Appunti per un esilio. Un racconto di Kafka e alcune domande
di Nadia Agustoni
C’è nell’umano un estremo frangente che tocca la nostra capacità di comprendere e fa sì che non si chieda a questo comprendere una semplice conferma del nostro essere umani ma di aprire uno spazio che ce ne mostri il limite. L’artificio che cela il nostro sovraccarico di dolore e di dolente corporeità diviene a tratti, per pochi momenti illuminati, il farsi portatori/portatrici di una dimensione esiliata e resa afona, che nemmeno le parole di una lingua abitata possono tradurre.
In Una comunicazione accademica (1) un suo breve racconto, Kafka dispiega in pochissime pagine una sapienza narrativa e una misura molto rare. Tocca materiale incandescente con un tono profondo, ma insieme lieve, che apre solchi e li cicatrizza quasi in un istante medesimo. Non trascura però, in quel poco tempo, di farci scorgere un abisso a cui la pacatezza della voce narrante ci conduce tenendoci per mano perché non ce ne venga troppo male. Eppure il dolere è acutissimo.
Il racconto è la cronaca di una comunicazione accademica fatta da una scimmia, catturata anni prima in un altro continente, sulla propria condizione non più scimmiesca ma molto vicina all’umano. Qualcuno l’ha arbitrariamente chiamata “ Pierino il Rosso” perché un’altra scimmia ammaestrata con il nome Pierino l’ha preceduta. Nel rendere conto di quel nome e dell’essere nominato da altri, il relatore-scimmia-non-più-scimmia, precisa che un abisso lo divide dal proprio passato, tanto quanto un abisso divide gli umani presenti in quella sala dalla loro presunta natura scimmiesca. E’ subito chiaro dunque che parlerà non di cosa era , ma di come è diventato ciò che è. La sua cattura è avvenuta in circostanze il cui ricordo è solo un colpo di fucile. Da quel frangente ( una rottura violenta) si apre lo sterminato memorarsi di una prigionia che occupa gran parte della narrazione e che è una trama di fili che dalla gabbia lo porteranno agli spettacoli in cui si esibirà. Lo porteranno anche a uno sdoppiamento di sé: percependosi come qualcuno che è in carriera , qualcuno che ha cercato una via d’uscita e ( ed è significativo), non la libertà. La sua umanità acquistata a caro prezzo e nel fondo ancora troppo dolente è tutta nella riduzione cui è sottoposto. Neanche con l’immaginazione tocca la corda della libertà e irrisoriamente ne mostra l’illusione negli acrobati-trapezisti da circo che sembrano vincere l’aria. Il suo commento è: “ Anche quella è libertà umana, – pensavo -. Autocontrollo del comportamento -.” Kafka usa in queste righe un’ironia tagliente, mette sottosopra le vari condizioni scimmie/umani umani/scimmie, pare scrivere una parabola di sovversione che amaramente nulla sovverte perché subito se ne scorge il limite come in un gioco e la scimmia torna a rendere conto dei suoi progressi di scimmia, del suo bestiale umanizzarsi. Tutta la pena che gliene viene si raccorcia a poco a poco. L’applauso copre col suo rumore, con l’approvazione ottenuta, la perdita . Perdita mai nominata, mai detta, vero continente lontano o Costa D’Oro: luogo non luogo di provenienza. Alla fine nulla pare turbare la non-più- scimmia nel suo successo, ma… un ma c’è sempre in Kafka. Torno a questo ma in conclusione di questo scritto.
Anche in questo racconto e non sarà comunque né la prima né l’ultima volta, Kafka assume lo sguardo prima dello sguardo. Intendo con questo quel farsi della coscienza che nomina e scuote la nudità delle cose, quella spogliazione di sé che avvicina all’altro. Lo sguardo prima è quello non inscritto nella legge, nei codici. E’ lo sguardo che non riflette un sembiante ma lascia bianco lo spazio del dire. E’ lo sguardo che non possiede, ma attende. Questo racconto è parte delle narrazioni del non umano che hanno in Kafka un grande maestro, che ha avuto epigoni in scrittori a noi contemporanei tra cui Angela Carter, mancata troppo presto. Leggere Kafka ci porta, del resto, sempre su un limite o meglio un confine che sconfina nel tempo e nello spazio con l’attualità. Impossibile leggerlo in senso astratto. A titolo di esempio America , il suo romanzo dal finale utopico, finale da sogno che pare voglia riscattare l’intero perdersi nell’umano, è un inno alla disperazione dei disperati, un incagliarsi nei nodi cruciali dell’emigrazione senza alcun compatimento e compiacimento ma con la lucida angoscia del proprio disagio esistenziale. E leggendo La Metamorfosi o Nella colonia penale (2) il rimando è alle tante diversità che attraversano i corpi, l’epoca, la sostanza stessa delle nostre vite.
