Le mie guerre
di Franz Krauspenhaar
Up patriots to arms, Engagez-Vous
la musica contemporanea, mi butta giù.
La foto in braghe corte
Punto gli occhi su una foto di papà con alcuni commilitoni. Non so dove sia stata scattata. Papà ha i pantaloni corti, il sorriso smagliante del diciassettenne in pace col mondo. Eppure quella foto doveva essergli stata fatta poco prima dell’arruolamento, da qualche parte, in Germania. Nessuna ombra di preoccupazione sul suo volto. E come lui sorridono tutti, questa sparuta pattuglia di ragazzi tedeschi: dove saranno finiti? Volti senza nome; nomi, forse, ormai senza volto.Chiedo alla mamma, non ricorda. Papà mi sarebbe utile come non mai, adesso; ma se lui fosse qui questo libro non esisterebbe; e dunque, cinicamente: oggi come oggi sceglierei lui o il libro? Strano, non so rispondere; ho fatto troppo l’abitudine alla sua assenza, è questo, almeno credo, mentre i dubbi, invece di diradarsi, si moltiplicano. Distintamente lo vedo allontanarsi dando forti colpi di pagaia dalla sua barca inconsistente con le sue braccia muscolose, nel lago bianco del passato. Pellicola in negativo, come nel Nosferatu di Murnau. Papà vampiro della mia anima, di molto del mio dolore trapassato. Ora è sbiancato in tutto il corpo, diventa ectoplasma danzante sulle immagini dei ricordi sfocati, in velocissima diradazione. La pattuglia dei giovani tedeschi; il sorriso dei giovani caduti per la patria: forse alcuni di loro caduti sul campo lo furono davvero. E poi, il vuoto. Nessuna immagine dal fronte. Tutto affidato nemmeno ai ricordi, soltanto all’immaginazione. Cerco di spremere immagini da altre immagini. Cerco di rivederlo, quasi steso sulla poltrona, che monologa la sua guerra. Potrei barare, forse, appoggiarmi ai ricordi di altri, tanti libri ne sono pieni. Ma come? No, no, ho deciso, nonostante tutto, di tenere fede al patto che ho fatto con questo manoscritto che mi cresce dentro e fuori come un feto bidimensionale: niente trucchi, niente inganni, affidarsi ai propri scampoli sbiaditi di ricordo, a pezzi rugginosi di immagine, a qualche lettera di zia Erna – ecco, ne ho una del 96, le avevo chiesto spiegazioni sul passato di papà e lei, gentilissima come sempre, mi aveva scritto lunghe pagine. La chiamerò, la cara Erna, la sorella minore di mio padre, ma non ora; non è ancora tempo degli affondi, si tratta in questo momento di veleggiare sull’inespresso, devo affidarmi unicamente a me stesso, alle foto, anche agli inganni della mia memoria, perché credo che la verità della memoria, sempre, sia anche dentro ai suoi inevitabili inganni, fatti di lapsus, di piccoli travisamenti, di confusioni.
Orgoglio del marmittone
Fronte russo, 1944. Mortai vengono caricati. Papà ha diciassette anni, è mortaista semplice. Fa parte dei cavalleggeri, ha anche un cavallo, di nome Siegfried. Un colpo avversario manda in brandelli un suo commilitone: le budella del ragazzo biondo-oro fuoriescono a scattanti ondate dal suo corpo leggero. Mi sono spesso domandato se io, a diciassette anni, sarei sopravvissuto a tutto quell’orrore. E dopo? Le immagini si sovrappongono: al suo bianco e nero da cinegiornale UFA si sovrappone un filmato a colori molto più recente; i colori della pellicola immaginaria sono tristemente sfocati. E’ il 18 marzo 1982: sto marciando, vestito in borghese, con altri ragazzi – come me del Terzo Scaglione 82- al C.A.R. della caserma Piave di Alberga. Durerà un’ ora e più, il supplizio. Intanto, dalle finestre ci viene dato un caloroso benvenuto, che dura parecchio, un refrain che non smette per molto: “Rospi, spine! Dovete morire!”
