“A fellow of infinite jest”
“A proposito, lo so che questa parte è noiosa e probabilmente ti annoia, ma si fa assai più interessante quando arrivo alla parte in cui mi uccido e scopro quello che succede subito dopo che una persona muore”. Caro vecchio neon, DAVID FOSTER WALLACE
di Francesca Matteoni
Domenica, 14 settembre 2008. Sono all’internet point di Judd Street, nel quartiere londinese di Bloomsbury: sullo schermo appare la foto di un noto scrittore americano dai capelli lunghi, il volto aperto, un po’ malinconico. Sotto l’immagine due numeri, 1962 e 2008, un arco di 46 anni, una nascita ed una morte. Non riesco a focalizzare subito cosa ho davanti. Poi mentalmente una sequenza di altri scatti, lo stesso uomo – accovacciato contro un muro di mattoni accanto ad un cane come un barbone; con occhiali che legge e sorride davanti ad un microfono; con bandana larga, bianca, l’immagine che preferisco, che guarda pensieroso qualcosa in basso, forse un libro che sta autografando. David Foster Wallace si è ucciso venerdì 12 settembre, nella sua abitazione nel sud della California. Lo ha trovato la moglie, impiccato. L’appeso, un simbolo estremo di conoscenza (che appare grottescamente macabra associata ad un uomo che sapeva scrivere di tutto), il corpo intirizzito, in tensione verticale, uno strumento rivelatore contro il linguaggio. Vorrei scrivere qualcosa di molto accurato ed intelligente, colmo di citazioni dall’opera di Wallace, farne un ritratto degno, per cercare il favore di fantomatici altri, la loro compartecipazione. Ma il fatto è che tutto mi sembra ridursi ad una questione personale, alla fitta che sento in fondo alla gola, come se qualcuno ci avesse spinto una grosso pezzo di ghiaccio maltagliato. Fa male – quando si scioglie trasforma il corpo in un’urgenza insopportabile, un manichino ridicolo, senza vocabolario. È strano come vite sconosciute si intreccino alla nostra, alimentando il sospetto che il caso non esista, chiudono un cerchio – anche ferendo, riportando a galla pezzi che con fatica cerchiamo di nascondere. Meno strano forse quando l’altro è uno scrittore, s’inventa nei libri per toccarci in parole che per paradosso vengono spesso fraintese, inglobate, riscritte nelle nostre esperienze. “È proprio così”, ci diciamo leggendo, ma dall’altra parte resta un estraneo, profondamente amico e solo. La morte di ogni artista è una perdita che ci riguarda, ci fa sentire più poveri, anche se non conosciamo la sua opera a memoria. Eppure nel caso di Wallace la notizia è ancora più terribile. Si allunga su di lui la sagoma del teschio di Yorick, il buffone dell’Amleto, proprio quel “fellow of infinite jest” che ha ispirato allo scrittore il suo capolavoro, incidendo così bene la lezione dell’ironia da stracciare il velo sulla tragedia del vuoto. Cosa resta dell’arguzia, dell’immaginazione, cosa resta davvero di un essere umano nella vita e nello specchio impietoso della letteratura? David Foster Wallace è un suicida come lo svedese Stig Dagerman, ho pensato, schiacciato dal suo stesso formidabile talento. L’ho conosciuto proprio a Londra, nel 2005, leggendo Oblio in una stanza minuscola vicino alla metropolitana di Stockwell, dove mi svegliavo la mattina all’alba per l’abbaiare dei cani stipati sul terrazzo dell’appartamento sottostante. In Oblio c’è un racconto Caro vecchio neon, che mi aveva subito attirato con la luce incandescente del titolo. Il protagonista si chiama D.F. Wallace e narra in prima persona il suo suicidio. Una valanga di parole per cercare di arginare l’impostura in cui si svegliano alcune persone più intelligenti (o più sfortunate, a seconda dei punti di vista) di altre, ma che ci abita tutti: accorgersi che la vita è per lo più una menzogna, cercare di essere qualcosa ed esibirlo, incapaci ad afferrare la nostra stessa autenticità. Sentire che il dolore è ovunque e senza lingua, nonostante l’arte, come l’animale indecifrabile al di là della palizzata da cui ci sporgiamo a tutto simili, da tutto troppo distanti. Allora non c’è scampo. Non si tratta di scegliere, nemmeno quando ci si getta nel vuoto, si spenzola da una corda, si lascia che il gas ci sommerga in una nuvola di dimenticanza, ma di allungarsi disperatamente per respirare. Quando finii quel primo racconto piansi per diversi minuti, perché mi aveva devastato con la sua forza, la sua verità crudele. Ora mi torna la stessa ondata di pena, come una premonizione non colta, ma finalmente chiara, un’evidenza senza possibilità di rassicurazioni, un addio, un segno che chiede rispetto. La consapevolezza che il suicidio è tanto alienazione e fuga quanto il sintomo più chiaro di una disarmante umanità. Ciao, caro vecchio Dave Wallace.
