Eutanasia. La singolarità del dolore. 1

di Federico Ferrari

Il problema dell’eutanasia è uno degli argomenti più controversi del dibattito bioetico contemporaneo.

Eutanasia. La singolarità del dolore. 1

Il problema dell’eutanasia è uno degli argomenti più controversi del dibattito bioetico contemporaneo. I numerosi saggi apparsi in questi anni hanno aiutato ad innalzare, e di molto, il livello della discussione che per decenni ha stagnato in una sterile e sorda contrapposizione tra coloro che difendevano il diritto alla morte e coloro che gli contrapponevano il sacro diritto/dovere alla vita. È forse un segno dei tempi che il massimo grado di consapevolezza della complessità del problema giunga proprio quando più grande è diventata la possibilità di portare conforto, tramite i potentissimi mezzi che la tecnica medica ha messo a punto negli ultimi decenni, al dolore di coloro che stanno morendo. Si ha come l’impressione che col chiudersi di questo secolo una vera rivoluzione silenziosa, quella della tecnica, stia portando alla luce, rendendola visibile per tutti, una enorme mutazione che bisognerà avere il coraggio di definire, con una vecchia parola filosofica, ontologica. Tutti i nostri strumenti di pensiero, con i quali eravamo soliti, in modo un po’ irriflesso, confrontarci ai grandi problemi dell’esistenza (e prima di tutto a quelli della nascita e della morte), sono divenuti, come d’un tratto, obsoleti. È quindi diventato meno facile, nonostante una malintesa concezione del rapporto tra modernità e passato, dimenticare quanto sia mutato il contesto in cui ci troviamo a dover affrontare il problema del morire e del dolore che lo accompagna in una società che per moltissimi versi è diametralmente opposta a quella in cui i nostri nonni, se non i nostri padri, sono nati ed hanno vissuto.

Essendo giunto – per ragioni che riguardano l’esperienza privata – drammaticamente in contatto con i problemi sollevati dall’eutanasia, ho potuto riscontrare in prima persona l’ampiezza di questa rivoluzione ontologica e l’inadeguatezza dell’apparato concettuale che la tradizione mi metteva a disposizione. In primo luogo, era necessario, al fine di orientarsi in questa tematica così delicata, cercare di capire come l’idea stessa di morte si era lentamente ma inesorabilmente tramutata in qualcosa di radicalmente differente. Seguendo un antico adagio della filosofia, ripreso magistralmente in questo secolo da Heidegger, ho quindi sentito l’esigenza di ricostruire una sorta di fenomenologia della morte (Si fa qui riferimento ad altri due miei testi che saranno pubblicati su “Aut Aut” e su “Etica & Politica”). Le metamorfosi compiute dalla morte nella storia dell’Occidente mi sono allora apparse come i punti di scansione di una più complessa e profonda storia dell’essere. Per comprendere cosa significasse morire oggi, occorreva ripercorrere questa oscura storia aprendo così la possibilità di uno sguardo sul fenomeno della morte quale esso appare alla luce della rivoluzione epocale messa in atto ai nostri giorni dalla tecnica, ultima manifestazione, sempre secondo l’insegnamento heideggeriano, della storia occidentale dell’essere. Per avere un quadro quanto più completo dei problemi messi in campo dall’eutanasia, andava però fatta una analisi non troppo lontana da quella compiuta per la morte anche per il tema del dolore, cioè per quell’esperienza unica dell’essere umano che fa insorgere il problema stesso di quella pratica che convenzionalmente viene chiamata eutanasia. L’eutanasia, infatti, nel mondo moderno, è il problema di una morte in cui l’esperienza del dolore diviene insopportabile: morte e dolore vi sono presenti in egual misura, sono come due facce di una medesima medaglia: dimenticarne una, allora, equivarrebbe a impedirsi di cogliere la complessità della questione.

Dopo aver compiuto questa prima ricognizione era finalmente possibile affrontare più direttamente il tema dell’eutanasia, arrivando così a cogliere come anche questo stesso termine/concetto manifestasse un’inadeguatezza rispetto al problema come esso si presenta oggi, per noi uomini della tecnica.