E poi il Friuli, Battaglione Logistico. Due campi in Sardegna, il primo come volontario. Le baracche di Capo Teulada, confidenzialmente Fort Apache. Lo sporco, gli insetti, le mosche aggressive in sala mensa sul miele carnale delle nostre mani sudate. Le urla d’animale scannato dei soldati sardi a notte, quando chiude finalmente lo spaccio della caserma. I sardi ululano il loro rancore folle, gonfi di birra Ichnusa. Le gite in camion militare a Iglesias, a passeggiare per una città da spaghetti western, sprangata a ogni contatto umano. Le gite del comandante del Nucleo Logistico, un colonnello toscano spesso ubriaco, assieme al suo vice, il maggiore Serao: a bordo di una jeep Fiat d’ordinanza vanno al poligono in cerca di carciofi selvatici. Le urla del nostro capitano Antonio Bronzi, il duro della caserma Fiore di Pordenone, un profugo istriano. Il suo pizzo al mento si muove a scatti durante le grida. “Sei un mona!”, mi dice spesso. Ma lo dice a buona parte della sua truppa.
Un giorno mi chiede: “Krauspenhaar, soffri di depressioni?”. Rispondo di no, secco. E lui: “Ci avrei scommesso”. Sa che sono, a modo mio, un duro. Sto male, inutile negarlo: quaranta giorni in quel posto sicuramente dimenticato da Dio mi prostreranno. Stringo i denti, anche se potrei lanciare la spugna contro la branda e chiedere di essere rimandato indietro. Non lo faccio soltanto per papà. Lui ha combattuto da ragazzino, in Ucraina, contro l’Armata Rossa, ha rischiato di morire tante volte, ha visto morire tanta gente a pochi metri – a volte centimetri – da lui, si è salvato per puro miracolo da una carneficina, una volta, grazie a un inatteso trasferimento: il giorno dopo la sua compagnia venne completamente distrutta, nessun superstite. E io posso lasciarmi andare? Ho il diritto di farmi battere da questa strisciante depressione che mi accompagna da giorni e giorni, ma che in qualche modo è dentro di me, a covare le sue uova avvelenate, da anni? No, questa è l’unica risposta. Un no tondo e a oltranza, un no di sfida stanca alla stanchezza di una giovane vita messa alla prova da un umore cangiante verso il tono più scuro. Devo resistere perché sarebbe un’umiliazione, per me e per lui. Bada bene, Lettore: questa strenua resistenza non mi è stata in nessun modo imposta, insomma niente mi è stato ordinato – ma nemmeno velatamente suggerito – da mio padre. Il Senior probabilmente farebbe buon viso a cattivo gioco, capirebbe. E’ invece tutta farina del sacco dello Junior. Sono io che mi impongo regole non solo non scritte, ma nemmeno pronunciate, sillabate, suggerite appena, a fior di labbra intimidite. E allora? C’è di mezzo un orgoglio smisurato che però in gran parte ho imparato da lui, dal Senior, come uno dei pochi pezzi dell’ esigua eredità di famiglia.
