Un dio idiota

 

 

(In occasione dell’uscita di “Iggy PopLust for life” di Paul Trynka, Arcana edizioni).

The worse thing in this world is a rockstar. And the only good rockstar is a dead rockstar.

Si tratta di rock’n’roll. Si tratta di presenze. L’Iguana appare, salmodia le sue immense litanie, in un’infinita rappresentazione. E noi che lo adoriamo, siamo rapiti nella contemplazione idiota di un’icona. Idiota, perché lui è un messia che non salva, da lui non si attende salvezza, ma la celebrazione dei propri vuoti a perdere. I’m loose. Sticky deep inside. E’ l’introibo (ad altare dei): la dissoluzione di ogni sostanza interiore, lo slittamento senza fine. Iggy danza. Le danze dissolute di un dio idiota. Un dio di cui si può ridere, come voleva Nietzsche. (Iggy come la Carmen?). E Iggy è la risposta a quel Nietzsche che lamentava la decadenza di una civiltà che non ha partorito nessun nuovo dio.

Un dio che chiede di essere il (mio. tuo. nostro) cane. E che con I wanna be your dog ci lascia al nostro silenzio – ad esso ci restituisce, reintegrati nella nostra disintegrazione.
E’ un dio morto, Iggy, e proprio perché morto continua a ridere. E se continua a esser lì, è perchè si rida di lui.

Va da sé che tutto questo non va preso sul serio.

m.r.

Il seguente brano è tratto dall’introduzione al libro di Paul Trynka:

 

 

Poi c’era Iggy. L’indistruttibile Iggy, che faceva piazza pulita di qualsiasi droga gli mettessero davanti al naso, che nel corso dei mesi precedenti il suo tour manager aveva dovuto trascinare diverse volte sul palco in stato di semi-incoscienza, che soltanto due giorni prima era stato steso a pugni da alcuni appartenenti a una banda di motociclisti ma li aveva invitati al concerto del Michigan Palace per avere il resto. Che ora appariva tanto rovinato fisicamente e mentalmente, da se stesso e da coloro che gli stavano intorno, che a volte la sua energia vitale e la sua luminosa bellezza sembravano sul punto di prosciugarsi. Era arrivato al punto che almeno uno dei suoi più intimi confidenti era giunto alla conclusione che avesse subito una sorta di esaurimento che aveva danneggiato permanentemente il suo sistema nervoso. Aveva la faccia gonfia e intorno ai suoi ipnotici occhi azzurri che avevano ammaliato una sfilza di ragazze tra le più desiderabili d’America si erano scavate delle rughe. Quella sera aveva deciso di provocare il pubblico composto in gran parte da motociclisti convinti che fosse una checca, indossando un body nero e uno scialle acconciato in modo da formare una specie di gonna trasparente. Nonostante il suo grottesco abbigliamento – o forse proprio facendo leva su quello – diceva a quei teppisti che le loro ragazze morivano dalla voglia di scoparselo. E casomai il messaggio non risultasse abbastanza esplicito, annunciò con tono lascivo il titolo della prossima canzone, Cock In My Pocket. E anche allora, mentre percorreva il palco danzando con flessuose movenze da ballerino, emanava un’energia sciamanica che elettrizzava gli spettatori, per metà affascinati, per metà sprezzanti, o semplicemente inebetiti dalle pasticche di Quaalude – che era diventata la droga du jour al Palace. Sospinto senza sosta dalla criminale, psicotica chitarra di James Williamson, Iggy si lanciò in brani come Gimme Danger o I Got Nothing, canzoni riguardanti la sensazione di essere un predestinato, canzoni che sentiva l’obbligo di continuare a scrivere anche se nessuna casa discografica sembrava interessata a pubblicarle.

Ora tutti i presenti, favorevoli o contrari, sembravano consci del fatto che lui era effettivamente un predestinato. Quando cominciò a snocciolare versi come “I don’t care if you throw all the ice in the world, I’m making ten thousand, baby, so screw you / Puoi metterti tutti i gioielli del mondo, me ne frego, io me ne sono fatte diecimila, baby, quindi fottiti”, tutti i presenti sapevano che si trattava di una vuota bravata. E anche se Iggy Pop non lo sapeva, Jim Osterberg – colui che aveva creato questo alter ego sfuggito a ogni controllo – ne era consapevole.