Il tema di una “buona morte” si veniva ora delineando come il corrispettivo di una retorica e un’ontologia della morte per molti versi impraticabile. Sorgeva in questo modo la necessità di un’interrogazione decostruttiva sullo statuto stesso del soggetto morente, cioè di quel soggetto che nell’eutanasia viene normalmente considerato il detentore di un diritto e di una volontà di morte, cioè colui che può scegliere della propria vita e della propria morte. In realtà, ad un’analisi più attenta, riscontrai che questa “scelta” era tutt’altro che una libera scelta, poiché la stessa definizione classica di soggetto, sulla quale si fonda ogni teoria della scelta, all’interno di una situazione cosiddetta di eutanasia, veniva meno.

Mi parve, allora, che l’eutanasia fosse possibile solo nell’istante in cui il soggetto – che sta per essere dissolto definitivamente dal dolore – non chiede di darsi la morte o che qualcuno gli doni la morte, ma pronuncia il “vieni” con cui egli si espone ad essa. L’eutanasia si veniva configurando come un istante aporetico, un limite indecidibile, che mai può essere deciso una volta per tutte. Questo carattere aporetico dell’eutanasia, o di quella che mi sembrò di dover chiamare con più precisione distanasia, è il limite su cui ci si trova a doversi porre, in difficile equilibrio, ogni qualvolta si vuole seriamente intraprendere un discorso sull’eutanasia. Il rischio è sempre quello di sbilanciare il discorso o da una parte o dall’altra: costruire una difesa ad oltranza della vita del soggetto oppure formulare una speculare argomentazione sul diritto alla morte, così tralasciando il fatto che entrambe le posizioni si fondano sull’idea di un soggetto stabile, monolitico che, in realtà, in quel momento unico dell’esistenza non sussiste. La difficoltà sta, invece, nel cercare di pensare l’istante in cui il soggetto vacilla, diventando una massa informe, un puro e anonimo grido di dolore. Pensare l’eutanasia significa quindi doversi inevitabilmente interrogare sul problema di un soggetto che non è più il soggetto classico, sul problema di una libera scelta che si confronta ad una necessità ineludibile.

Cosa accade dunque al soggetto sofferente sottoposto alla possibilità dell’eutanasia? Chi si espone a un trattamento eutanasico è davvero un soggetto in grado di darsi la morte? La morte, che il dolore sembra rendere inesorabilmente presente e ineluttabile, può davvero essere donata? Non è essa invece dell’ordine dell’indonabile, del puro evento? E come interviene la tecnica in questo intricato rapporto del soggetto con la propria morte e con un dolore, che per la sua forza e onnipresenza, non sembra più nemmeno suo?

Sono queste alcune delle domande a cui ho cercato di dare una risposta. Tali domande che, a prima vista, sembrano terribilmente astratte e fredde in rapporto al dolore insopportabile del morente e all’angustia della scelta morale in cui si trova chi lo accompagna, sono in realtà un passo importante da compiere per raggiungere quell’umanità e quella tenerezza che sole possono affrontare in modo più o meno adeguato un tema tanto complesso e gravido di drammatiche conseguenze. Se le ipotesi qui prospettate siano soddisfacenti o meno non posso essere io a giudicarlo. È però mia speranza che esse possano aiutare ad alimentare una discussione sempre più razionale e aperta su questo argomento, senza dimenticare che ciò di cui si tratta è la vita e la morte, il dolore e quel minimo di conforto che può essere dato a un insieme di singole esistenze che hanno un volto, una storia, una provenienza, una dignità. L’eutanasia è un problema aperto che, forse, dovrà restare per sempre aperto. Essere all’altezza di questa “apertura” è un compito a cui credo nessuno possa sottrarsi trincerandosi dietro a posizioni ideologiche e intransigenti. Forse si tratta “solamente” di venire all’aperto… e lì sostare.

Come parlare dell’eutanasia senza parlare di coloro che, in un modo o nell’altro, si sono trovati davanti a questa scelta? E come parlare di ciò che sembra sottrarsi ad ogni razionalità e ad ogni sensatezza discorsiva? Come avvicinarsi alla sofferenza del morente e alla sua morte senza appropriarsi di ciò che è inappropriabile: la morte altrui?
Più che mai, per tutti i discorsi che si avvicinano al problema dell’eutanasia, dovrebbe fungere da monito questa frase di Bataille: “La morte non insegna niente, perché morendo perdiamo il beneficio dell’insegnamento che essa ci offre. Possiamo, è vero, riflettere sulla morte altrui. Possiamo riportare su di noi l’impressione che la morte degli altri ci offre. C’immaginiamo spesso nella situazione di coloro che vediamo morire, ma giustamente non possiamo farlo che a condizione di vivere. La riflessione sulla morte è tanto più derisoria per il fatto che vivere significa disperdere sempre la sua attenzione, e per quanto ci possiamo sforzare, se la morte è in gioco, parlarne è la mistificazione più profonda.”

