Percorsi

di Antonio Sparzani

capo indiano

Sono stato negli Stati Uniti nell’anno accademico 1971-72. Durante l’estate del ‘72 ho viaggiato in macchina da costa a costa, da New York a Santa Barbara, uno dei campus dell’Università della California. Viaggiavo sfruttando ospitalità organizzate di famiglie più o meno benpensanti degli States, oltre a campeggi e occasionali motels. Cercavo di fare il turista intelligente e partecipe, però facevo il turista. Volevo vedere gli spazi sconfinati dell’ovest, le montagne e le praterie. Volevo anche vedere con i miei occhi gli ‘indiani’, quelli della mia adolescenza dei “film degli indiani” e quelli che avevo poi imparato almeno vagamente a rispettare e a rivalutare. La militanza di allora fortunatamente insegnava anche questo fatto elementare, che gli oppressi, anche se non sono più buoni degli altri, vanno rispettati e, forse più degli altri, guardati come persone.

 

Un giorno nel South Dakota, uno stato di praterie e campi di grano con dei trattori – negli sterminati campi – grandi come montagne, ci fermammo in un caffé di un villaggio chiaramente popolato più da nativi americani – in quel luogo Oglala Sioux – che da bianchi wasp (wasp è il rude ma assai comune acronimo usato per indicare i white Anglo-Saxon protestants). Entrai nel caffé, con l’ansia di avere un contatto ‘vero’ con un esemplare in carne ed ossa di quella mitica categoria di persone per le quali non abbiamo neanche un nome vero. Perché certo indiani, da sola, non è una designazione tanto appropriata: era usata inizialmente da chi pensava di essere arrivato nelle Indie, un posto dall’altra parte del mondo. Siamo costretti a chiamarli nativi americani, comprendendo così tutte le assai differenti popolazioni che abitavano tutto il continente americano prima dell’arrivo dell’uomo bianco, dalla Patagonia alla Baia di Baffin. Evidentemente sarebbe giusto chiamarli con il nome del loro popolo, Sioux, Cree, Seri, Kwakiutls, ecc. 

Non sapevo quasi niente di loro, se non appunto il folklore che si raccontava allora qui da noi. Avevo solo il desiderio di un contatto, che ebbi quasi subito, con un anziano signore, che parlava un ottimo inglese e che voleva celebrare con me il rito dell’accudimento del turista-che-non-sa. E questo fece. Io, come da copione,  ordinai due birre, che giunsero –  enormi. E poi cominciammo a chiacchierare e a bere, lentamente. Chiacchierare vuol dire che io facevo qualche domanda e lui raccontava di sé, della sua vita attuale, senza grandi luci e con lontani ricordi di mitici racconti. Racconti di racconti, storie di storie di altri.

Ho però ancora vivido nella memoria un momento autentico di quel colloquio, e fu quando entrò nel caffé un’anziana donna, evidentemente della stessa etnia del mio compagno di birra: ci fu uno sguardo tra loro due completamente diverso, non c’era più la doverosa attenzione verso il turista che paga da bere e vuol poi poter raccontare di aver parlato con un vero indiano, ci fu uno sguardo nel quale io ero completamente dimenticato e inesistente. 

E ancor più dello sguardo ci fu il gesto.

Un gesto che vidi svolgersi davanti ai miei occhi, come in un film al rallentatore, non un gesto, ma il gesto di saluto tra due Oglala che si riconoscono e che sanciscono in pubblico un legame indubitabile, e che io, da spettatore lontanissimo, tuttavia ri-conobbi, confuso nei miei ricordi, come risalente chissà a quali epoche; l’uomo alzò lentamente il braccio destro tenendolo teso, palmo della mano aperto e rivolto in avanti, facendo ruotare braccio e palmo insieme davanti a sé e alzandoli infine, ma non completamente, solo fino ad una direzione obliqua, nella quale lo sguardo avrebbe potuto mirare, mentre le labbra diventavano un sorriso appena accennato, quel sorriso da immortale che ancora ammiriamo increduli nelle statue delle antiche kórai greche. La donna ricambiò il gesto, con uguale semplice solennità e tutto, esternamente, finì lì.

Io, metà imbarazzato metà timido e ignaro di quel che andava fatto, feci per congedarmi, prima di aver finito la birra. Ma questo no che non andava, assolutamente no, proprio no. Così mi fece capire, o piuttosto mi disse con chiarezza l’uomo, con la voce gentile ma ferma che aveva ormai assunto, forse anche in virtù di quel saluto, una vibrazione di autenticità e di autorità che prima era ben mascherata, e che non consentiva dissenso. Se bevi una birra con il tuo amico che parla con te, la birra va finita, senza discutere. Con calma.