Rileggo Una comunicazione accademica ponendomi nella doppia condizione di chi osserva da un sogno di libertà, ( Kafka mette nei paragrafi sulla libertà tutta l’ironia dell’amarezza, lo sconforto dello stipendiato che si misura con la realtà contratta del suo tempo) e poi toccando con mano il crudo fatto che “ la via d’uscita” è, forse, poca cosa se c’è, se mai c’è stata. La scimmia ammaestrata del racconto è una voce, una vocalità che pare essere imparziale. Pare scandisca i concetti con l’avvertenza per l’uso. E’ la voce-non-voce del soggetto subalterno (3) che edotto dei parametri con cui lo si giudica e valuta ( la gabbia con le sbarre, l’ammaestramento, le bruciature se non impara, lo zoo o il teatro-circo) si adatta per avere rimasugli di vita o perché scorge nella propria sconfitta la possibilità di deridere la superbia dell’avversario, ma non esplica questa derisione che con l’abilità del sotterfugio, lasciando uno spazio per sé, ma anche purtroppo per nuove interpretazioni date dal dominante (4). Kafka non dà voce al dominante. Lo lascia sullo sfondo. Eppure incombe. Incombe fin con le sue stesse miserie e con la povera vita che strappa dagli altri cui non può insegnare che la ripetizione dei propri gesti: quello che lo svilisce, ma lo conferma. Lo strazio della scimmia è quindi pura evidenza in quel cercare di continuo di evitare la trappola del dire troppo, nell’aver cura di scongiurare una mancanza di riguardo verso gli umani reiterando di volta in volta le proprie scuse e certi distinguo. Sono, dice la scimmia, quasi come voi : vi imito. Sono al livello culturale di un europeo medio, ma non umano veramente ( non europeo, non uomo) divento la vostra attrazione in un teatro, in spettacoli dove guardate la vostra superiorità. Quanti soggetti possono sentirsi chiamati in causa a questo punto, perché portatori di alterità , come l’altro mostruoso, l’altro quasi umano? E perchè il narrare di una scimmia che si lascia ammaestrare agli usi e costumi dell’uomo ci può condurre alla domanda se esiste, se è possibile un esilio, che si faccia vocalità e frontiera da cui guardare e parlare in modo nuovo, senza omissioni, sulla nostra condizione attuale? Può essere tradotta questa vocalità? Può giungere agli altri?