“Tutto ciò che è un fallimento è anche una vittoria”
David Foster Wallace
Ithaca, 21 febbraio 1962- Claremont, 12 settembre 2008
Ho letto da qualche parte un commento di un suo ex-studente, in cui diceva che DFW gli aveva detto di scrivere di ciò che sapeva. Non ho letto Caro vecchio neon, non ho letto Oblio. A leggere in giro, mi dico, ma sono proprio fuori tempo. Non credo lo leggerò a breve, devo far passare del tempo. Però ho riaperto pagine più o meno a caso dei suoi libri, questo sì, leggendo credo non più di sei-sette frasi. Mi è sembrato che, volendo, si potesse partire da ognuna di esse per parlare della sua morte. Interpretazione, fraintendimento. Più si definisce, meno si definisce. Limiti che si allontanano fino a toccarsi.
Dave, di Itaca, omonimo del paese di Ulisse.
Un indizio che c’è qualcosa di non proprio reale nel tempo consecutivo come viene da noi esperito sta nei vari paradossi del tempo che apparentemente passa e di un cosiddetto “presente” che si srotola sempre nel futuro creando sempre più passato alle sue spalle.
Come se il presente fosse questa macchina – bella macchina a proposito – e il passato la strada appena percorsa, e il futuro la strada illuminata che non abbiamo ancora raggiunto, e il tempo il movimento in avanti della macchina, e l’esatto presente il paraurti anteriore che fende la nebbia del futuro, sicché è ora e poi un attimo dopo un ora completamente diverso, ecc. Solo che il tempo passa per davvero, a che velocità va? Con che ritmo cambia il presente? Visto? Perché se usiamo il tempo per misurare il moto o la velocità – come facciamo, non c’è altro modo – 95 miglia all’ora, 70 pulsazioni al minuto, ecc. – come dovremmo misurare la velocità con cui si muove il tempo? Secondo per secondo?
Non ha senso. Come fai per parlare di tempo che fluisce o si muove vai subito a sbattere contro il paradosso. Perciò pensaci un istante: e se non ci fosse affatto movimento? E se tutto questo si svolgesse in quel baleno che chiami presente, questa prima, infinitesimale frazione di secondo dell’impatto quando il paraurti anteriore dell’auto in corsa comincia a toccare la spalla del ponte, appena prima che il paraurti si accartocci rincagnando il muso e ti stai proiettando violentemente in avanti e il piantone dello sterzo ti viene contro il petto come se scagliato da qualcosa di enorme?
Perché insomma se questo ora è di fatto infinito e niente passa in realtà nel modo in cui la tua mente è a quanto pare programmata a capire passa, per cui non solo la tua intera esistenza ma ogni singolo modo umanamente concepibile di descrivere e motivare quell’esistenza ha il tempo di balenare come il neon in forma di lettere corsive unite come quelle che le insegne e le vetrine amano tanto usare tutte assieme nella tua mente nell’istante letteralmente incommensurabile fra l’impatto e la morte, proprio mentre muovi incontro al volante a una velocità che nessuna cintura al mondo potrebbe frenare – FINE.
David Foster Wallace, Caro vecchio neon, Einaudi 2004, pp. 212-213 (in nota).
@Andrea Branco. Quanto hai ragione!!! I libri lasciano tracce su sentieri non ancora percorsi.
@ Francesca. Anche se non conosco l’opera di Wallace trovo il pezzo molto toccante. Sarà forse l’ora di comprare un benedetto libro.
Finalmente un ricordo degno, pieno di umanità, cuore, bellezza.
Per dio, fatela finita: nel racconto Caro Vecchio Neon il protagonista NON si chiama David Foster Wallace, e non c’è nessun personaggio nominato David Foster Wallace che “narra in prima persona il suo suicidio”. Prima di comporre “toccanti” necrologi, per dio, leggete e rileggete il materiale del morto. Vaffanculo a voi sciattoni.
Hai scritto (benissimo) quello che io ho (confusamente) pensato in questi giorni… grazie per avermi dato voce… è la prima volta che la morte di uno scrittore mi tocca tanto, mi sembra che abbiamo perso un interprete essenziale del nostro tempo e che capiremo un po’ meno di quanto ci circonda senza DFW
Non vorrei dire una cazzata grande come una casa, e nemmeno guastare questo bel pezzo, ma se non ricordo male il suicida – il narratore – di “Good old neon” NON è “David Wallace”, ma uno yuppie con problemi relazionali che era stato compagno di classe di “David Wallace” e si chiama “Neal”. È un errore in cui è incorso anche Tommaso Pincio nella sua recensione, se non erro. Visto il seguito della storia (quella vera), mi sembra doveroso andarci cauti.
