Abbiamo fatto una gran perdita
Hotel La Selce, Monselice
Sabato 27 settembre sera
Cara Sara,
se vorrai rispondere, non chiedermi perché scrivo da un hotel poco distante da casa. A pensarci, tu non hai mai risposto in questi anni, hai solo scritto, parlandomi, e ti cerco ancora proprio per questa ragione. Mi sono messo in viaggio oggi, sono solo e rimarrò via qualche settimana. Ti avevo in mente poco fa, guidando, appena uscito dall’autostrada e con il piede ancora pesante sull’acceleratore, in quell’intervallo in cui il cielo rischiara e acquista profondità. Se è per questo, è già da stamattina che sei con me. Una luce umidiccia finiva su alcuni campi di pannocchie trebbiati (qui hanno già terminato da un pezzo, si vede). Ho abbassato tutti e quattro i finestrini per far arrivare l’odore dei tutoli, ma è stato inutile. Ora è tutto aperto il cielo e l’ottobre sa già colpire nel freddo della sera. Pensavo a quando il granturco è appena spuntato, verso maggio, a come la sua crescita esplosiva coincida per me con il passo dell’estate, sin da quando da piccolo, con una piccola carriola arancione, si spargeva il concime d’urea sulle file di piante ancora molto basse per dar terra e poi con la solcatrice si tracciavano le vie d’acqua che sarebbero servite per l’irrigazione a scorrimento. Se un campo era invece destinato all’irrigazione a pioggia, diventava il teatro di getti violenti, arcobaleni, linee di tubi sempre nuove. Quel che si doveva fare era allungare o accorciare la gittata. Quante volte mi sono nascosto tra le piante del granturco cresciute per aspettare l’arrivo dell’acqua schiumosa, di un topo morto annegato e per osservare come s’interrompeva lo scorrimento per qualche secondo, finché aveva riempito una larga fessura della terra arida. Ci sono ancora delle strade che corrono tra campi esclusi dalla nuova monocoltura del Prosecco. In pochi giorni la crescita del granturco le trasforma in trincee provvisorie. Con lentezza, giorno dopo giorno, le viste e gli orizzonti mutano e nei giorni torridi, se ci passi accanto, l’aria manca: è bloccata ogni circolazione. Poi torna tutto come prima, con la trebbiatura: le trincee ridiventano strade, tutto si livella e si fissa di nuovo. Tra poco proverò a dormire e sarà strana questa prima notte. Io dormo sempre a pancia in su, quasi mai di lato e non riesco proprio a mettermi a pancia sotto perché la schiena si infastidisce a causa della strana conformazione del mio torace. Ci sono dei risvegli che rimangono incompleti, soprattutto in estate. Quando capitano riesco a malapena ad avere coscienza delle finestre aperte e di quello che arriva da lì: passano poche macchine, avverto gli uccelli che saranno presto lungo il corso dell’acqua a bere da una lanca odorosa di pesce. Di solito è proprio a questo punto che mi stritola un dolore lancinante: è come essere al mondo ma richiamato in tempi che affondano in una preistoria. Allora incomincio, sempre nell’incompletezza di un risveglio, a essere presente in tanti tempi e so bene in che cosa si trasformano quei versi d’uccelli che sento arrivare da fuori, con le prime luci: nella visione dei miei antenati lontanissimi filtrati nelle ossa uno a uno. Fa male questo flusso di pensieri che non si placa e che mai dà avvisaglie, né da dove proviene, né su quando potrà finire. Tuttavia procura anche un piacere che non vorrei s’interrompesse quando arriva a solleticarmi. Credo che il piacere abbia a che fare con la materia e con quella membrana attraverso la quale qualcosa dei sogni s’infilerà nella giornata, per qualche ora al mattino soltanto. Però ho scoperto un trucco banale e adesso te lo svelo. Dovesse mai capitarti qualcosa di simile, provalo se il flusso diventa insopportabile: quelle volte che l’orrore supera il piacere riesco nel sonno a trovare l’impulso per alzare l’indice destro e sfiorare le creste iliache, quegli ossi che più sporgono da distesi. Così facendo, questo piacere divenuto orrore evapora all’istante. Non mi capita spesso e capita quasi sempre in estate. Vorrei che mi capitasse domattina su questo letto caldo. Ti ho sognata ieri notte e anche per questo sei nel tragitto di oggi. Ora non ricordo bene, ma so che ho fatto fatica ad arrivare a sera. Per tutto il mattino, mettendo poche cose nella valigia con le rotelle e giocando a carte coi bambini, mi ha preso la nostalgia di poterti salutare e parlare. Nel sogno c’erano molte statue in pietra, alcune senza braccia e ammuffite, stagni, piccole foglie cadute. Adesso, dopo aver scritto a un amico, mi rendo conto che tutta quell’amarezza della prima metà della giornata è lava di un vulcano che si è essiccata in poche ore. Se tu fossi qui ora ci saluteremmo soltanto e ognuno andrebbe per la propria strada. Magari avremmo potuto cenare sui colli. Mi domando che cosa ti piace mangiare adesso o se metti ancora il limone anche dove proprio non ci va. E sono certo che questo accadrebbe dopo un pomeriggio in cui non avrei fatto altro che aspettarti, camminando avanti e indietro la stradina fuori dall’albergo, per riacciuffare una frase che riguarda noi e quella stagione nostra. C’è una foto in una rivista pubblicitaria qui in camera. Ritrae da vicino una vecchia sella di bicicletta, in cuoio e mezza sfondata. In bici accadono le più grandi intuizioni sull’essere vivi, ma io sono ora in viaggio con l’auto.