All’inizio della serata, durante la sua breve conversazione con Jim, Michael Tipton, che aveva intenzione di immortalare il concerto con un registratore a bobine, si era reso conto che quella avrebbe potuto essere l’ultima esibizione degli Stooges – che a Iggy si presentava l’occasione per sdrammatizzare, prendersi gioco del pubblico e della sua stessa situazione disperata. Erano in molti, sia tra i fan che tra i detrattori della band, coloro che andavano ai concerti degli Stooges soprattutto per la curiosità di vedere che razza di risibile abbigliamento avrebbe usato quella sera Iggy e per godersi l’atmosfera di sfida e di ostilità che si creava spesso tra la band e il pubblico, ma prima di quella sera nessuno aveva mai assistito a un’esibizione tanto caotica e insensata. “Io sono il più grande!” gridò Iggy al pubblico nei momenti finali dello spettacolo mentre una gragnuola di uova si abbatteva sul palco e lui ne riceveva uno in piena faccia. Le uova erano dirette principalmente verso Iggy, ma Ron stava attento soprattutto alle sigarette accese, preoccupato che potessero incendiargli i capelli. Quando una pesante moneta si stagliò improvvisamente fuori dal cono di luce e lo colpì dolorosamente sul cranio, Ron portò una mano al punto che gli doleva e la ritrasse sporca di sangue.

Tutti quelli che facevano parte dell’entourage degli Stooges avevano la sensazione sempre più forte che quella baraonda non poteva durare a lungo. Natalie Schlossman, l’ex organizzatrice del loro fan club, aveva accudito la band per quasi quattro anni, facendo da balia a Iggy quando perdeva il controllo, spesso mettendolo materialmente a letto e sottraendogli i vestiti nella vana speranza che non si aggirasse per i corridoi degli hotel in cerca di droga. Ormai Natalie era avvezza a tutte le possibili combinazioni sessuali messe in atto dalla band – James in una stanza da bagno chiazzata di sangue con due ragazze, Iggy in camera da letto con tre ragazze, Scottie Thurston e Ron in una stanza d’albergo con una ragazza, venti persone impegnate in un’orgia in camera di Iggy – ma osservava le loro attività con benigna e materna sollecitudine, cucinando per loro e lavando i loro sempre più logori abiti di scena. Per quanto fosse patetico lo stato in cui trovava Iggy, Natalie sapeva che sul palco lui avrebbe saputo scavare dentro se stesso fino a raggiungere qualcosa di puro e integro.

Attualmente però anche lei era turbata dall’atmosfera di negatività che circondava la band, un pesante miasma che attribuiva principalmente a James Williamson. Se fosse finita in fretta, sarebbe stata una benedizione per tutti quelli che vi erano coinvolti. Avvicinandosi a Tipton, Iggy gli chiese se era il caso di eseguire Louie Louie. Alla prospettiva di riprendere quel trito classico da garage, James Williamson gli lanciò uno sguardo torvo, ma attaccò brutalmente i tre accordi che costituiscono il semplicistico riff della canzone e gli altri si accodarono. Mentre Iggy lanciava guaiti e strillava “I never thought it would come to this / Non avrei mai creduto che si potesse arrivare a questo”, l’ottusa cagnara degli Stooges crebbe di intensità e Iggy gratificò la folla di un sorridente “vaffanculo” prima di lanciarsi in un’oscena versione del testo che aveva tenuto a battesimo il suo passaggio allo status di star ancora col nome di Jim Orsterberg, batterista e cantante, quasi dieci anni prima. La canzone che aveva segnato gli inizi della sua carriera ora appariva particolarmente appropriata per sancirne la fine. All’epoca, nel 1965, il pubblico era formato da quindicenni debuttanti in società che con fare innocente gli lanciavano sul palco le sue caramelle preferite, durante un idilliaco soggiorno estivo passato in compagnia dei più facoltosi e acculturati industriali del Michigan. Adesso, a quanto pareva, le ambizioni culturali del suo pubblico non andavano oltre la curiosità di assistere a caotici scontri di automobili.