@ Marco Rossari:
Sì, almeno credo, non avendo letto direttamente il racconto, ma Pincio parla di questo suo errore qui:
http://www.einaudi.it/einaudi/ita/news/can3/9-1221.jsp
@Marco Rossari – mi sa che hai proprio ragione. Senza svelare la storia – i due personaggi sono distinti anche se si mescolano alla fine. Penso anche che il mio lapsus non sia casuale né dovuto al fatto che non ho riletto il racconto in questi giorni (non ce l’ho proprio fatta – emotivamente). Anche alla prima lettura li vedevo come due facce della stessa moneta. Forse perché come ho cercato di dire a volte la letteratura si fonde troppo con la vita di chi legge e le sue esperienze. Hai fatto bene a farmelo notare.
Andrea – grazie per il link.
E’ un bellissimo pezzo, anche per chi, come me non ha mai letto Wallace. La morte di un artista ci lascia tutti più poveri. E quando questo artista ha intrecciato la sua arte alla nostra vita, magari sostenendola, in certi momenti, o mettendola a nudo, in altri, ferendo e consolando, la sua scomparsa diventa un lutto privato. Le tue parole, francesca, comunicano un vero dolore, fuori di retorica, un dolore che non faccio per niente fatica a comprendere.
@Giordano Tedoldi, vedo ora il tuo commento. Probabilmente hai ragione, avrei dovuto rileggere – ho, mi pare, spiegato. Non mi sento una sciattona, tuttavia e non penso di aver scritto un “toccante” necrologio, non era esattamente la mia intenzione. Più che altro ho scritto quello che sentivo – tra l’altro quello che penso non cambia nonostante il mio lapsus. Non credo nemmeno che Caro vecchio neon sia da considerare una sorta di testamento. Ma c’è il suicidio narrato in un modo che allora mi fece assai male – è stato spontaneo forse anche banale, non so, ripensarci. E preferire le mie emozioni ad ogni altra resa. Se non mi fossi sentita coinvolta da questa cosa (e questo non penso di doverlo spiegare) non avrei scritto nulla.
Mi sembra che il commento di Tedoldi sia spuntato fuori dopo il mio, chissà perché.
@Andrea
Ah, ecco. Non avevo letto la rettifica di Pincio.
@Francesca
Occhio alla fretta. I due personaggi non si mescolano, c’è solo un ribaltamento di prospettiva.
@Marco
Il commento era finito in moderazione, l’ho ripescato quando me ne sono accorta. Sul ribaltamento di prospettiva – alla fine, secondo me c’è un certo mescolamento. I due personaggi restano distinti, ma David Wallace in qualche modo avverte ciò che è successo dentro l’altro (i motivi del suicidio). Non so spiegarlo meglio – ti potrei dire che a me è successa la stessa cosa in un certo senso. Non è vero che certi gesti restano un mistero racchiuso solo in chi li compie. Sapere che si può essere consapevoli di questo è forse la fonte della paura più grande.
Io ho amato quella merdosissima e alienante scuola di tennis, quella in cui gli studenti giravano stringendo palle da gioco per tutto il tempo, quella fondata dal regista folle Incandenza, quella in cui eri il numero della graduatoria mondiale che avevi raggiunto o gli sponsor che eri riuscito ad ottenere. Sob.
http://dinamico2.unibg.it/paragrafo/docs/arts/Paragrafo%2001_02_Berta.pdf
Qui c’è un bellissimo articolo di Luca Berta sui ribaltamenti di prospettiva in “Caro vecchio neon”. Il protagonista effettivamente è Neal. Il tu che usa spesso il protagonista si rivolge sia a David Wallace che al singolo lettore, cioè a noi. Ho scritto una cosa anch’io a partire da quel racconto, l’ho pubblicata qualche ora fa su la poesia e lo spirito ma x sovraffollamento di pezzi mi è stata spostata d’autorità a domani sera. Ora di domani magari la cancello.
Ciao, mi chiamo Alessandra ed è la prima volta che visito Nazione Indiana. Ho apprezzato moltissimo il pezzo di Francesca Matteoni, e non lo trovo per nulla un necrologio, anzi è un bellissimo invito alla lettura, curato e toccante.
La risposta garbata di Francesca al commento fuori luogo che ha subito trovo sia perfettamente aderente alla qualità del suo pezzo.
Le faccio i miei complimenti, sa, Francesca, io sono una sciattona vera, ma lo sciattone magari un giorno impara a curare un pò di più le sue ricerche, l’insensibile e il maleducato ha poche speranze, magari a qualcuno risulta anche simpatico, a me personalmente no.
Alessandra
La morte di un artista spesso scatena la parte peggiore di noi, quella kitsch.
quando tash si renderà conto che esprimere le proprie emozioni fa parte del comportamento dell’animale essere umano, finirà di vergognarsi delle proprie.
comportamento forse naive, ma meno dannoso dell’uccidere o della demagogia, ad esempio.