Il racconto della scimmia ha un lampo che illumina l’intera storia proprio nel suo chiudersi apparentemente trionfale, e qui torno a quel ma lasciato in sospeso. E’ dopo aver detto la propria cattura, la prigionia e il trasporto, l’ammaestramento e la consapevolezza di avere accettato/cercato l’unica via d’uscita possibile per sé in quei frangenti, che una frase cade all’indietro e svela ciò che non doveva essere detto. Nominando la compagna, che con lui divide l’essere stranieri in un mondo altrui, le sue parole lasciano scorgere questa verità:
Di giorno non voglio vederla; nello sguardo ha la follia dell’animale addomesticato. Solo io me ne accorgo; e non lo sopporto. (5)
Partiamo da questo dato di fatto per un esilio (6) che forse è una spogliazione di noi giunta da altre spogliazioni perché ci sia per ognuno/a la possibilità di essere quel prima dello sguardo che ci salverebbe ( se non altro dal discorso costruito sulle facili categorizzazioni : uomo/donna, bianco/nero umano/bestiale ecc.) e ci darebbe la possibilità del confine: essere-confine essere corpi e voci che connettono l’umano-plurale. Una trascrizione per far comprendere in che senso uso il termine confine o frontiera:
“ L’ibridazione, effetto di una posizionalità mestiza, mette fine alla dicotomia puro/impuro, originario/mediato, inscena la figura del ponte, della soglia, della porta, della frontiera, obbliga a staccarsi da modelli-visioni precedenti, obbliga a spostarsi non solo come coscienza, ma geograficamente: richiede che si faccia un passo a lato, si trovi un’altra angolatura, uno sguardo nuovo che solleciti costruzioni socio-politiche ed esistenziali nuove.” (7) ( Anzaldua)
Quindi con un minuscolo ma immenso atto di coraggio guardiamo al fondo dello sguardo e della follia dell’animale addomesticato. E solo se non lo sopporteremo, perché ricorderemo fino a che punto è anche il nostro sguardo addomesticato e la nostra follia, allora le nostre parole come i nostri gesti e soprattutto il nostro silenzio ci trarranno da noi . Forse non saremo del tutto nuovi, ma il nostro inferno sarà meno inferno, un inferno diminuito. Forse avremo un esilio dalle certezze che ci giungerà come ossigeno. Forse scopriremo che è più facile emozionarci per il robot su Marte, che annaspa e si spegne, che per la quotidianità di chi è accanto a noi ogni giorno e resiste ogni giorno con noi senza che ce lo ricordiamo. Forse le parole esiliate sono meno difficili sapendo che non è necessario pronunciarle, che basta saperle per renderne il significato alla vita.
Note
1) Franz Kafka; Nella colonia penale e altri racconti. Einaudi 1986.
2) Ibidem
3) Sul soggetto subalterno e particolarmente su quello postcoloniale vedere tra gli altri/e Gayatri C. Spivak; Critica della ragione postcoloniale (2004) e Morte di una disciplina ( 2003); Meltemi editore.
4) Sulla difficoltà/impossibilità di creare un nuovo episteme vedere G.C. Spivak
5) Ibidem; pag. 221
6) Una nota sull’esilio e sul cammino nell’esilio: “ […] cammino lungo il quale , per quanto strano, egli ( l’esiliato – nota mia) non s’è andato caricando di ragione, ma spogliando di torto, che non è la stessa cosa”. pag. 136 ; Maria Zambrano ; Lettera sull’esilio; Le lettere (2006).
7) Gloria Anzaldua; Terre di confine; La frontera; pag. 10; Palomar edizioni (2000)
spivak, anzualdua e zambrano :))
Altro interessante soggetto di frontiera è clarice lispector (a paixao segundo g.h.)
Chissà che avrebbe detto Kafka sulla ‘impossibilità di creare un nuovo episteme’ e sulle retoriche dello sguardo.
a me mi piasce l’incipit, perché illumina.
prima brancolavo nel buio.
mai più senza Agustoni.
mai più senza zambrano.
o zamorano?
Vivere ai Confini Significa Che …
non sei nè hispana, india, negra, espagnola
ni gabacha, eres mestiza, mulatta, mezzo-sangue
presa nel fuoco incrociato tra gli accampamenti
mentre trasporti tutte e cinque le razze sulle spalle
non sapendo da che lato girarti, da quale sfuggire;
Vivere ai Confini significa saper
che l’india in te, tradita per 500 anni,
non ti parla piu’,
che le messicane ti chiamano rajeta,
che negando l’angla che è in te
stai ancora sbagliando come quando negasti l’india e
la nera
Cuando vives en la frontera
la gente ti cammina attraverso, il vento ti ruba la
voce,
sei una burra, buey, capro espiatorio,
anticipatrice della razza
mezza e mezza – sia donna che uomo e nessuno dei due
un nuovo genere;
Vivere ai Confini Significa
mettere chile nel borscht,
mangiare tortillas di grano integrale,
parlare il texano-messicano con l’accento di Brooklyn;
essere fermata dalla migra ai posti di controllo della
frontiera
Vivere ai Confini significa che lotti duro per
resistere all’elisir dorato che t’invita dalla
bottiglia,
al fascino della canna da fucile,
alla corda che ti rompe il cavo della gola;
Ai Confini
sei il campo di battaglia
dove i nemici sono parenti tra loro
sei a casa, una straniera,
le dispute di frontiera sono stare sistemate
la raffica di colpi ha infranto la tregua
sei ferita, dispersa in azione,
morta, rispondi ai colpi:
Vivere ai Confini significa
che la macina dai bianchi denti a rasoio vuole fare a
brandelli
la tua pelle rosso-oliva, spiaccicare il nocciolo, il
tuo cuore
pestarti pungerti spianarti
finchè non profumi come pane bianco, sebbene morta.
