Etty Hillesum. Lettere per imparare ad imparare
di Nadia Agustoni
Ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante.
(1) Etty Hillesum ; “Lettera a due sorelle dell’Aja” ( Amsterdam, dicembre 1942).
Quando l’editore De Haan pubblicò nel 1981 il Diario di Etty Hillesum, lo avevano letto in molti. Il Diario si era salvato perché qualcuno era stato fedele al mandato non scritto di conservare pagine che sono una delle testimonianze più autentiche sugli avvenimenti di quegli anni di guerra e di deportazioni.(2)
Senza riparo
Non mi soffermerò in questo scritto sul Diario, rimandando a un mio precedente testo su Hillesum uscito nella rivista “A” nel 1999. Rileggerò invece alcune delle lettere che ci sono pervenute, pubblicate in Italia da Adelphi nel 1990, con il titolo Lettere 1942 – 1943. (3)
Mentre scrivo il muro delle ideologie sembra rafforzare la sua presa sul mondo. Il caos che in parte occulta e in parte rivela i meccanismi di manipolazione della mente pare farsi più denso. E nel distacco dalla parola posso solo trovare una parola che aiuti la mia a dirsi. A mia volta conto su questa reciprocità ideale e forse etica con Hillesum per restituire ciò che prendo e per tentare quell’apprendimento di significato che è senza resa di fronte alla violenza.
Etty Hillesum affrontò vita e scrittura senza riparo. Intese molto presto che non c’era salvezza, e che un’idea di salvezza era un buio più profondo, un’illusione che non sottraeva al dominio degli eventi più tragici, né intaccava il potere di una realtà che produceva dolore, sofferenza, sterminio. La realtà in quel frangente era il destino che i più forti avevano decretato per il popolo ebraico e per altri popoli, nonché per avversari politici e altri gruppi definiti come “inferiori”. La realtà era la sopravvivenza nel campo di Westerbork dove un’umanità scossa si parlava non sapendo forse fino in fondo che cosa in quel parlare era necessità o solo frase, e cosa era resistenza prima ancora che pietas. Testimoni di se stessi, senza certezza di uno sguardo amico che convalidasse le loro vite, gli internati del campo di Westerbork sono rimasti nelle lettere di Etty Hillesum come figure irrevocabili o come umanità che non può spiegarsi.
E questo ce li avvicina. Non si può fare a meno di leggere la minima persona e il minimo gesto trascritto da Etty, come per riempirsi di una consistenza che lascia un sapore di cose dure e agre, ma inestinguibili: cose che ci disarmano nella stessa fame di domanda e risposta.
Ora sono seduta sulla sponda di un canale silenzioso, le gambe penzolanti dal muro di pietra, e mi chiedo se il mio cuore non diventerà così sfinito e consunto da non poter più volare liberamente come un uccello. (4)
L’ Europa è ridotta a un immenso campo di concentramento quando il 2 dicembre 1942 Etty Hillesum scrive la sua lettera a due sorelle dell’Aja. E’ una delle due lettere che verranno pubblicate dalla resistenza olandese. L’espediente della lettera è il modo scelto per parlare e far parlare il “campo” , quell’agglomerato di baracche e fango nel Drenthe, regione dimenticata, luogo non-luogo da sempre, di cui fino a poco tempo prima la stessa Hillesum confessava di aver saputo ben poco. In quello spazio esausto, in cui decenni prima si era smarrito e trovato quel Vincent Van Gogh che lì scoprì la propria vocazione pittorica, vi è un filo che unisce e separa in modo netto: il filo spinato che chiude il campo e lo delimita. Il margine rivela sempre ciò che sta da un lato e dall’altro, e lo rivela da entrambi i lati, mostrando che chi chiude è chiuso, che ciò che è limite qui è limite anche dall’altra parte. “Noi dietro il filo spinato!” dice un vecchio del campo, “sono piuttosto loro a vivere dietro il filo spinato” (5) e se questo dietro il filo spinato è chiaro quando si parla come in questo caso di olandesi ed ebrei (i portatori di cittadinanza e gli espulsi dalla cittadinanza), più arduo è vedere i fili che attraversano il campo stesso, le persone una ad una, le coscienze e gli smarrimenti di ognuno: “ma anche nel campo stesso, intorno e fra le baracche, si snodano questi fili del ventesimo secolo. […]. Di tanto in tanto si incontrano persone con graffi sul viso e sulle mani”. (6) L’espulsione dalla cittadinanza è il preludio all’espulsione dall’umanità. A questa cancellazione la Hillesum fa una resistenza di tipo nuovo. Si alza sopra il coro delle lamentazioni e pare suggerire, e in verità afferma, che i duri fatti e gli eventi che loro stanno affrontando e affronteranno con la deportazione non vanno abbandonati al proprio destino, ma ospitati nella coscienza profonda perché divengano un crescere e un comprendere forti. Solo in questo modo potrà accadere che la loro generazione sia “una generazione vitale” (7), solo questo darà significato alla sofferenza , solo una coscienza attenta restituirà la vita tolta.
Lo sguardo di Etty Hillesum è solitudine. C’è questa solitudine di vedere e di non avere che il disarmarsi davanti all’impossibilità. Dovrei usare parole come orrore, abominio, aberrazione, ma non è il carico delle parole a fare una tragedia o a farcela comprendere, lo è invece il modo in cui le trascriviamo, il modo in cui ci impegniamo con loro. Impegnarsi ha nel suo etimo il “pegno”, il dare in pegno qualcosa, una parte di noi dà di sé qualcosa che si fa riscatto. Il riscatto allora è ciò che rendiamo a tutti perché ognuno possa farne un personalissimo percorso che sia nello stesso tempo un cammino di vicinanza. Anche le parole chiedono un riscatto perché sono un passaggio altrove, un oltre.