In alcuni ambiti il parlare a vanvera è considerato estremamente creativo, addirittura lo chiamano “brain storming”. Non è assolutamente questo il caso, ovviamente.
baci
@ francesca
grazie per questi tuoi pensieri, per le immagini che segui (insegui) e per il cuore che ci hai messo.
effeffe
Disarmante umanità. Ho letto l’articolo sentendo il nodo del dolore invadere la gola. Francesca Matteoni evoca il vincolo di tristezza che unisce “il testimonio della notizia” (il suicidio) e la persona che in uno slancio disperato è scappato del nostro mondo.
per me ogni suicidio è il riconoscimento della nostra anima affamata di bellezza, costretta all’atto definitivo.
Non so perché, ma vedo quasi la scena dove qualcuno avrebbe potuto arrivare e salvare la persona.
Si sente che l’amore per la persona dilania il cuore, perché parla alla parte fragile della nostra umanità.
Per Tash, non vedo kitsch, sento rispetto, sensibilità.
è scappata. Je suis désolée pour les fautes, j’en fais beaucoup.
Vi lascio questo link.
Ci trovate alcune cose.
http://theknowe.net/dfw
Andrea, è scritto in inglese. peccato per me…
Mi dispiace.
Vi si trovano vari pezzi di DFW, di quando era all’università, ed altre cose.
ciao!
Brava, Francesca!
L’orizzonte infinito di David Foster Wallace ha lasciato il posto ad una posizione corporea verticale che rimarrà nella mente di tutti.
Eppure non sembra che la sua esistenza possa sintetizzarsi in un “cruciverba”.
Bel pezzo.
Soltanto mi chiedo una cosa, l’attacco, quel:
“Sono all’internet point di Judd Street, nel quartiere londinese di Bloomsbury”.
Lo trovo un po’ da snob, come per far vedere che eri a Londra, mica a Frottole.
Mi spiego, io quel giorno ero a un internet point come te e da lì ho appreso la notizia.
Ma non ero “nell’internet point di Judd Street, nel quartiere londinese di Bloomsbury”: ero nell’internet point di Via del Trasimeno di Bastia (Pg).
@Gianluca Minotti: ciao, non volevo essere snob. il fatto è che ho iniziato a leggere DFW a Londra quando sono tornata a viverci. e ho appreso della sua morte a Londra, quando ormai non ci vivevo più. per me è stata una strana coincidenza, solo per questo l’ho sottolineata (tra l’altro ho un forte legame affettivo con quella città, come ad esempio con un paese ignoto di 19 anime sull’Appennino, e anche questo mi sembrava importante).
Gianluca, essere al point di Via del Trasimeno di Bastia (Pg) io lo trovo ancora più “chic”.
.. che poi ci sarebbe da aggiungere che il proprietario di quell’internet point lì è un italiano trapiantato a londra da moltissimi anni, infatti l’italiano lo parla poco e a volte non mi ha nemmeno fatto pagare la postazione (ma solo il tè). insomma è il mio internet point preferito lassù, anche se quando esci puzzi di roba fritta e dolciumi per una giornata. (fine digressione). vi ringrazio tutti per i commenti ad Alessandra dico che se è la pima volta su NI, ritorna!
sul kitsch – beh in fondo kitsch lo sono (anche se non penso in questo post, ma ognuno ha la sua opinione). non ho mai comprato i famosi cucchiaini souvenir (…), ma sono una fan della loro evoluzione – la calamite da frigo.
Beh, alla fine… risulta anche carina questa geografia di ricordi su DFW.
I miei sono da Ortigia, una piccola isola con un centro dentro.
giù le mani da david!
È stato un concerto così bello! Keith Jarrett è un negro che suona il pianoforte. A me piace moltissimo vedere i negri esibirsi in tutti i campi delle arti dello spettacolo. Trovo che siano una razza talentuosa e incantevole di artisti, che sono spesso molto divertenti. In particolare mi piace guardare le esibizioni dei negri da una certa distanza, perché da vicino spesso hanno un odore sgradevole.
Sono all’internet point di Judd Street, nel quartiere londinese di Bloomsbury
vedi perché poi uno si ammazza, ma che cazzo di importanza ha dove cazzo eri tu, che non sei un cazzo, mentre un cazzo di uomo viene trovato impiccato, ho voglia di impiccarmi anche io in questo momento…
Sono all’internet point di Judd Street, nel quartiere londinese di Bloomsbury
rileggiti e impiccati anche tu, a sminchia street, nel quartiere di questo cazzo
ma che bello, ho appena scritto il commento senza leggere gli altri che mi avevano preceduto, non sono l’unica!!! che bello, grazie agli altri, allora qualcuno che ragiona ancora c’è, vabbé, questa volta non mi ammazzo, però volendo ammazzarmi mi piacerebbe sapere se c’è un internet pointi dove sarebbe opportuno svolgere un’attività del genere, ammazzarsi appunto
Apprendiamo molte cose interessanti da questo post: l’autrice sta o stava a Londra, forse ha letto un racconto della raccolta Oblio e, come suggeriva questo titolo, l’ha subito dimenticato, però ha pianto tanto. Del racconto lett’e scurdato ricorda vagamente che c’era qualcuno, non si sa ancora bene chi, che si suicidava e ci dice che ciò era una “premonizione non colta”, che è come se un giallista fosse sempre un potenziale omicida. E se l’avesse colta la premonizione l’autrice e se si fosse detta :”Il caro vecchio Dave secondo me si suicida…” siamo certi che l’avrebbe fermato subito, come non si sa. Del “caro vecchio (46 anni?) Dave Wallace” ci dice solo che era ironico e che si è ispirato al teschio di Yorick per il suo capolavoro, per il titolo cioè, visto che sembra abbia letto solo quello, altrimenti anche lì avrebbe trovato un’altra allarmante “premonizione non colta”: James Incandenza si era suicidato mettendo la testa nel forno a microonde.