La sofferenza che è in gioco nel momento in cui un uomo chiede o non chiede di morire è senza parole, non ha discorsi che possano contenerla, darle un senso. La sofferenza altrui ha un carattere di inappropriabilità: parla da sé, senza rappresentanti. È la messa in scacco del sistema della rappresentazione. Ma essa ha, innegabilmente, un carattere di esemplarità, un’esemplarità che ben poche altre esperienze dell’esistenza mostrano con altrettanta evidenza. In fondo, la fine, e la sofferenza che l’accompagna, mostrano l’assoluta unicità di ogni esistenza: è il parossismo di ogni esistenza singolare. La filosofia, di fronte a questo parossismo, a questa crisi che sembra mandare in frantumi il suo sapere, continua però ad interrogarsi, ad esporre se stessa a ciò che la fa a pezzi, che la sgretola fin nelle sue fondamenta. Continua a chiedere conto del dolore e del suo limite estremo; ridisegna nuove figure, spinge un passo più in là il suo compito etico e politico. Non può fare altro sapendo però che il “passo al di là” le è impossibile e che ogni vera filosofia, davanti al dolore e alla morte, sente la voce delle sue certezze universali ammutolirsi, sopraffatta dal suono di questo antico, ma sempre attuale, ritornello: “Qual è la filosofia che può resistere allo sguardo del morente?”

Muovendo da questa prospettiva, ogni discorso sull’eutanasia, in quanto discorso sulla morte a partire dalla vita, non dovrebbe mai prescindere dal carattere esemplare di ogni singolo caso. Non si tratta di tacere davanti alla sofferenza e alle scelte che essa impone, si tratta al contrario di dire e di mostrare, pur tra mille difficoltà, ciò che si sottrae alle nostre parole e non potrà mai essere contenuto nei nostri discorsi. “Ciò che l’uomo vede negli occhi spalancati dell’altro che muore [è] la solitudine che non è possibile attenuare, ma soltanto condividere” (Esposito). La solitudine del morente è e resta il dato di fatto non scalfibile e non eliminabile della nostra esistenza, ma questa solitudine, nella sua comune esemplarità, può e deve essere condivisa e comunicata. Occorre, allora, che la filosofia impari a pensare il dolore dei morenti, la singolarità di ogni dolore, senza nulla togliere alla gioia della salute, senza rinchiudersi in un discorso sofferente o della sofferenza e, soprattutto, senza voler parlare in nome dei sofferenti. Bisognerebbe essere capaci di pensare a colui che muore “in modo tale che non sia più tu che ritorni in questo pensiero e che non sia attraverso un pensiero che tu ti avvicini a lui” (Blanchot). Bisognerebbe avere un pensiero che sia anche un gesto, un ascolto silenzioso e una mano tesa verso ogni smorfia di sofferenza, verso ogni viso sfigurato, verso ogni io disintegrato. Ma, allora, se pensare l’eutanasia significa pensarne la sempre rinnovantesi esemplarità, la singolarità di ogni sofferenza, in che mondo si deve intendere l’esemplarità? Cos’è un esempio?

Cos’è un esempio?