Per sopravvivere ai Confini
devi vivere sin fronteras
essere una crocevia.
Gloria Anzaldùa.
son d’accordo con pat garrett. e billy the kid non voleva venì?
“Kafka assume lo sguardo prima dello sguardo. Intendo con questo quel farsi della coscienza che nomina e scuote la nudità delle cose, quella spogliazione di sé che avvicina all’altro. Lo sguardo prima è quello non inscritto nella legge, nei codici. E’ lo sguardo che non riflette un sembiante ma lascia bianco lo spazio del dire. E’ lo sguardo che non possiede, ma attende.”
Brava, bis.
Molto bello. L’insostenibilità dello sguardo addomesticato. Guardare da fuori quell’estraneazione, ed esibirla, ed enunciarla esibendo il mio stesso sguardo come sguardo altro. Questo è necessario, per me, e quest’icona scimmiesca è veramente formidabile.
sui generis e (tra)valicando il mammifero : anche la fevvers senza ombelico di “notti al circo” (angela carter) fa la sua ottima parte:)
simpatico Pat garret, Gina spero si comprenda che le contaminazioni ( Spivak Zambrano Anzaldua) sono parte di un interrogare ( personale ovvio) i testi di altri percorsi, che scavano nelle stesse domande che mi pongo da sola e mi mandano in crisi, mi costringono ad un ascolto…
grazie a tutti
nadia
non dica cazzate, professoressa. simpatico pat garrett? ha detto che lei scrive male. cosa che mi pare evidente. come è evidente che io non sono billy the kid, perchè quel pat garrett solitamente dice cose che non condivido.
ah gina: ci vuole il decodificatore, per capire i tuoi post. magari, se sei d’accordo, chiamo un mio vecchio amico della north carolina che lavora alla FBI.
nadia
claro que sì
sith
provo con l’alfabeto farfallino: fafàifi prifìmafa afà nofòn cafàgafarmifi.
ho il senso dell’ironia, diciamo.
ultimo paragrafo molto bello e intelligente, ma devo dire che il resto – l’interpretazione del racconto in generale – non mi convince.
in particolare, giuro che non riesco a capire cosa voglia dire questo periodo: “Partiamo da questo dato di fatto per un esilio che forse è una spogliazione di noi giunta da altre spogliazioni perché ci sia per ognuno/a la possibilità di essere quel prima dello sguardo che ci salverebbe ( se non altro dal discorso costruito sulle facili categorizzazioni : uomo/donna, bianco/nero umano/bestiale ecc.) e ci darebbe la possibilità del confine: essere-confine essere corpi e voci che connettono l’umano-plurale.”
Giuro, sarò scemo oppure ho una formazione troppo analitica (in senso filosofico), ma non riesco a capirlo. Specie l’ultimissimo pezzo: cosa significa “essere-confine essere copri e voci che connettono l’umano-plurale”? Chiedo delucidazioni.
professoressa, grazie. se vuole migliorare un pochino con l’ironia, mi permetto di consigliarle gina. è un asso, in materia.
… e adesso nemmeno il mio amico federale ci capirà più una sega.
cercherò di essere sintetica anche rimandando alla citazione nel testo ( parte finale) : L’ibridazione, effetto di una posizionalità mestiza, mette fine alla dicotomia puro/impuro, originario/mediato, inscena la figura del ponte, della soglia, della porta, della frontiera, obbliga a staccarsi da modelli-visioni precedenti, obbliga a spostarsi non solo come coscienza, ma geograficamente: richiede che si faccia un passo a lato, si trovi un’altra angolatura, uno sguardo nuovo che solleciti costruzioni socio-politiche ed esistenziali nuove.” (7) ( Anzaldua) aggiungo che i corpi-confine sono corpi diasporici , corpi che rigettano il discorso che ci imprigiona in categorie e cercano altre rappresentazioni dell’umano … e anche quell’esilio che dovrebbe consentire la capacità di visione. Per esempio un esilio che con uno scarto a lato sposti ” la frontera” dei confini nazionali a ” frontera” che inizia dai corpi dei migranti che cercano di entrare in Europa… E’ in frangenti simili che veniamo messi alla prova. Il corpo-confine della mestiza è anche il corpo di chi si espone per l’altra umanità, quella dimezzata ( donne, transgender, diversi, migranti…) e lo sguardo prima dello sguardo è quello che non li imprigiona nel repellente.
