Dalla parte dei Serbi

di
Azra Nuhefendic

Tra tutti i commenti che ho sentito dopo la cattura di Radovan Karadžić, le parole che mi cono piaciute di più sono state quelle di un anonimo passante di Belgrado (TV Belgrado, 22/07): “Questo vuol dire la fine della srpstvo”. Se fosse vero, sarebbe davvero un ottimo segnale!
Srpstvo per i serbi è l’equivalente del vostro “italianità”. Io, come presumo la maggior parte della gente, associo l’italianità alla storia, alla cultura, alla moda, al design, al buon vino, alla cucina tipica ecc.
La parola srpstvo, al contrario, non mi fa pensare a neanche una cosa positiva.

La verità triste e tragica è che negli ultimi 20 anni il termine srpstvo si è riempito di significati essenzialmente negativi: la guerra, la distruzione, il genocidio, lo stupro, i crimini, i campi di concentramento, il nazionalismo, il fascismo.

“L’identità della Serbia è legata al crimine”, sostiene il noto avvocato, editore a Belgrado, Srdja Popović.
Alcuni nomi serbi come Milošević, Mladić o Karadžić, anche essi legati al srpstvo, hanno ottenuto fama mondiale; sono diventati il sinonimo del male, pari ai nomi di Hitler, Eichmann, o Bin Laden.
Lo stesso termine coniato all’inizio della guerra in Bosnia, “pulizia etnica”, si rifà a srpstvo. Infatti l’English Lexicon, famoso dizionario inglese, , che ogni anno si aggiorna prendendo nuovi termini dalle varie lingue nazionali, nel 2007 ha preso proprio dalla lingua serba l’espressione “pulizia etnica” sancendone il legame con serbi e con la srpstvo, finché ci sarà parola scritta.

La distruzione è il monumento principale della cultura serba di oggi”, dichiara lo scrittore bosniaco Marko Vešović (“Dani”,28/07/08)
Più in generale , srpstvo, oggi significa una politica fatale e fallita che la Serbia ha conseguito negli ultimi due decenni e grazie alla quale, cercando di costruire uno stato etnicamente puro, ha voluto e perso quattro guerre.

“Tutto quello che Miloševic e i suoi seguaci sapevano fare era diffondere l’odio e mettere i vicini uno contro l’altro”, scrive Charles Simić (The New York Review, 12/2008), poeta americano di origine serba, stigmatizzato traditore perché era contro la politica nazionalista serba negli anni novanta.

Sui campi di battaglia la Serbia è stata sconfitta, eppure gli ideatori e i teorici del nazionalismo serbo sono “sani e salvi” senza rinunciare all’idea di una grande Serbia. Circa il 40 per cento della popolazione della Serbia ancora oggi li segue.

Il nazionalismo serbo è ancora vivo nelle scuole, nelle università, nei media”, sostiene Sonja Biserko, presidente dell’Helsinki Committee in Serbia. Il nazionalismo però non è una pianta selvatica che cresce da sola, va nutrito, incoraggiato, sollecitato.

Tra i principali sostenitori del nazionalismo serbo, della srpstvo, c’è la Chiesta serbo ortodossa. Nega i crimini di guerra, nega il genocidio di Srebrenica, è contro l’Europa, odia Tribunale dell’Aja.
Il suo silenzio a proposito della cattura di Karadžić è stato, nei fatti, più chiaro di qualsiasi dichiarazione.

“La sorte di Radovan Karadžić è la sorte di tutto il popolo serbo”. Con questa pretesa il Patriarca Pavle ha iniziato e firmato, nel 1997, insieme ad altri 60 intellettuali serbi, la dichiarazione per la difesa di Karadžić.
Stesso silenzio della Chiesa ha accompagnato la pubblicazione del filmato dei paramilitari serbi “Scorpioni”, battezzati da un prete ortodosso, prima che andassero a uccidere 16 bosniaci di Srebrenica.(vd fine del filmato)

Come reagire allora di fronte alla dichiarazione rilasciata dalla Chiesa serbo ortodossa, nel 1993, dopo che il mondo aveva scoperto l’orrore dei campi di concentramento in Bosnia: ”Nel nome della verità di Dio… Confermiamo, con tutta la responsabilità morale, che i campi di concentramento non sono esistiti e non esistono in Bosnia”.