A volte non si scrive un “toccante necrologio”, si scrive quello che si sente.
Peraltro spesso “si sente” un “toccante necrologio”.
Più duro dello scrivere è il dover scrivere “per forza”.
Almeno altre due persone, in Toscana, in questa settimana, si sono suicidate. Chi sa a quante altre è venuta voglia di uccidersi, sapendo queste cose. Ha importanza niente, ha importanza tutto. Ce ne frega di niente, ce ne frega di tutto. Di fronte a certe cose anche degli insulti perdono di significato per chi li riceve. Per chi li fa sono sfogo, e si spera facciano bene. A volte ce ne freghiamo, degli insulti, perché di fronte ad altre cose sono niente. A volte, invece, ce li sentiamo sulla pelle e fanno male.
Penso a chi si toglie la vita, a chi, intorno, soffre, e dà sfogo alla sofferenza in vario modo. C’è chi prende a calci tutti, e chi si chiude. C’è chi cerca qualunque cosa per poter sorridere, e chi non vuole vedere un sorriso. C’è chi….e c’è chi… tanti modi per tante persone.
Poi, alla fine, penso che le cose vadano al loro posto. Il tempo mette i pezzi del puzzle al posto giusto (più o meno, spero) e le cose che hanno importanza risaltano, e le altre fanno da sfondo necessario.
Proprio non so, comunque.
Pezzo bello e sincero quello di Francesca.
david è morto per non leggere i necrologi
In questi blog necrologici si respira tutto il malvezzo e l’imbarazzata ansia cannibale che spira tra gli invitati e gli autoinvitati frequentatori di funerali analogici.
Fare a pezzi il trapassato e portarsene a casa un pezzetto o oscillare tristemente il capino per flautare frasi di sconvenienza. Che ci vuoi fare, è la vita. E la morte pure.
Chi diceva che della vita non puoi strapparne nemmeno una pagina ma puoi buttare tutto il tomo nel fuoco? Mi pare G. Sand. Ma potrei sbagliare.
sì, io piango molto.
C’è tanta gente con gravi problemi di relazione, Francesca. Non ci pensare. A me sinceramente non ha fatto impressione che tu fossi a Londra, quando hai scritto. Ho letto il contenuto, e solo dopo che gli altri l’hanno fatto notare sono tornata indietro a leggere. E di nuovo, non mi ha impressionato per niente. L’ho trovata una cosa normale.
Per te era importante sottoineare il luogo, per ragioni tue, probabilmente legate a tutto quello che hai spiegato dopo. Ma la sostanza del post non cambia, anche per chi non era a Londra in quel momento.
La gente è gelosa dei sentimenti altrui e in questa società di plastica sembra quasi un delitto esternarli. Per questo non capiscono il valore della perdita di DFW: lui ha descritto in maniera chirurgica proprio questa società di plastica. Specie nei saggi in Considera l’aragosta. Che consiglio a tutti.
Non capisco la mancanza di rispetto, quando leggo qualche commento.
Francesca Matteoni ha lasciato parlare il suo cuore.
Non è un articolo di necrologia. dietro l’articolo, si sente il dolore di un uomo che si è suicidato. Si parla di suicidio.
Sono molto in rabbia.
Condivido pienamente il commento di Missy.