Carciofi al poligono di tiro
Tenere duro, tenere più salde che si può le posizioni. Non arretrare, mai. Se ti chiedono di fare una corvée dire sempre sì, accennando persino un sorriso. Scattare sempre sugli attenti più velocemente degli altri. Marciare, anche sul posto. Se qualcuno prova a mollarti uno schiaffo tu dagliene due in anticipo, per sicurezza. Alzare la testa. Hai gli occhi velati dalla tristezza e i denti stretti a morsa da cane idrofobo. Il muschio della terra ti sale fino alle narici. La Sardegna avvizzita nella terra brulla, nelle nuvole di polvere, nel caldo ormai fuori stagione. Gli artiglieri, i bersaglieri, i fanti d’assalto, i carristi, i cavalleggeri, tutta la soldataglia. Tutti passano per il nostro nucleo logistico a fare scorte di tutto. Il colonnello s’imbroglia all’adunata, è già sbronzo, pronuncia poche parole quasi incomprensibili. Gente da Comma 22. Gente da M.a.s.h., nel migliore dei casi. Niente è stato veramente inventato sulla follia della vita militare, tutto è precisamente vero. Mio nonno il tenente dell’esercito austroungarico mandato all’arrembaggio su Belgrado, nell’assalto suicida, con dappertutto, a funebre corona umana di strazio, migliaia di morti, a catasta. Pochi feriti gravi, tra cui lui. Anni dopo è la volta di papà, in Ucraina, da soldato semplice. Sfascio totale, la Wehrmacht allo sbando globale nella follia degli ultimi mesi di guerra, il grido rauco delle teste sparate al cielo, nella notte nera seghettata soltanto dai lampi dei cannoni agli ultimi fuochi. Quasi quarant’anni dopo tocca a me, in un poligono di tiro, all’estremo sud della Sardegna, a guidare un camion militare ACM 52 senza servosterzo e a quattro ruote motrici, a compilare fogli di marcia, a marciare, ad ascoltare i discorsi della montagna di quel pazzo di Bronzi, a sbirciare quel colonnello fottuto dai baffi incolti, ubriaco di vino che, assieme al maggiore Serao, sale sulla AR 76 verde militare scuro diretto al poligono, per intercettare carciofi. Carciofi! Dio santo, io sono qui che non posso nemmeno farmi una maledetta doccia, io sono qui a soffrire le pene psichiche dell’inferno, e a notte dormo poco, e mi struggo dal dolore per questa inanità, per questa inutilità spalmata dappertutto, in verticale e in orizzontale, e questo bastardo figlio di puttana di Siena o zone limitrofe va a carciofi? Che cazzo di gentaglia è questa? Io ho urlato “Lo giuro!”, quella mattina, ad Alberga, alla fine dell’addestramento, mentre molti altri, come da tradizione, urlavano “L’ho duro!”. Ci credevo davvero, povero idiota. Volevo fare la mia stretta parte meglio che potevo. Di notte sognavo combattimenti fantasma. Sognavo uno scopo. Una pattuglia di sardi ubriachi s’infiltrava a notte fonda nelle nostre baracche, lanciavano bottiglie di birra vuote contro le nostre brande, io le schivavo con la testa, nel sonno; nel sonno raccoglievo da terra un mitragliatore FAL e sparavo contro quei beduini bastardi, facendone secchi sei o sette, stringendo i denti per la rabbia e l’odio, tra urla atroci, tra potenti spruzzi di sangue alcolico. Sognavo la guerra sterminatrice contro gli indigeni, mentre la pizza consumata la sera prima nella pizzeria con forno elettrico di fronte alla caserma, e innaffiata da birra Ichnusa e un numero imprecisato di amari Averna, saettava a colpi di bolo insanguinato tra le pareti astiosamente contratte del mio esofago. Vent’anni dopo cominciai a sognare di essere richiamato, unico quarantenne in mezzo a un gruppo di disperati trentenni, in una camerata scura, seduto su una branda, capobranco di una serie sparsa di poveri cristi tutti più giovani di me, vestiti solo con magliette militari e mutandoni di lana, richiamati all’ordine per dodici, quindici, venti mesi (nessuno sapeva dirlo) per ignota destinazione, con ignoto incarico, in attesa di ordini da chissà chi. Il grigioverde è il colore concentrazionario dello schifo umano.
(Immagini da: Il grande Uno Rosso, di Samuel Fuller, 1980. Full metal jacket, di Stanley Kubrick, 1987. Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick, 1958.)
…Un no tondo e a oltranza, un no di sfida stanca alla stanchezza di una giovane vita messa alla prova da un umore cangiante verso il tono più scuro…
Un no sicuro quello del nostro scrittore, una convinta Ri-elaborazione, lucida, compatta nella parola.
L’Importanza del Senso, compiuto e lucido di una scrittura Maiuscola.