A questa domanda, in realtà, non si dà risposta. Non tanto perché l’esempio sarebbe indefinibile o non risponderebbe alla domanda fondamentale di tutta la filosofia “che cos’è?” (tì estin) – domanda che tra l’altro, perde di attualità con l’avvento dell’epoca della tecnica, orientata al come più che al perché – ma piuttosto perché l’esempio ha già sempre risposto, prima di ogni possibile domanda. L’esempio è l’esposizione della mancanza di domanda o del fatto che il suo essere è già tutto lì, nella sua semplice esistenza. L’esempio è tautologico, fa tutt’uno con il suo essere in atto, con il suo essere un possibile in atto: un uomo è un uomo. Così un uomo che muore tra insopportabili sofferenze non è il rappresentante degli uomini che muoiono tra insopportabili sofferenze, non è l’elemento campione della statistica e nemmeno il tipo da prendere a modello. È semplicemente un esempio degli infiniti compossibili che compongono quell’insieme che prende il nome “uomini che muoiono tra insopportabili sofferenze”. In questo senso, un esempio non è mai esaustivo, pur essendo tautologico. Inoltre ogni esempio è perfettamente sostituibile – un esempio vale l’altro – ma è anche totalmente unico: “2” e “4”, entrambi esempi dell’insieme dei numeri pari, sono indifferenti nella loro differenza. L’esempio è al di là del sistema rappresentativo: non rappresenta nulla, presenta soltanto la propria singolare esistenza, il proprio essere quello che è.
Ma come parlare di un esempio? Come dire appunto l’esemplarità di ogni caso, di ogni singola sofferenza, senza tradire la loro specificità?

Il problema è difficile, non solo par la coscienza di colui che parla volendo testimoniare della sofferenza altrui, ma anche per ragioni logiche e filosofiche. L’esempio, infatti, ha certamente a che fare con il linguaggio, non è un suo “fuori”, un qualcosa di extralinguistico. “Esemplare è ciò che non è definito da alcuna proprietà, tranne l’esser-detto” (Agamben). Così “uomo che muore tra insopportabili sofferenze” è un esempio dell’insieme che prende il nome “uomini che muoiono tra insopportabili sofferenze”. In questo senso, un esempio ha la propria specificità nell’esser-detto x o y. Il dire, l’essere linguistico, è il fondamento di tutte le possibili appartenenze, di tutti i possibili insiemi di esempi. Riappropriandosi dell’essere linguistico, quindi, ci si riapproprierebbe dell’appartenenza stessa, superando così ogni particolarità come ogni universalità, o meglio, l’aut aut tra le due. Il che è esatto, ma solo a patto di aggiungere che il detto è la cosa stessa, e la cosa è il detto. In questo modo si potrebbe anche dire che l’essere linguistico, l’insieme di tutti i possibili esempi, è il mondo, e viceversa. Rinvio dall’uno all’altro, in una distanza di nulla.
Allora, l’esempio sarebbe liberato non tanto per mezzo di una sottrazione della presunta cosa in sé (nel nostro caso, il dolore e la sofferenza nella loro dimensione universale o trascendente) all’insieme dei predicati – poiché l’esempio non è indicibile, ma è sempre detto – e nemmeno, quindi, per mezzo di una parola vergine capace di liberarsi dell’ingombro delle cose, ma piuttosto attraverso la liberazione di tutti i predicati possibili, la riduzione di tutti al loro carattere di esempio, di singolarità universale che nel dirsi x o y, ogni volta di nuovo, configura un mondo di possibili.

Essere esempio, farsi esempio, significa dire, ogni volta e sempre di nuovo, “questo è mondo, questa è la mia sofferenza”, cioè dire l’evento dell’essere linguistico, dove però il “dire” va inteso come un mostrare e quindi un fare. Farsi esempio, cos’altro significa se non ciò che i Greci, e ancora Marx, chiamavano praxis: un fare nel quale l’agente dell’azione (e quindi anche del dire) si “produce” nel suo stesso operare?

Parlare d’esempio, dunque, non vuole affatto sottintendere un abbandono della dimensione dell’universalità a favore di un particolarismo, più o meno chiuso. Il particolarismo, infatti, è la negazione stessa di ciò che s’intende parlando d’esempio. Particolare è ciò che non risponde che a se stesso e di se stesso. Le particolarità sono esaustive, l’esempio è complementare. La particolarità nega, con la sua stessa esistenza, la categoria di universale. Per quel che ci riguarda, non si tratta di affermare la particolarità di ogni caso, evitando così il problema di guardare a una soluzione d’insieme. Non ci sarebbe nulla di peggio che voler far rientrare il problema dell’eutanasia solamente nel dominio della morale, escludendo il problema giuridico e politico che esso rappresenta. L’esempio dovrebbe evitare questo rischio, rientrando in una dimensione che potremmo definire di universalità singolare. L’esempio dice soltanto “ecco un possibile in atto, all’interno dell’insieme dei possibili”, mentre il particolare dice “ecco la sola attualità possibile: l’affermazione della mia particolarità”.