C’è una regola non scritta, ma applicata in modo ferreo, nel giornalismo. E cioè che se non sei famoso l’io è bandito dalla scrittura. Biosogna ricorrere a patetici sinonimi: il sottoscritto, lo scrivente, oppure il plurale maiestatis. Nessun ricordo personale, o aneddoto biografico negli articoli. Però se sei famoso, Pietro Citati per dirne uno, qualsiasi recensione viene impreziosita da un episodio o da un ricordo personale, addirittura li sollecitano. Per chi come me concepisce la cultura come qualcosa di vivo, di indistinguibile dalla mia stessa vita, fare a meno di un paralello personale, ossia evitare di dire quanto un libro o una mostra importanti hanno inciso nelle mie opinioni o nei miei rapporti, è estremamente difficile, per cui finisco per scrivere più volentieri per la rete che su carta. E in generale io amo le scritture che si espongono, e penso che un po’ tutti i generi letterari abbiano a che fare con l’autobiografia, più o meno dissimulata. Il vero centro tematico dei gruppi di discussione letteraria, quelli che si incontrano per parlare di un autore o un libro, è il gruppo di discussione stesso. Noi siamo le nostre passioni. Gli amanti della letteratura sono figure di carta e inchiostro, come il Bibliofilo di Arcimboldo. Se non avessi una pessima memoria topografica, arriverei addirittura a classificare i testi della mia biblioteca nel modo bellissimo e poetico che ha scelto Marino Magliani, vale a dire in base al luogo in cui li ho acquistati e letti. Borges a Lipari, quando stavo con Clara, Cioran a Parigi, quando ero innamorato di Nicole, Benjamin in Puglia, con Cinzia. Non a caso sogno di scrivere un libro intitolato “bibliografia di una vita”, con i capitoli dei libri che scandiscono i miei giorni, e non a caso quando sono ospite di qualcuno cerco di capire chi è il padrone di casa dai libri che ha (quando ce ne sono, ovviamente). Francesca ha scritto qui un bellissimo ricordo personale di DFW, che è intrecciato ai suoi luoghi elettivi, alle persone care con le quali ha condiviso questa passione, ed io l’ho molto apprezzato.
cara Francesca,
grazie del tuo pezzo: bello, vivo, per niente “lacoste”.
sottoscrivo in pieno quello che dice missy: c’è gente con gravi problemi di relazione. anzi gravissimi.
E stupisce sempre leggere l’incongrua malafede di questi commentatori per lo più anonimi.
ciao
Il dolore si manifesta in molteplici forme. Sorprende il disincanto di chi fa professione di descriverle. La perdita è un catalizzatore di tensioni, perchè negarlo. Perchè non prenderne atto. La celebrazione necrologica, in sè e per sè, è velletariamente generatrice di entropia empatica. Perchè siamo qui se non per denotare questo. In ispecie quando la latteratuira, in sè e per sè, è chirurgia e non placebo. Onore a chi non si fa cura di versare il suo sangue per chiudere il conto.
E’ vero. Il tempo chiarirà il valore. Ora è tempo di piangere.
Bel pezzo, e molto sincero e sentito.
Il mio appunto sul luogo non voleva screditarne la genuinità e non approvo chi, nascondendosi dietro pseudonimi, offende gli altri.
Questo è uno spazio per confrontarsi, non per insultarsi, mi pare.
da come lo conosco, perdonerà l’errore (il neon tra l’altro era incandescente), ma il resto no: e a *schiacciato dal suo stesso formidabile talento* urlerà: “omissis!”
La mia incondizionata solidarietà a Francesca Matteoni, che si mette in gioco con il proprio nome e il proprio vissuto. Francesca, non dare peso ai parassiti sarcofagi che infestano questo thread.
@Rhum: sul talento. Ho fatto un paragone, magari incorretto e opinabile, con Stig Dagerman il quale oltre ad essersi ucciso, scriveva:
“L’unica cosa che m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine?”.
Toccare il lettore, raggiungerlo mi sembrava anche uno degli scopi di Wallace, per altro dichiarato. Tuttavia qui c’è un bel paradosso – proprio chi conosce meglio la parola (e Wallace era un torrente), chi sta dentro il linguaggio, ne scopre tutta l’inefficacia, il modo in cui più ci diciamo, meno siamo detti. Una cosa che a me sembrava lampante in CVN, ed il lapsus non è dovuto tanto ad aver dimenticato quanto ad aver troppo considerato i due personaggi come due volti della stessa creatura. Fin da subito. Un fiume di parole e poi il silenzio. Ricordate come finisce? sarà bizzarro, ma proprio grazie ad alcune mail con un commentatore mi è tornato in mente che il diario di Pavese – l’esempio è dovuto al centenario della nascita – finisce con una richiesta simile alla fine di CVN. Tra l’altro (così ora fo i compiti e rispondo a chi mi chiede il conto) al di là del palo era una citazione implicita. Ed un riferimento a quel silenzio terribile che è al centro delle parole. Non ho messo citazioni e non ho spiegato molto e questo avrà senz’altro reso il mio pezzo poco buono o irritante o patetico o non so, per alcuni. Ma come dico all’inizio non era mia intenzione farlo.
Riguardo al “io chi cazzo sono”, sì sono un “cazzo di nessuno”. Come tutti.
*si mette in gioco con il proprio nome e il proprio vissuto*
un altro a rischio?
Fifteen men on a dead man’s chest
Yo ho ho and a bottle of rum
Drink and the devil had done for the rest
Yo ho ho and a bottle of rum.