Poi ci sono gli intellettuali serbi che nutrono la srpstvo, la tengono viva. La lista è vergognosamente lunga. Lo scrittore Dobrica Čosić, autore dell’idea di “trasferimento umano”, cioè della pulizia etnica; lo storico Milorad Ekmecić secondo cui 200.000 morti non sono nulla a confronto dei risultati storici della guerra; lo scrittore Dragos Kalajić che, vedendo Sarajevo in fiamme, aveva scritto “ho sentito caldo intorno al cuore”; il poeta Rajko Petrov Nogo che sosteneva invece: ”noi serbi abbiamo bisogno di bere il nostro bicchiere di sangue”; il poeta Matija Becković che, infelice del fatto che la guerra fosse finita, aveva scritto la poesia “Ceracemo se još” (Non è finita) promettendo ancora morte e sangue; oppure lo storico Kosta Cavoski, insieme all’ex primo ministro Vojislav Kostunica fiero “custode e garante di Karadžić e Mladić”; lo scrittore Todor Dutina, che aveva dichiarato: ”Se non sappiamo scrivere, almeno sappiamo bruciare le biblioteche”.

Poi i giornalisti e i direttori dei principali quotidiani e della TV di Belgrado. I media in Serbia, secondo la giornalista di Belgrado Svetlana Vuković, “sono il centro della politica revisionista e nazionalista e concedono spazio agli ultra-nazionalisti e ai clerico fascisti”.
Il risultato è che i giovani serbi manifestavano a Belgrado contro la cattura di Karadžić. Molti non erano neanche nati durante l’ultima guerra, o erano così piccoli che non potevano né sapere né capire cosa stesse succedendo. Non sanno cosa è successo a Srebrenica ma promettono che si ripeterà, e cantano:

”Dormi tranquilla, Fata,
Tutti i tuoi sono sgozzati,
Tranne Mujo,
Lui e’ impiccato sulla porta”

I creatori del caos, i maghi del nazionalismo nero, quelli che non hanno ancora rinunciato al sogno di una Serbia grande e etnicamente pulita contano su questi giovani e sul srpstvo risvegliato; contano sui giovani disoccupati e senza futuro nella Serbia di oggi, l’80 percento dei quali non ha mai viaggiato fuori dal Paese.

L’anonimo passante che ha detto che la cattura di Karadžić rappresenta la fine della srpstvo, era disperato per questo fatto. Ma io quella affermazione l’ho presa come un buon segno, e spero proprio che la srpstvo stia finendo.

Sono convinta che la fine della srpstvo, cioè del nazionalismo serbo, possa fare bene alla Serbia, ai Balcani, e all’Europa.

Per questo tifo per la Serbia! E spero tanto che presto farà altri passi necessari verso l’Europa, che entrerà a farne parte il più presto possibile. Prima anche della Bosnia Erzegovina e della Croazia.

So che non sarebbe giusto premiare, in tale modo, un Paese considerato come il principale responsabile del male che ha dominato nei Balcani negli anni novanta. Ma, ne sono convinta, la Serbia europea farà bene a se stessa e al resto di noi.

Nota di effeffe

Al festival del cinema all’aperto della Villette a Parigi, poco dopo il conflitto in ex Yugoslavia vidi un bellissimo film, la polveriera di Goran Paskaljevic. Un film che uno degli spettatori accanto a me aveva definito, Pulp Fiction dei Balcani. Per me era molto di più. E per questo ho voluto inserirlo nel post di Azra, riportando l’intervista che ho trovato in rete, del 1999, al regista, come augurio da parte mia a tutti i miei amici serbi perché ” un’altra Serbia sia possibile”.