Martino
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Hotel La Selce, Monselice
Sabato 27 settembre sera tarda
Gentile signora Halima,
sono Martino, il padre della bambina in classe con suo figlio. All’ultima riunione, quando ho riaccompagnato a casa lei e un altro genitore sorpresi da quel temporale che ha allagato mezzo paese, mi sono rimaste impresse alcune sue parole arrivate dopo la timidezza e l’imbarazzo iniziali di trovarsi nella stessa auto. Mi raccontava delle molte trasferte di lavoro di suo marito, della solitudine che non le pesa e delle vostre percezioni di noi. Il tono era distaccato, ma era quello di chi vorrebbe parlare della Storia, di come la percepiamo e come ce la raccontiamo. Con voi intendeva gli abitanti del paese, quelli che vivono lì da molto tempo insomma. (Non le ho detto che non è il mio caso, ma mi sono sentito comunque radunato in quel suo voi.) Ricordo bene il disprezzo con cui si riferiva alle scene che vedete attraverso le vetrate delle pizzerie, soprattutto il sabato o la domenica a cena, alle nostre festicciole. Lei ha ragione, e non perché io creda che sia giusto disprezzare questi momenti delle famiglie fuori casa, in una delle tante pizzerie o ristoranti della sterminata pianura. Il mondo è pieno di questioni mal calate nel reale e questa potrebbe essere una, tuttavia io trovo che lei abbia ragione a notare qualcosa di grottesco in queste scene, perché in quello che lei vede e disprezza leggo l’incapacità di tanti fra noi di entrare in una quotidianità (dica pure una settimanalità, se preferisce) diversa da quella che abbiamo ereditato, di immaginarci capaci di un lavoro utile, di incidere in una qualche polpa, prima di tutto politica. Certo, i miei e suoi coetanei hanno abitudini diverse da quelle dei genitori o dei nonni, ma siamo rimasti prigionieri della loro e della nostra immagine, impoverendola solo di colore, aumentandola di contrasto e archiviando tutto in nuovi improbabili generi di racconto. Con questa foto ci siamo abituati a descriverci. C’è stato poi un momento in cui ha detto che il confine che porta all’odio, a farsi saltare in aria in mezzo a una folla, è un muretto friabile (non ricordo le parole esatte, che non erano queste, ma l’immagine che mi è rimasta è quella dei muretti che si sbriciolano). Quasi per tranquillizzarmi ha subito aggiunto che è qualcosa che non la riguarda, tuttavia ha voluto avvertirmi che l’odio nasce sempre per un particolare di fastidio che si cementa e diventa mastodontico. Non sono d’accordo con lei: per me l’odio nasce come un’indulgenza non richiesta, verso di sé, gli altri o un’idea. Le scrivo da un viaggio appena cominciato. Mi auguro di non averla infastidita con questa lettera, che invierò senza conoscere il numero di casa (il postino non sbaglierà). Poco fa è uscita dalla porta della camera accanto una signora che le assomiglia moltissimo e allora mi è tornato in mente quel breve tragitto in auto sotto la pioggia fredda, il grande cellulare irradiante che teneva in mano e che io vedevo come uno scudo di luce frapposto a sua difesa. Oggi in autostrada pioveva circa come quel giorno. Ricordo che dopo un tuono lei ha sorriso. C’è un ultimo episodio su cui vorrei tornare. Riguarda quella volta in cui vi salutammo mentre eravate a cena nella pizzeria vicino all’ufficio postale e noi siamo passati di là per un asporto. I bambini si sono messi a conversare, io e mia moglie abbiamo scambiato qualche parola con suo marito. Ricorda quello che ci siamo detti? Abbiamo parlato dei mattini che a volte, soprattutto in estate, più che a un inizio, assomigliano alla fine della giornata precedente.
I migliori saluti.
Martino Dossi
* * *
Hotel Italia, Cortona
Sabato 11 ottobre pomeriggio (forse sera)
Caro Lucio,
senti questa: giorni fa a colazione ho fatto due chiacchiere con un signore assai distinto. Lui era molto ben vestito, io invece mi faccio bastare le poche cose che ho messo in valigia. Ricordo però di aver percepito netta la differenza d’abito, a un tratto. Stava leggendo un libro e aveva notato che tiravo gli occhi per capire di che libro si trattasse. Voltandosi di poco mi ha mostrato la copertina, sorriso e spiegato che preferisce di gran lunga la prosa in prima persona, sebbene costringa per forza a un narratore sempre in vita. Alzandosi per prendere un secondo caffè, ha voluto accertarsi che afferrassi bene il fatto che un racconto in prima persona non potrà contemplare la morte della voce narrante, a meno che post mortem non vi sia un avvicendamento tra prima persona singolare e un’altra persona, o che questa prima persona passi a raccontare un’altra storia, sia l’oltrevita o una nuova finzione, con un titolo diverso. Mi pareva che qualcosa in quel pensiero lo turbasse molto, così come ero certo che quel rovello lo ingannasse. Tuttavia, in giornate così colme di sole com’era quella, due uomini che ragionano a colazione in un albergo assomigliano a cavalieri zoppi, forti e immuni quanto basta per non farsi trapassare da qualsiasi pensiero troppo profondo o duraturo. Mi ha comunque colpito il suo discorrere, unito al suo aspetto e ogni tanto ritorna il ricordo delle sue parole come un tarlo. Ci eravamo anche dati appuntamento per un aperitivo nel tardo pomeriggio, ma non si è presentato. I portieri mi hanno poi detto che era partito nel primo pomeriggio.
A presto.
Martino
Abbiamo fatto una gran perdita è un libro epistolare pubblicato da Oèdipus Edizioni. Qui il blog dedicato all’opera:
Sembra bellissimo, pieno di grazia. E la forma epistolare riserva meraviglie ancora – di nuovo – ai nostri giorni.
Letto e ordinato.