A oltranza Franz, ok, nel constatare quanto questo libro sia Vero.
grazie
Ottima farina, Junior: e il pane ancora meglio, sa di miele alla birra sarda con retrogusto grigioverde
fem
-Hai gli occhi velati dalla tristezza e i denti stretti a morsa da cane idrofobo. –
e il cuore gonfio.
Come mi piace…
[nm]
leggo Franz e continuo a leggere.
Ritorna alla mente la foto di mio nonno militare a far le guerre d’Africa, di uno zio morto al fronte, a Gorizia, mentre stava per tornare a casa per prendersi cura del fratello più piccolo, il nonno, rimasti ormai orfani entrambi. 19 anni, prima guerra mondiale, una foto dello zio Michele e una medaglia al valore e alla memoria ma a cosa serve a chi voleva un fratello vivo?
Il nonno in divisa con papà in braccio e anni dopo la foto di mio padre sorridente seduto su un cannone durante il servizio militare.
No io il militare non l’ho fatto, alla mia età le donne non si arruolavano, al massimo la crocerossina ma eravamo in tempo di pace e quindi neanche quella. Eppure mi sarebbe piaciuto pilotare un caccia dell’aeronautica ma “l’amor patrio” io l’ho dentro e porto il tricolore con orgoglio nonostante l’Italia sia un paese “sgangherato” con tante difficoltà ma che rimane sempre a galla.
Obbediamo sempre a delle regole, a dei comandi anche del cuore, papà avrebbe capito, certo lui conosce la guerra e non la augura a suo figlio ma la patria chiama e l’onta del disonore non deve macchiare il figlio. Acconsente ma prega che tu la guerra non debba mai conoscerla. Eppure provi quella del cuore, di mille contraddizioni, l’uomo contro il suo io e il desiderio di abbandonarsi al ricordo. Il padre, le origini, quando ti lascia ti senti un albero a cui hanno tagliato quelle radici e deve trovare qualcosa di nuovo a cui aggrapparsi, nuova terra, nuova linfa vitale. La guerra è in te e ti chiedi se lo hai fatto felice, se lui sarebbe fiero di quello che sei oggi.
Hai vinto la battaglia Franz, un padre ama un figlio sempre, in lui vede le sue speranze deluse concretizzarsi, forse non ha le parole per dirlo e rimanda a domani e quando le trova non ha più la voce, fantasma bianco che guida i tuoi passi e i tuoi pensieri, ti suggerisce i ricordi perché tu capisca e senta il suo caldo abbraccio oltre la consistenza di questo corpo che imprigiona i sentimenti. perchè fra voi sia pace, pace che dia serenità e coraggio di vivere al figlio, quella carezza che ora si pente di non averti dato.
Continua Franz e se hai bisogno di chiedere ricordi del passato chiudi gli occhi e chiedi a lui, ti aiuterà.
Ora ti lascio, vorrei scrivere ancora, avrei bisogni di fiumi di inchiostro ma l’opera è tua io sono solo una lettrice e ti ringrazio delle porte della mia mente che apri. E maledico il tempo che non ho.
Cominci a vedere l’isola Franz?
Un abbraccio
Stella
personalmente ho vissuto quell’anno,sempre come autista,con lo spirito santo del Tondelli di Pao Pao(che pure ancora non conoscevo).Ritengo che senza quell’occasione coercittiva di svago molti passeranno tutta la vita nel proprio paesello,perdendo senz’altro qualcosa.Ma erano altri tempi,suppongo.L’unico serio rischio d’impazzire l’ho corso quando il primo giorno,non ancora implotonato,venni sorteggiato per la corvè ai cessi di 50 persone che mediamente venivano da 2 giorni di viaggio(eravamo a Taranto).Si rovesciò il secchio d’acqua e per dieci lunghissimi secondi secondi osai pensare che forse era il caso di fare una cagnara che non avrei potuto dimenticare facilmente,poi come al solito lasciai perdere.E tutto filò davvero molto liscio.Ovviamente la guerra era un’altra cosa(e per capirlo mi era bastato un viaggio in treno con un reduce della Somalia,completamente andato,straffatto,un invasato che portava negli occhi il segno di un orrore che è sempre meglio avere solo intravisto)
p.s. non ci sono solo selvaggi alcolisti in “quest’isola dalla tristezza demoniaca”,ovviamente.O perlomeno ci sono con la stessa incidenza percentuale con cui si possono scovare in ogni altro posto
grazie Franz!!!