La parola al regista

Negli ultimi anni, sono stati realizzati diversi film sul conflitto che ha insanguinato e diviso ciò che una volta era la Yugoslavia, tutti quasi esclusivamente imperniati sulla Bosnia.
Come yugoslavo di origine serba, sentivo da tempo il bisogno di mostrare, attraverso il destino di “gente comune”, lo stato d’animo del mio popolo che, non va dimenticato, subisce ancor oggi, nella vita di tutti i giorni, le conseguenze di un lungo embargo, che mirava a indebolire il regime in atto ma in realtà non ha fatto che colpire i più deboli.
Ci sono voluti anni perché la Serbia democratica si risvegliasse e chiedesse la caduta di un regime che ha prodotto una società basata sulla legge del più forte. Oggi, purtroppo, è questa la legge imperante nella maggior parte dei paesi slavi, dove la cultura del fatalismo distrugge qualunque iniziativa di cambiamento.
E’ per questa ragione che Boris, Manè, Dimitri, Ana, Kosta, Natalia e tutti gli altri, credono di avere in pugno la loro vita e sono in realtà trascinati in una spirale di follia balcanica. Il che non fa perdere loro il senso dell’ umorismo e soprattutto, non gli impedisce di dare prova di umanità.
E’ in questa umanità che ripongo le mie speranze.

13 COMMENTS

  1. È stato detto, dopo l’esecuzione di Saddam Hussein, che al di là di ogni considerazione politica un mondo senza Saddam Hussein è comunque un mondo migliore.

    Lo stesso si può dire per i criminali di guerra serbi e i loro sostenitori ideologici. Perché, per esempio, non viene catturato e processato anche il “capo” della chiesa ortodossa sostenitrice della pulizia etnica? Dovrà pur essere previsto un reato di manipolazione ideologica, di incitazione! Adriano Sofri ha scontato quasi dieci anni di carcere in Italia per un reato simile (senza voler entrare nel merito della sentenza o della sua reale innocenza o colpevolezza).

    Credo che il discorso su Saddam si possa allargare a tutti i criminali di guerra (e di pace), a tutti i dittatori e manipolatori (intellettuali e giornalisti inclusi). Un mondo “senza” queste persone sarebbe sicuramente un mondo migliore.

    L’Unione Europea, l’Europa. Per molti paesi che ne voglio entrare a far parte l’UE sembra essere diventata una possibilità di riscatto e di emancipazione economica, politica e culturale. Ma soprattutto garanzia di pace e stabilità. Questa forse è un’illusione, e tuttavia l’Europa ha una seria responsabilità politca e morale nell’accogliere questa istanza. L’adesione alla UE, ancora prima che un fatto economico-politico diventa una garanzia di pacificazione e di sopravvivenza. Penso dunque che l’Europa dovrebbe accogliere subito questi paesi, anche in dergoga alle regole di stabilità economica. Per ragioni umanitarie e di civiltà.

  2. Brava Azra, stupendo articolo. La mia tristezza sta solo nel fatto che se sostituiamo la parola “Serbia” con “Italia”… il risultato non cambia. Esprimo i miei più sinceri auguri a che entrambi i paesi nominati possano cambiare ma, per farlo, è necessario che prima della collettività cambi l’individuo e le sue intenzioni le quali, al momento, sono malate gravemente di cecità interiore e di patriottismo che esclude il diverso, dimenticandosi che la diversità è solo l’aspetto esteriore dell’uguaglianza centrale ed essenziale verso la quale l’individualità deve tendere per essere capace di amare. Un abbraccio stretto di speranza.

  3. … scusate, l’argomento è tale che bisognerebbe resistare ad ogni tentazione di polemica, ma il commento qui sopra («se sostituiamo la parola “Serbia” con “Italia”… il risultato non cambia») mi ha letteralmente scandalizzato. Lo considero osceno.