Ottenuta storpiando irrimediabilmente la canzone originale di Richard Berry fino a trasformarla in un ottuso inno da stadio con un testo sboccato da scolari, l’attuale versione di Louie Louie era stata calibrata sul basso livello intellettuale dei suoi spettatori. “She got a rag on, I move above / Porta un’assorbente, mi do subito da fare”, cantava; la voce era rauca ma ogni parola veniva enunciata chiaramente e il cantante ammiccava verso il pubblico in modo che a nessuno sfuggisse l’allusione alle mestruazioni, “it won’t be long before I take it off […] I feel a rose down in her hair, her ass is black and her tits are bare – non ci metto molto a levarglielo […] tocco una rosa giù in mezzo ai peli, ha il culo nero e le tette pesanti”.

Più o meno a questo punto, mentre James Williamson si lanciava in un vizioso e lancinante assolo di chitarra, Iggy si trattenne dal tuffarsi in mezzo agli spettatori. Rimanevano solo pochi minuti. L’uragano di note di James si trasformò in una turgida versione del rozzo riff della canzone che sembrava gonfiata a forza di steroidi; poi il chitarrista mitigò la sua furia attestandosi su una serie relativamente misurata di accordi spezzati e Iggy cantò delicatamente l’ultimo verso. Improvvisamente era tutto finito e, sostenuto da una rullata di Scottie, Iggy proclamò “Be’, avete perso un’altra occasione, la prossima volta forse sarete più fortunati”, prima di scomparire tra le ali del sipario. Ma non ci sarebbe stata una prossima volta.

Questa spiacevole, grottesca, pietosa esibizione non rappresentava comunque il punto più basso nella disgraziata storia recente degli Stooges. Avevano sopportato umiliazioni maggiori, abbandonando il palco vergognosi e prostrati. Questa volta avevano almeno portato a termine il loro set. Lo spirito combattivo del loro cantante era però definitivamente stato messo al tappeto. Per tutto quel tempo lui era stato fedele alla musica che – ne era convinto – avrebbe trasformato il mondo, e tutto ciò stava diventando merda. Il mattino seguente telefonò ai suoi compagni Stooges per annunciare che non ce la faceva più ad andare avanti.

Se solo avesse potuto prevedere cosa gli riservava il futuro, forse si sarebbe mantenuto in contatto con gli altri Stooges cercando la loro compagnia, perché la verità era che non aveva ancora toccato il fondo. C’era ancora una distanza infinitamente maggiore da percorrere verso il basso, una discesa negli inferi di Hollywood i cui abitanti si sarebbero affollati intorno a lui come avvoltoi bramosi di avere la loro parte di carogna, persuadendolo a ripetere sacrifici rituali e pratiche di autolesionismo, o adottandolo come dissoluto fidanzato da trofeo per poi deridere pubblicamente il suo stato patetico. E alla fine il cantante sembrò aver rinunciato alla sua bruciante ambizione, confidando ai pochi ancora disposti ad ascoltarlo che c’era una maledizione su di lui, e sugli Stooges. E che non c’era via d’uscita.

Poi ci fu un’esistenza confusa, condotta in stato di semi-incoscienza: ricovero in un istituto psichiatrico e rifugio in un desolato garage condiviso con un gigolo di Hollywood. E poi la prigione. Era l’oblio, ritenuto da tanti il destino che si meritava. Mentre molti dei suoi amici avevano concluso le loro caotiche, disperate vite con un’overdose di eroina o minati dall’abuso di alcolici, la sorte riservata a Iggy sembrava quella di un totem colpito da una misteriosa maledizione, di uno zimbello di cui prendersi gioco, una dimostrazione pratica di miserabile fallimento.