Concordo con Garufi (“penso che un po’ tutti i generi letterari abbiano a che fare con l’autobiografia, più o meno dissimulata”)
Forse, Emanuele, paradossalmente, a livello meta-fictional, sono proprio le autobiografie che hanno meno a che fare con l’autobiografismo. Come la nostra immagine allo specchio, a livello percettivo, è una finzione ben congegnata del nostro sedimento visivo. Il nostro rovescio, il nostro chiasmo figurativo, per dire.
A scuola dovrebbero togliere qualche ora di letteratura e sostituirla con catoptromanzia!
Giusto.
E’ proprio il cantrasto tra l’io percepito e l’io riflesso che genera i conflitti più irrisolvibili.
Dunque concordo pienamente.
@squitriti
pensavo al minuscolo autoritratto allo specchio convesso del parmigianino, il campione di tutti i narcisismi e solipsismi autoreferenziali e monologanti. di fronte allo specchio enigmatico e deformante l’artista
smarrisce la propria identità invece di acquistarla, introietta l’universo
e lo riflette come un aleph, diventando a sua volta specchio del mondo, come l’ homme de verre di Valéry (« je me suis, je me réponds, je me reflète et me répercute, je frémis a l’infini des miroirs – je suis de verre »).
Lo specchio, in ambito figurativo, equivale al tritono in musica. E’ il diabolus in pictura. Nega e afferma insieme. Cortocircuita il percepibile.
Il riflesso pittorico ha come centro focale l’inconscio dello spectator. Si aggancia alla sua “idea” prospettica.
Garufi, difficilmente ho incontrato qualcuno in grado di condensare un così ampio e variegato numero di citazioni in 10 righe. Escludendo Gianni Brera, ovviamente.
Dammi tempo e ti batto pure il Giuan Brera, non x niente lavoro per i cioccolatini Perugina.
Specchi, lenti. Le lenti di James Incandenza che il buon Mario, sorretto dal suo sprone, trasporta nel suo pesante zaino.
Più che in altri casi gli scritti di Dave sono messe in scena procatottriche. Le storie parallele si riflettono una contro l’altra. Una acuta e maniacale triangolazione degli specchi narrativi.
Ma attenzione: gli specchi non rovesciano l’immagine. E l’illusione finale. L’illusione dell’illusione. Lo scherzo infinito.
oggi sul blog di Saramago c’è un post che si intitola “Biografias” e comincia così:
Creo que todas las palabras que vamos pronunciando, todos os movimientos y gestos, concluidos o simplemente esbozados, que hacemos, cada uno y todos juntos, pueden ser entendidos como piezas sueltas de una autobiografía no intencional que, aunque involuntaria, o por eso mismo, no es menos sincera y veraz que el más minucioso de los relatos de una vida pasada a la escritura y al papel.
Mi piace quel che riporti di Saramago, fem (anche se non mi sembrano cose particolarmente nuove, fa piacere leggerle. come dire, la ripetizione, soprattutto se con variazione, mi aggrada)
ciao!
ho scritto che dave è un neon-illuminista e NI me l’ha tagliato: secondo loro è un’offesa?!
La dimensione di un autore si potrebbe dire che è misurabile, anche, da quanto la sua morte colpisce chi non lo ha letto o lo ha letto poco.
Se la morte è un suicidio, c’è in questo generalmente un drammatico ultimo messaggio; Facevo sul serio, quello che ho scritto è la verità, questo mio gesto ne è la drammatica e radicale testimonianza.
Questo lo leggono tutti, anche chi, come me, non aveva “ancora” letto i suoi libri.
Normalmente la scrittura è portatrice di sufficienti segnali a riguardo della propria verità, dunque non sono un estimatore del suicidio, non aumenta il tenore di verità della scrittura, quindi non amo parlarne, ma quello che fa è colpire quella parte del cuore che normalmente non si mostra quando si parla di libri.
Qualità, stile, forza, intelligenza, affinità, e molte altre caratteristiche ci colpiscono nell’opera di uno scrittore, ma la sua morte volontaria crea in noi un’urgenza che si manifesta, di solito, in due modi abbastanza ben distinti, (dell’indifferenza non vale la pena di far menzione).
Alcuni di noi ricevono, per così dire, quella morte come la morte di un congiunto, questa irruzione di realtà nello spazio letterario ci fa, noi lettori di carne, consanguinei dell’autore che abitava lo spazio dell’opera con l’inizio e la parola fine, che per quanto evocativa e pulsante, è di carta e sugli scaffali delle librerie.
Quello, il fatto di morire di propria mano, quello lo possiamo fare anche noi, c’è una poesia di Borges che descrive i momenti che precedono il suicidio, è un’accomunarsi agli dei, e a chiunque di noi questo è possibile, anche se la nostra scrittura è mediocre.