  4. caro Marco
    Massimo faceva riferimento ad un passaggio dell’articolo in cui Azra spiegava il significato della parola srpstvo. Tradotto letteralmente sarebbe “serbità”. serbitudine, essere serbi ecc. che diventa appunto, traslato nella nostra lingua, italianità, italianitudine. Azra nel suo articolo fa una vera e propria dichiarazione d’amore al paese che le ha dato asilo (vive a Trieste) e come sai l’amore è cieco… Se invece di Trieste fosse stata, diciamo, Casal di principe a darle asilo, probabilmente la “casalitudine” , quella che ti fa dire in una situazione di rischio, di minaccia,” ie song è casal’ è principe” sarebbe molto, ma molto simile alla srpstvo di cui sopra. E allora anch’io mi auguro , proprio perché sono dalla parte dei casalesi (con la c minuscola) che possano liberarsi della casalitudine, ideologia criminale sostenuta da camorra e affini.
    Azra come certi affettuosi e colti amici stranieri che si commuovono a sentire “lasciatemi cantare perché ne sono fiero…” sdogana in qualche modo il nostro nazionalismo, a Massimo invece gli si drizzano i capelli. A te invece si drizzano i capelli se Massimo reagisce così. fate allora come me, che sono quasi calvo, e non corro allora un rischio del genere e canticchiatevi come probabilmente Azra fa, w l’Italia del dodici dicembre, l’Italia con le bandiere…”
    Un grazie ancora all’autrice
    effeffe

  5. Mi sento in dovere di chiarire il principio dal quale origina la mia affermazione: qualsiasi sentimento nazionalistico si oppone all’universalità dei principi che sottendono alla creazione che ci ospita, e l’orgoglio nazionale trova una giusta causa solo nella commemorazione degli eroi che si sono sacrificati in onore dei principi di giustizia che soccorrono il debole, l’inferiore, il diverso, il sofferente, attraverso l’unità di un popolo. Quando, invece, il patriottismo esalta i confini e le diversità nelle loro accezioni di esclusivismo e differenziazione, legittime solo se armonizzate e conviventi con le altre diversità, allora allontana la possibilità dell’amore universale che è inizio e fine dell’esistenza. Ci si scandalizzi, piuttosto, dell’odio per l’altro che non dell’amore.

  6. Un articolo magnifico come sempre dalla parte di un’autrice sensibile e che nello stesso momento modera la sua sensibilità ( cio che ammiro).
    Anch’io faccio una dichiarazione d’amore all’Italia e spero un’ Europea nella pace e nella generosità, con la bandiera.

  7. una serbia migliore?
    o una jugoslavia?
    o un montenegro?
    o un kosovo?
    o una croazia?
    o una bosnia-erzegovina?
    o una slavonia?
    o slovenia?

    augurandosi una serbia migliore non si fa che invitare ai propositi di cui tutti gli illustri criminali sono stati portavoce e portatori, nel sangue..

    perchè c’è sempre questa euforia senza argomenti, questo rimando alla speranza nel buon proseguo, dello spettacolo?, questo accontentarsi di sapere e lanciare qualche frase perchè il mondo si risollevi dalla propria sorte.

    serbia migliore? con o senza montenegro? con o senza kosovo?
    qual è la serbia migliore? e soprattutto migliore per chi, per te italiano o per te serbo?

  8. un ‘altra serbia come ben sa caro effeeffe sottintende inevitabilmente – ma mi corregga se le ha dato senso opposto- un’altra serbia “migliore”.

    quindi si ritorna alla mia domanda, precisa.
    cosa si intende per un’altra serbia, migliore o meno?
    entro quali confini, con quali religioni, e nel caso per che un’ altra serbia?

    sono domande opportune nel momento in cui si propone una discussione sulla serbia così come sull’iraq. sembrano sempre un po’ troppo leggeri i commenti a volte, sulla morte di saddam sui criminali militari e non serbi.
    mi piacerebbe capire a che titolo e per chi parlano questi signori quando scrivono di umanità, universalità.
    assomigliano tantissimo ai discorsi di benedetta xvi. rilfettere.