Il corpo-confine è il corpo del no ai poteri, alla coercizione…
Rimando al testo di Anzaldua ( e magari la Carter) ma anche, se vi interessa, a un libro di Lidia Curti ” Lo sguardo dell’altra” ( meltemi) . E’ tutto.
Devo assolutamente chiarire, perché se no l’Agustoni magari può fra-intedere.
Devo fugare i dubbi.
Nella Prima Proposizione si legge:
“C’è nell’umano un estremo frangente che tocca la nostra capacità di comprendere e fa sì che non si chieda a questo comprendere una semplice conferma del nostro essere umani ma di aprire uno spazio che ce ne mostri il limite.”
Ora io prima dell’avvento dell’Agustoni sbagliavo, lo ammetto.
Io sbagliavo perché chiedevo all’estremo frangente che tocca la capacità di comprendere una semplice conferma del mio essere umano, invece di chiedere che quello stesso estremo frangente eccetera mi aprisse uno spazio capace di mostrarmene il limite (del mio essere umano, dico).
Mi sono fermato qui nella lettura, per adesso.
Nei prossimi giorni affronterò la Seconda Proposizione.
Eccetera.
Non so se mi basteranno i giorni che mi restano.
(Ammettiamo serenamente che Kafka aveva bisogno, anche lui, del suo Ghezzi.)
Ci siamo abituati a rileggere il passato con i nostri occhiali.
OT e mi scuso con agustoni per l’intromissione
Giorgio fontana
mi permetto di chiederti
1. A quando risale la tua formazione filosofica di base
2. Quanto e quale “pensiero filosofico femminile” hai avuto occasione di studiare o approfondire, in ambito accademico e non.
mi compiaccio: gina ha imparato a comunicare. all’FBI tirano un sospiro di sollievo.
solo una cosa: esiste un pensiero filosofico femminile? pensavo esistesse un pensiero filosofico e basta.
travirgolettato:)
amore, non farne una questione di virgole. e te lo dico NON tra parentesi.
(vediamo: resto in ascolto)
per ascoltare la mia voce piuttosto sensuale dovresti telefonarmi. ma io il numero, in pubblico, come qualcos’altro, non lo do. facciamo così, ti telefono io. dimmi.
@ gina
1. la mia formazione filosofica risale alla mia laurea di uhm, ormai quasi due anni fa. ma nel frattempo ho continuato a studiare. ma, come accennavo, ho quasi solo con autori dell’ambito analitico – quello che mi ha sempre interessato di più.
2. purtroppo, praticamente nessuno. ho letto solo iris murdoch.
Giorgio fontana
uhm, grazie:)
sith
sitz!
sitz lo dici a tua sorella.
nadia
credo che quello di lidia curti per meltemi sia “la voce dell’altra”
Sorelle, vedo con piacere che sitting non ama soltanto me, l’harem ha sempre permesso di distribuire i carichi, convertiamoci all’islam.
io amo le donne in generale, mica voi. e una alla volta. vabbè, massimo due.
tashtego/pat garrett è stato fulminante:
“(Ammettiamo serenamente che Kafka aveva bisogno, anche lui, del suo Ghezzi.)”
eh già.
“La voce dell’altra”… mi scuso.
sì, la voce dell’altra: “buonasera dottore”. claudia mori. alberto lupo. da sballo, agustoni. mi creda.
(apppunti per un esilio: mi ritiro nel museo di madame schreck:). le forme dell’accomodamento possono variare, tutte però implicano il paradosso di voler piegare alla stessa rappresentazione – quella del medesimo – ciò che si pone come eterogeneo, come altro.)