17 COMMENTS

  1. Non so se ti può interessare ma dai un’occhiata qui
    http://www.soconasincomindios.it/tepee0.htm
    fanno una rivista che pare pubblichi buona documentazione ma non è facilmente reperibile
    una delle fondatrici Sandra Busatta ha scritto diversi libri sui Nativi Americani tra cui : Cavallo pazzo è morto edizioni Senzapatria ,nei lontani anni 80 , se la memoria non mi tradisce.

  2. e adesso che ho letto, ci sono anch’io lì con voi, ma solo riflessa sul vetro dei boccali di birra, per non disturbare l’eco di quel gesto

    bellissima memoria, grazie

    fem

  3. Antonio, questo pezzo trasmette molto, credimi, e ti ringrazio!
    ho sempre amato gli indiani, e sempre li amerò.

  4. “Se bevi una birra con il tuo amico che parla con te, la birra va finita, senza discutere. Con calma.”

    Norma di Galateo Etilico Internazionale. Interculturale. Interplanetaria. Dall’Osteria dell’Orologio di Pinerolo alla capanna nelle foresta amazzonica, dove se non bevi tutto l’intruglio, di dubbi ingredienti, nella mezza zucca in cui hanno sbrodolato le labbra tutti i componenti della tribù, ti capitano cose (anche peggiori).

  5. leggetevi il bellissimo e imprescindibile reportage sugli indiani d’america del compianto Sandro Onofri, “Vite di riserva”, credo ristampato da Fandango.

  6. Grazie della segnalazione, Altiero, Fandango 2006 e grazie a Nadia per l’indicazione di Tepee.
    Grazie del commento Miss Moneypenny, bel nick. Tu bevi birra a Pinerolo?

  7. “Tu bevi birra a Pinerolo?”

    My God, no, no, al massimo il tè delle cinque con i muffins.

    Piuttosto, il capo indiano lassù chi sarebbe? Una compagna d’università con cui dividevo la casa, teneva sopra il letto un manifesto di un metro per un metro uguale uguale. Ai tempi in cui il film Soldato Blu e Alce Nero parla di Adelphi sdognarono i nativi americani.
    Il suo faccione vegliava sopra i nostri innocenti sonni di fanciulle e nella penombra a fissarlo a lungo pareva roteare gli occhi e piegare le le labbra in un ghigno munaccioso. L’amica portava treccine legate con stringhe di cuoio e pian piano prese ad assomigliarli in modo preoccupante. Fu un vero sollievo quando entrambi cambiarono casa.

  8. cara Moneypenny, ho preso la foto dalla copertina di un libro assai informativo sui nativi americani che si chiama The Indian heritage of America di Alvin M. Josephy Jr. (Penguin 1968), ma della copertina dice solo che la foto è stata scattata da William S. Curtis. Non so di più. Sul tè (verde) con contorni e dintorni non potrei essere più d’accordo.

  9. Solmi mi sa che lei si confonde. Io non sono mai stata tra gli indios dell’Amazzonia e nemmeno tra i Pellirossa!! nonostante sia cresciuta con il mito degli Indiani perché mio babbo al posto della Bibbia c’aveva Seppellite il mio cuore a Wounded Knee.

    Io tutt’al più sono stata a Parma, dove chiesi una SPUMA BIONDA e mi rifilarono una BIRRA. A me. Che sono astemia. La spuma bionda si fa a Pracchia, con l’Acqua Silva, lo sanno anche gli opossum.

  10. “Chiacchierare vuol dire che io facevo qualche domanda e lui raccontava di sé, della sua vita attuale, senza grandi luci e con lontani ricordi di mitici racconti. Racconti di racconti, storie di storie di altri.”

    Quanto mi piacerebbe avere ascoltato questi mitici racconti, racconti di racconti, storie di storie di altri, di un indiano del South Dakota nel 1971.

  11. credo che difficilmente riuscirò a dimenticare le sensazioni che ho provato a Wounded Knee, con il vento che mi soffiava alle spalle… difficilmente cancellerò dalla mia mente il ricordo di quella danza senza fine sotto un sole cocente di luglio. e l’accoglienza unica…il loro desiderio di raccontarsi per non dimenticare la loro storia. i riti e le feste. Troppo romantico scritto così, ma c’è stato qualcosa di puro e indescrivibile in quel viaggio indimenticabile.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato anche due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia, pubblicato presso Mimesis. Ha curato anche il carteggio tra W. Pauli e Carl Gustav Jung, pubblicato da Moretti & Vitali nel 2016. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.