Eppure, proprio mentre lo sciagurato cantante cadeva nell’anonimato, cominciava a diffondersi la notizia della tacita, eroica fine degli Stooges. Per alcuni, quest’ultimo atto si prestava a un’interpretazione aggiornata della mitologia western, l’impavido eroismo d’altri tempi di cinque pistoleros che procedono impassibili verso la fine perfettamente consci della propria sorte. Secondo altri, i paralleli erano quasi biblici, dal momento che ben presto uno scrittore inglese – vero e proprio Giovanni Battista per Iggy – avrebbe preso un aereo da Los Angeles a Parigi portando con sé un nastro dello spettacolo al Michigan Palace, sacra reliquia che sarebbe presto passata di mano in mano tra gli adepti. Ai giovani appassionati di musica bastava uno sguardo alla copertina di Metallic KO – l’album basato sulle registrazioni di Michael Tipton, con la foto blu e argento di Iggy disteso come un Cristo dopo la Deposizione, un’immagine dalle forti suggestioni erotiche e omosessuali – per capire che quella musica rappresentava un messaggio vitale. Quella musica era l’antidoto tanto atteso a un blando panorama di progressive pomposa e pretenziosa, di compiacente intimità country rock, di musica artefatta controllata da produttori senza volto e suonata da turnisti da sala d’incisione. Gli Stooges di Iggy, al contrario, erano autentici e genuini: eroici, predestinati e troppo ottusi per rendersene conto. Il loro frontman divenne un simbolo: di sensualità, noia, energia e inerzia – e di una devozione alla sua musica che quasi gli era costata la vita, e forse poteva metterla ancora in pericolo.

(Per gentile concessione di Arcana edizioni)
 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 

 

 

10 COMMENTS

  1. ” Aveva la faccia gonfia e intorno ai suoi ipnotici occhi azzurri che avevano ammaliato una sfilza di ragazze tra le più desiderabili d’America si erano scavate delle rughe.”

    mi domando come si faccia a scrivere così.

  2. Certo che Iggy era un tipo hard. E’ un vero sopravvissuto. Quando era a Berlino, credo nei primi anni Ottanta, andava in giro con un amico a caccia di drag queen. Volevano farsi – dicevano – tutte le drag della città.

    Io andai a un suo concerto per scattare foto. Era il periodo in cui tutti sputavano sui musicisti (e molti musicisti non volevano più esibirsi in Italia proprio per gli sputi). Lui aveva un asciugamano, col quale si asciugava gli sputi dalla faccia, dai capelli, dal torace, ovviamente nudo.

    Poi andò dietro il palco (c’ero anch’io), dove gli caddero i pantaloni. Forse un bottone che saltò. Rimase così, coi pantaloni calati (ovviamente non portava le mutande) e si fece un goccetto di wiskey. Poi si cambiò i pantaloni e via.

  3. Molto hard, en effet – la visione della verga d’Iggy non te la invidio però… Iggy è un’icona che deve restare ben distante, intoccabile, inavvicinabile…

  4. Non ho mai amato la musica primitiva, essenziale degli Stooges.
    Ascoltavo – non solo quella – la “progressive pomposa e pretenziosa” di Genesis, EL&P, Jethro Tull, Gentle Giant, Camel, King Crimson…
    Mi limitavo a canticchiare le canzoni più commerciali di Iggy Pop come china girl, the passenger, ecc.
    Ma ho sempre ammirato la forza pazzoide, animalesca, dirompente dell’Iguana. Condivido appieno, quindi, la vostra idea di “duro”che vi siete fatta di lui.

    Quell’altro genio pazzo di Lester Bangs (“Ho deciso che sballarmi di droga e andare a vedere i Tangerine Dream con il Laserium era un’idea divertente. Quindi ho bevuto due bottiglie di sciroppo della tosse e ho preso la metro fino alla Avery Fisher Hall per una serata indimenticabile…”) lo racconta invece così, nel 1977:

    “Quanto all’artista, si porta il dolore come una spina nel cuore, ma al tempo stesso nella sua arte c’è un forte elemento di incoscienza che è uno dei motivi principali per cui è così bella e così intensa. Venerdì Iggy, durante il suo secondo bis, […] si è tirato gli occhi con le mani e si è messo a saltare, facendo una strana imitazione di un servitore cinese. Era grottesco ed adorabile al tempo stesso, in pochi semplici gesti trasmetteva un pathos talmente grande che sono sicuro che Iggy stesso, se avesse potuto vedersi al di fuori, si sarebbe vergognato a morte. Perché traspariva una vulnerabilità così nuda da straziare il cuore. In quel momento ho capito che quell’uomo non sapeva ciò che faceva e forse proprio per questo era una delle cose più vive a cui avessi mai assistito, proprio come Metallic K.O. E’ smaniosamente, oscenamente vivo, e la persona che canta in The Idiot sembra un morto. Forse alla fine Iggy potrebbe diventare la superstar che abbiamo sempre saputo che poteva essere, e ha già trasceso il punk rock dopo averlo fatto nascere quasi da solo, ma ci sono ancora delle domande senza risposta e una vita che attende quelle risposte, e io non so nemmeno che quelle risposte esistono.”
    (da Guida ragionevole al frastuono più atroce, minimum fax, prefazione di WM1)

    Graditissimo, Marco, questo post.