Il sentimento allora è fraterno, è la morte di un congiunto in qualche modo, inaspettata e maledettamente viva, è parola di carne e di sangue nostro, e la prefica che è in noi piange lacrime vere, non solo per la perdita di un uomo di grande letteratura, ma anche di un fratello, per quanto presuntuoso possa essere questo sentimento.
Dall’altro lato ci sono le maschere del cinismo, il fastidio per un outing così personale riguardo un personaggio così importante, si cataloga isteria di fans un dolore che ci si rifiuta di provare, per falso pudore o per attaccamento ad un senso ipercritico che solleva dalla propria modestia di scrittori e, forse, dalla propria modestia emotiva.
In qualche modo strisciante la critica, nel suo senso letterale, è un mezzo più mascherato di portarsi ai piani del criticato, osando trovargli dei difetti, perchè tutti, nella rete, partecipano scrivendo e cercando di farlo letterariamente o criticamente, con competenza (puntiglio), se non bene, buoni o cattivi siamo scrittori.
Ecco io ho letto alcuni ricordi di DFW, e ho saltato le esegesi critiche, questo di Francesca è un bellissimo ricordo, ci sono le inevitabili increspature di una cosa scritta sull’emozione, quelle che disturbano i duri e puri, ma che ne fanno una scrittura sincera.
Sergio ha scritto un altrettanto bel pezzo interrogando questo fatto con intelligenza e commozione, e Missy che per prima mi ha mosso verso questo scrittore con passione rara e senza filtri.
Chi perde, in fondo, è sempre chi non soffre.
“La dimensione di un autore si potrebbe dire che è misurabile, anche, da quanto la sua morte colpisce chi non lo ha letto o lo ha letto poco”.
Vero, ma parlerei di “dimensioni”.
Wallace parla a chi lo legge e a chi non lo ha letto perchè la sua figura travalica la dimensione letteraria.
E’ un autore affascinante da molti punti di vista. L’immagine da nerd della letteratura, il tennis, la bandana, questo attingere dall’alto e dal basso (peculiarità ovviamente non sua ma di tutto il post-moderno, definizione che lui affermava di non capire) trasponevano il riflesso della sua figura sullo schermo del fenomeno di costume. La sua dimensione complessiva colpisce non solo chi è abituato a sopportare una scrittura sicuramente difficile e “da scrittori” [peraltro affiancata ad altri stili di espressione sicuramente più “maneggiabili” (Eggers ne cita almeno quattro)] ma anche coloro che subiscono i condizionamenti di un’idea della cultura “fighetta”, esecrata e derisa da Wallace.
Delle cose di Wallace ho letto quasi tutto. Tutto quello reperibile, maldigerendo alcuni saggi e avvinto per alcuni mesi da IJ. Ora, al di là del fatto che uno scrittore che leggiamo è una persona che ci sussurra all’orecchio (e a quante persone consentiamo di farlo?) leggere un’opera di 1400 pagine è un’esperienza che occupa una parte della tua vita, in senso molto materiale. In quattro mesi si vive, accadono cose, si lega la storia scritta con la storia vissuta.
Con i poveri mezzi dei miei strumenti culturali (e chi non sarebbe povero confrontandosi con le argomentazioni di Wallace), nel momento della sua morte [di cui sono venuto a conoscenza in un modo del tutto singolare (ma riguardo alla singolarità del modo non intenzione di tediare nessuno)] mi stavo mettendo nelle condizioni di fargli un pò di pulci. Questa operazione, ovviamente, sarà per forza di cose rimandata. Perchè, è vero, ci sono anche momenti da dedicare al dolore. Bisogna concedersi di essere banali, ognitanto. Fa bene. Come digiunare una volta a settimana.
Adios.
Data la banalità del male è logico dedurne la banalità della sofferenza.
Massì, concediamoci, noi colti ed inflessibili critici, di abbassarci, di tanto in tanto, al livello delle donnette, di quello sterminato stuolo di frignoni che leggono, (comprano) i libri e non li scrivono, e comicamente si commuovono per quelle curiose lettere nere che gli scrittori hanno deposto su pagine bianche ordinandole secondo stilemi e grammatiche narrative, costantemente da correggere, che da soli, poverini, non sanno allacciarsi le scarpe.
Si, perchè non bisogna dimenticarsi dei reziari che ci deliziano scendendo nell’arena letteraria, mettendosi in gioco con i loro pensieri e sentimenti e che tanto dilettano le nostre menti annoiate, e che, bisogna dirlo, persino, a volte, concatenano passaggi narrativi convincenti.
Solo dovrebbero avere il buon gusto di risparmiarci i loro drammi personali da pop star, che nulla hanno a che vedere con lo stile e la forma di queste merci preziose che sono i libri.
E’ proprio la banalità l’aspetto più detestabile della sofferenza.
E quest’aspetto detestabile è il motivo per cui come rimedio si utilizzano le convenzioni e le cerimonie associate al lutto.
E’ la gioia che è rivoluzionaria.
Ooo-op
P.S.
Qui siamo tutti pop-star.