  9. se parli di Azra credo proprio che quei titoli li abbia tutti
    magari coi tempi che corrono non valgono molto
    cioè voglio dire per il mercato, insomma non sono titoli che si possono spendere ,per vincere un concorso, avere un posto più confortevole nella società, titoli per guadagnare meglio e di più. Diciamo che Azra non ha i titoli, ma un titolo sicuramente, visto che un libro suo, me lo auguro di cuore, un giorno raccoglierà tutto questo. .Certo. tanto rumore per un libro!! – dirà qualcuno. Lo dirà nonostante sappia perfettamente che solo la scrittura che ti salva vale la pena di essere assecondata.

    effeffe

  10. no.
    parlo per i commentatori senza argomenti ma con tanta estatica e benedetta apprensione.
    l’articolo mi è piaciuto, non ho capito i commenti, spesso, come in tutti i forum, prevale la voglia di buttare lì delle parole neanche tanto pensate per partecipare e dire la propria. non è necessario quando quello che si ha da dire è banale, sciatto e, ripeto cosa grave, senza argomenti, astratto, sterilmente astratto.

  11. cosa si intende per un’altra serbia, migliore o meno?

    premesso che non sono uno da busta uno due tre quattro credo che la risposta l’abbia data Azra prima con il suo articolo, e, credo anch’io, con la nota a margine che ho messo. Non si tratta qui di ragionare in termini di territorio, ovvero a chi cosa come se si giocasse a risiko, ma di percezione che un popolo può avere di se e delle sue frontiere. Ci sono dei popoli che possono pensarsi addirittura senza alcuna terra, come l’essere ebreo o rom. E per certi versi anche nella nostra storia italiana si può vivere con relativa serenità l’appartenenza deterritorializzata.
    L’articolo parla invece della “serbitudine”, dell’ultranazionalismo per cui la tesi di fondo che sostengo anch’io è che facendo a meno di quell’ideologia (nel video che ho linkato le icone di quella tragica idea si susseguono come pugni in faccia) si può non solo continuare ad essere serbi ma a farsi amare da serbi anche nel resto d’Europa.
    In chiusura, con la speranza di averti risposto, vorrei citare un episodio che mi è capitato a Belgrado. Se ti dicessi il lavoro per cui ero andato non mi crederesti ed allora te lo dico: esattamente un natale fa fui mandato a Belgrado per allestire tre grandi alberi di natale in una grande multinazionale. tre alberi che dovevano essere à l’italienne.in quei giorni di surreal lavoro ero assistito da tre persone, due donne magnificamente toste, Mari non te la dimentichi a Santo Stefano, e un uomo Goran gigantesco come un attore dell’omonimo regista.

    Il giorno che era venuto a prendermi all’aeroporto mi accolse con una gentilezza unita alla curiosità verso l’uomo venuto dall’Italia per fare gli alberi di natale. E così mi chiese com’era come lavoro. Io ero andato sì a Belgrado per quello ma era la prima volta che lo facevo. la motivazione per cui mi fu attribuito l’incarico era per “il mio senso estetico” di cui avevo dato prova in tutt’altro tipo di allestimenti ed eventi. E ricordo di avergli risposto qualcosa del tipo che certo non si lavorava molto, cioè una volta all’anno, per cui, capisci…ecc. E ad un certo punto quando passammo per la zona delle ambasciate e mi apparve prima quella cinese, bombardata per sbaglio all’epoca del raid americano e poi un palazzo sempre stprico con una sorta di gabbia di ascensore che una bomba aveva creato in caduta e che era visibile dall’esterno gli ho chiesto: Allora, com’è la situazione?
    Lui è rimasto in silenzio, intanto guidava, poi si è voltato verso di me e mi ha chiesto, quale situazione?
    Ecco credo di essere stato sorpreso come lui dalla tua domanda. Quale serba migliore?
    effeffe

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017