    Grazie

  5. “I wanna me your dog” potrebbe esser stata scritta oggi, tanto è moderna. Solo che oggi nessuno parla più in quel modo. Purtroppo.

  6. Lester Bangs, grande, lode a minimum per averlo pubblicato… (Dei progressive che citi – certi Genesis piacevano anche a me, nella primissima parte della mia teen age; i King Crimson, quelli però per me staccano tutti di molte lunghezze).
    Missy, “I wanna me your dog” (bello, il lapsus digiti) è una di quelle canzoni che per la sua ripetizione ossessiva di quel sol-fa#-mi (tranne il passaggio nel ritornello) tutti i gruppi agli inizi fanno – dunque tutti ci siamo immedesimati in iggy attraversando prima quella canzone – la porta del cielo – per poi ascendere, come in una scala di climaco, a No fun, Loose, Tv eye, Dirt…e Search and destroy (che, ho scoperto dal libro di Trynka, continuava a girare sul piatto di Ian Curtis nel suo momento estremo).

  7. “me” … ops!
    grazie, Rovelli… ;-)
    Quando dicevo che è moderna è perchè proprio l’ossessione che tu giustamente menzioni è così classica da trovarsi per sempre, anche ora: Radiohead in Creep e anche in alcuni passaggi (celati) dei Chm. Bros.

  8. Io credo che sia l’artista di cui, per me è più difficile parlare, non giudico quindi il post, conosco bene il giudizio che ne da Lester Bangs, e infatti di Iggy è sensato dire che è sempre stato sincero, ad ogni costo e di fronte a chiunque.
    Si potrebbe parlare di lui come di un personaggio di Dostoevsky, di cui confessava non aver letto nulla prima dell’uscita di The Idiot, e non c’è ragione di non credergli, ci pensava Bowie a questi aspetti del nuovo marketing “polite”, e per quanto mi riguarda son grato a Bowie di avergli salvato la pelle e di null’altro.
    Quando nei primi anni ottanta fui costretto a cambiare vita, radicalmente, presi tutti i miei dischi, dal 76 al 79 e li regalai a mio fratello Rocco con un biglietto, “La musica migliore dei tempi peggiori”.
    Gli strappai lacrime ma iniziai la sua eccellente carriera di collezionista e oggi produttore discografico.
    Ma non i dischi degli Stooges, quelli sono rimasti con pochi altri nello scaffale e Lester ed io ce li sentiamo nella sua topaia su al Village le rare volte che ci vediamo.
    Quella scheggia è ancora incastrata nel mio cuore e ogni volta che ascolto la viola di John Cale in We will fall, l’attacco di Dirt o le fughe di Death trip, duole come allora e sanguina di amore per quel meraviglioso burattino, avete mai notato la somiglianza del suo sguardo con quello di Nureyev in Petouchka?

Comments are closed.

articoli correlati

Le piccole città di provincia nella storia di ognuno di noi

di Pietro De Vivo Piccola città. Una storia comune di eroina di Vanessa Roghi, Laterza, 2018   Tutte le città felici si...

Oh, honey it was paradise

Lou Reed non è vero che Berlin è il tuo album migliore Lou Reed non è vero che la droga...

Art of dancing

di Francesco Forlani In uno dei più bei film sull'arte della danza, il momento più alto si raggiunge quando...

pop muzik (everybody talk about) #15

No fun / The Stooges. 1969

Grido di dolore

Franco Buffoni   In un incontro pubblico con Adonis - il maggior poeta vivente di lingua araba - avvenuto a Roma...

Lo stato delle cose in Occidente II

di Massimo Rizzante «All’inizio il dono dell’arte si manifesta attraverso la malattia. A volte mi sento una creatura in cui...
marco rovelli
marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.