Il particolarismo è sempre particolarismo predicativo. Dice: io sono x, y, z, oppure: questa è la mia sofferenza, queste le mie soluzioni, questi le mie certezze. E in questo modo presuppone come già definito cosa sia “io”, “x” e l’“essere” che li unisce. L’esempio non può invece dire “io sono x”, poiché la sua non è una funzione connotativa, ma piuttosto denotativa (“un x”). Un esempio può solo essere mostrato. L’esempio dunque non può essere ipostatizzato in un predicato particolare e nemmeno in un insieme assoluto. Un esempio non sa nulla dell’insieme che esemplifica, perché in senso stretto l’esempio può solo indicare un insieme a cui appartiene ma non può in nessun modo esaurirlo o chiamarsi a rappresentarlo. Un esempio è solo un esempio, tra infiniti altri, pur mantenendo il suo carattere d’esemplarità: è manifestamente percepibile da tutti. Esso non rappresenta un’appartenenza, ma, come scrive giustamente Agamben, mostra la possibilità di espropriarsi di tutte le appartenenze, per appropriarsi dell’appartenenza stessa, del segno Î. Di qui segue che la semplice esistenza di un esempio è la dimostrazione del fatto che l’universalità non è mai astratta, ma sempre concreta. Ogni discorso universale deve concretizzarsi in una pluralità di esempi, altrimenti è un discorso vuoto, un insieme vuoto.

L’esempio, quindi, attesta che l’insieme non è vuoto e che dei possibili sono, appunto, possibili. Esso attesta la possibilità di una particolarità che entri a far parte di un’universalità. Infatti, non si dà mai un solo esempio. L’esempio è sempre plurale, o meglio l’esempio si dà sempre come rinvio a una pluralità. Un esempio unico non sarebbe più un esempio, ma una regola eccezionale: uno stato d’eccezione o un Führerprinzip. L’esempio, invece, conserva nella sua esemplarità plurale un rapporto con una regola valida per tutti i casi singolari. Come scrive Nancy, “l’esempio è scelto e messo da parte per presentare qualcosa di grande, d’eccezionale. Qui, quel che è esemplificato, è l’eccezione della singolarità – in quanto essa è anche la banale regola della molteplicità. Ma una tale regola, come è giusto che sia, non ha altra istanza che i suoi casi d’eccezione e d’esemplarità”. Ed è esattamente così: l’esempio è l’eccezione irriducibile della singolarità, “inimitabile nel suo stesso essere qualunque”. È per questo che non è esatto dire, come fa ancora Nancy, che “l’esempio, qui, non rinvia ad una generalità o ad una universalità”. Esso, infatti, vi rinvia proprio in quanto singolarità universale, valida cioè, nella sua insostituibile unicità, per tutto l’insieme d’appartenenza. Se così non fosse, l’esempio si trasformerebbe in particolare, in quanto ab-soluto. Detto altrimenti, come fa Agamben, “da una parte, ogni esempio è trattato come un caso particolare reale, dall’altra, resta inteso che esso non può valere nella sua particolarità”. La struttura dell’esempio è, dunque, quella del rinvio, ma di un rinvio in quanto andata e ritorno: dal singolare all’universale, dal centro alla periferia, da sé all’altro, e viceversa – dove il polo d’andata e quello di ritorno si danno solo nel percorrere la distanza; letteralmente, non vi sono né prima né dopo.

L’esempio, quindi, è sia particolare che universale (e non né l’uno né l’altro), poiché esso è esattamente una singolarità universale: l’unico punto in cui i due termini possono assumere un senso senza ipostatizzarsi – senza cioè soccombere al rischio dell’autonomia, ma piuttosto facendo sistema (essendo il sistema ciò che tiene insieme gli esempi). La sua struttura esistenziale è quella dell’et et et…

Parlare di esempi rispetto all’eutanasia significa allora mostrare come ogni tentativo di trovare una soluzione che possa essere operante nell’istante in cui il dolore rende il nostro vivere insopportabile è indissolubilmente e imprescindibilmente legato alla singolarità universale di ogni singola sofferenza, al suo non poter essere eretto a modello, a norma.

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