effeffe
Ho conosciuto un uomo che un giorno mi ha scritto:”La guerra mi piaceva, che Iddio mi perdoni”. Era un uomo pacifico che, quand’è andato in pensione, s’annoiava molto, e ha preferito morire di noia anzichè drogarsi.
chissà che effetto farebbe all’orgoglio dei marmittoni trovarsi a scansar le pallottole di donne-soldato! pura curiosità.
Non era “go patriots to arms ” ?
No, ricordavo male, sono passati 25 anni.
La fantasia dei popoli che è giunta fino a noi
non viene dalle stelle…
alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena
potete stare a galla.
E non è colpa mia se esistono carnefici
se esiste l’imbecillità
se le panchine sono piene di gente che sta male.
Up patriots to arms, Engagez-Vous
la musica contemporanea, mi butta giù.
L’ayatollah Khomeini per molti è santità
abbocchi sempre all’amo
le barricate in piazza le fai per conto della borghesia
che crea falsi miti di progresso
Chi vi credete che noi siam, per i capelli che portiam,
noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre.
Up ecc…
L’Impero della musica è giunto fino a noi
carico di menzogne
mandiamoli in pensione i direttori artistici
gli addetti alla cultura…
e non è colpa mia se esistono spettacoli
neon fumi e raggi laser
se le pedane sono piene
di scemi che si muovono.
Testi di Franco Battiato
un giorno anche tu, deputato centrista, farai il militare. e li si, che ti divertirai. sai quanti cinema porno scontati, a pordenone?
A Capo Teulada andai nell’estate del 1965 come sergente allievo ufficiale di complemento (AUC). Ho ricordi molto belli di quei giorni assolati. La spiaggia era bianchissima e il mare limpido, dove facevamo il bagno dimenticandoci della dura disciplina militare.
Tanto era il piacere della condivisione di quella spensieratezza che, trovandomi come responabile di giornata, una domenica chiamai a raccolta i “puniti” e, a piedi, li condussi al mare, a fare il bagno con gli altri.
Quando la cosa si seppe, ebbi una ramanzina dai superiori, ma non mi piegai alle loro ragioni. Ciò non pregiudicò la mia nomina a sottotenente (fui assegnato con quel grado alla Divisione Centauro di Bellinzago Novarese, essendo carrista), ma al momento del congedo sulla mia scheda valutativa fu scritto che non avevo attitudini al comando. Nessuno dei papaveri era stato in grado di capire il mio gesto. Lo avevano capito quei soldati portati al mare.
Quando nel marzo del 1966, di mattino molto presto, mi accingevo come congedante, tutto solo, a varcare per sempre il grande cancello della Caserma di Bellinzago, sentìì l’urlo del capoguardia: “Fuori la guardia”. Non credetti ai miei occhi quando, al mio passaggio, la guardia mi presentò le armi. E’ soltanto, unicamente questo, il mio vero congedo, la mia scheda valutativa. I soldati mi avevano amato, ed io tornavo a casa sicuro di aver fatto bene il mio dovere. E felice.
incredibile! per kraspenahr capoteulada inferno in terra, se fosse un film apokapype now, orizzonti di gloria, full metal jakket, appunto. per dott. dimonaco un misto di laguna blu (senza femmine) e i primi spot del mulino bianco (dottore che marca di biscotti nel sessantacinque? dica dica.) ci vedo anche mediterraneo di slaviatores, il mare azzurro, gli italiani col sorriso durban’s o, ovvio, pasta del capitano.
e italiani bravaggente di de santis?
e portare al mare i puniti? questo è da m.a.s.h.