altra parte non ci sentono e
bussano anche loro alla porta perché gli si apra perché escano
e quando si apre incontriamo noi stessi
ma non ci badiamo e diciamo vogliamo uscire
e loro dicono vogliamo entrate, non prendete con voi la porta
o non avremo cosa aprire all’uscita,
rimarrà un vuoto nel muro,
non avremo da dove uscire.
*
in questa solitudine in cui d’inverno non ho più
il coraggio di accendere il fuoco nella stufa perché la stufa
fa più fumo che fuoco
in questa felicità provvisoria da
novembre a marzo
come ieri so che domani non sarà altro domani che
il solito oggi e oggi e oggi e oggi tutto il tempo
e oggi per oggi non si può fare granché.
è giusto, in questa solitudine non qualsiasi uomo solo
durerebbe a lungo. eppure c’è
una gran quantità di sciocchezze che bisogna onorare:
il desiderio di essere ad ogni costo
l’impotenza di amare ancora anche
il giorno di ieri.
*
12 ottobre 1992
torno a casa dopo anni e anni di cammino per bucarest
e torno con una sporta vuota in mano
e si affaccia lei sulla soglia e mi dice ma
nostro caro, pare dicessi che andavi a far soldi,
pare dicessi che in due anni tu guadagnerai quanto gli altri in quattro
e guarda ora non porti niente.
beh ecco, cari, proprio niente ho guadagnato.
e porto a casa così tanto niente come non ha potuto accumularne
nessuno in questi due anni.
non ho potuto nemmeno trasportarlo da solo tutto
il niente che ho guadagnato.
dietro di me arrivano carri stracolmi di niente,
quasi schiantati dal peso.
quando si scaricheranno nel nostro cortile,
nessuno avrà tanto niente come noi.
tra un anno o due sarà più ricercato dell’oro.
lo venderemo solo al prezzo più alto.
statene certi, cari, tanto niente non ce l’ha nessuno.
per due anni non ho fatto che metterlo insieme pensando solo a voi.
*
Da Voci del sottosuolo
di Andrea Inglese
.
Leggendo i testi di quest’antologia, ho cercato di evocare la fisionomia di chi potesse enunciare le parole in essi custodite. Chi potrebbe averle pronunciate? Sappiamo che le ha scritte Ioan Es. Pop. Le attribuiamo al fantomatico “io lirico”? A un io autobiografico, oppure ad un semplice soggetto grammaticale, neutro e incorporeo, che agisce da dentro il testo, ben al riparo dalle miserie biografiche e storiche? Mi sembra che l’autore abbia raccolto tante voci nel corso della sua vita – voci sue, di amici, di familiari, di vicini di casa, di sconosciuti ascoltate in coda alla posta – e che da questa somma di voci, per trasformazione poetica, ossia sillabazione rituale, ossessiva, incantatoria, abbia tratto una voce di sepolto vivo, una voce di persona che non conta niente, di quelle appena percepibili in certi individui solitari, all’ultimo stadio di una sbronza, di una demenza senile, di un delirio paranoico. Non che siano voci lontanamente mimetiche di soggetti storici e reali, perché nessuno può veramente sentire le voci di questi soggetti del sottosuolo. Esse sfuggono in varie maniere alle nostre capacità sociali di captazione e riproduzione, sono mormorii inintelligibili, rumori di fondo, sfasature nel tessuto ordinario della comunicazione. Bisogna essere familiari con una certa miseria della vita e delle cose, per poter parlare da un tale luogo spoglio di aspettative, illusioni, speranze. Luogo che è tremendamente simile alla morte, dal momento che solo in esso realizziamo quel pieno distacco da tutte le immagini che ci tengono in vita e che ci sospingono verso un nuovo movimento, una nuova volontà di parola.
[…] [da Un giorno ci svegliamo vivi, Valigie Rosse, 2016] tramite Nazione Indiana […]