Il campo di Westerbork fu creato nel 1939 dal Dipartimento di Giustizia olandese per “ospitare” i profughi che arrivavano dalla Germania nazista. Uomini e donne dalla vita spersa, sperduti anche nella voce, inascoltati dal mondo, invisibili perché resi afoni nel loro spiegarsi, mai bene accetto dal perbenismo che ogni epoca usa per rendersi cieca. In verità quella società ha visto completamente quelli che sottrae allo sguardo, ha però deciso di non domandarsi che fine faranno quei profughi e cos’è la loro fuga e il loro trovarsi fuori posto così visibile da dover essere occultato.
Le piccole verità
Non è rimasta molta brughiera dentro al recinto di filo spinato, le baracche diventano sempre più numerose. Ne è rimasto un pezzetto in un estremo angolo del campo, ed è lì che sono seduta ora, al sole, sotto uno splendido cielo azzurro e fra alcuni bassi cespugli. (8)
Le piccole verità spesso partono dai piccoli dati sensibili che il corpo può captare. Le situazioni più estreme possono farci scoprire una semplicità che, nella complessità degli avvenimenti, potremmo ritenere di inseguire vanamente. La parola, però, coglie sempre la vita e la ricrea. E’ in questi sprazzi delle lettere che Etty Hillesum si spoglia e mette a nudo la carne dolente con il mostrare la semplicità delle cose, quel diventare/divenire comunque dell’esistenza. L’insensatezza che qualcuno potrebbe avvertire in questo comunque che scrivo in corsivo, si fa angoscia trattenuta in un altro paragrafo della stessa lettera a Han Wegerif (di cui sopra) scritta nel giugno del 1943 a poche settimane dalla deportazione e mentre una deportazione è in atto: “Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno là, così principeschi, così pacifici, su quella cassa sono sedute a chiacchierare due vecchiette […] sotto i nostri occhi accade una strage, è tutto così incomprensibile.” (9)
L’angoscia è anche nella pacatezza del racconto, fatto sempre ad Han Wegerif in un’altra lettera, circa alcune delle mansioni svolte da Hillesum e da altri nel campo di Westerbork. Nessun metro può rendere l’ampiezza dello strazio del dover vestire bambini, aiutare madri, vecchi e consolare ragazzi messi da un momento all’altro di fronte alla realtà della deportazione col suo carico di buio: “sappiamo bene che abbandoniamo le persone indifese e malate del campo alla fame, al caldo e al freddo, alla vulnerabilità e alla distruzione. […]. Che avviene qui, che misteri sono questi, in quale meccanismo funesto siamo impigliati? ” (10)
Intere società civili hanno ritenuto compatibile un certo modo di trattare alcune particolari persone, spinto fino alla reclusione, alla deportazione e all’imposizione di un marchio, con i loro principi di moralità. Fino a che l’ingiustizia tocca altri/e , non ne siamo se non in pochi/e , scossi. E’ più che un modo di cancellare: è il modo in cui i privilegiati fondano il loro privilegio. Anche lo sdegno morale sembra troppo, come una concessione, fatta pur sempre a degli inferiori.
Indescrivibili
C’è un libro, Il Libro di Mirdad, (11) in cui la spiritualità sembra un cadere verticale, essere toccati nel vivo dall’indescrivibilità di Dio, o se preferiamo del divino, il che significa riconoscere che quell’indescrivibilità è anche nostra.
“Quando Dio l’Indescrivibile espresse voi, espresse Se Stesso in voi. Quindi anche voi siete indescrivibili.” (12) Dunque è la nostra indescrivibilità il perno delle nostre stesse domande. Ed è sempre quest’ultima che porta con sé l’ansia di categorizzazioni, quel voler definire gli altri che è la chiave per la loro collocazione e la loro governabilità. Etty Hillesum quando si domanda in cosa tutti loro siano impigliati si porta dietro la nostra stessa richiesta di risposta, che arriva, ma solo come non risposta. Nel fondo di questa non risposta c’è la nostra umanità, tutto il nostro essere allo sbaraglio, esposti non tanto alla vita o alla morte, ma ai nostri simili/dissimili. La nostra unicità indescrivibile è la nostra universalità. Parlarne è ricordare che Etty Hillesum è parte integrante della tradizione umanista con cui, ci piaccia o no, tutti abbiamo un debito.
L’ascolto è l’altra grande questione che l’indescrivibilità dell’umano porta con sé. Imparare ad ascoltare è educarsi non soltanto a una prassi di civiltà, ma in senso profondo è esprimere la nostra responsabilità verso ognuno. L’ascolto autentico uccide la viltà, impedisce che le nostre scorie di pregiudizio si accumulino, ci lascia protesi e attenti verso il chi? Il chi sei con punto di domanda dell’altro/a.
Imparare ad imparare
Il Diario e poi Le lettere della Hillesum (13) sono testi per apprendere la concretezza di una condizione umana altrimenti illeggibile. Possiamo recepirli come testimonianza singolare e/o come un estratto di storia che si fa plurale. Se nelle scuole, allievi di ogni classe sociale, genere e provenienza, leggessero questi due libri, potremmo tentare di spiegare loro che l’inspiegabile ha evidenze che si possono cogliere? Che il non evitare certe tragedie è spesso voluto? Che un’educazione normativa, così come quella alla mera tolleranza creano “l’inferiore”? Che solo un imparare insieme ad imparare di nuovo può toglierci dalle secche dell’odio, odio che in ultima analisi è incapacità?
Lasciando il punto di domanda tengo aperta la porta a una critica propositiva che in Italia in particolare sui temi del razzismo ha visto un grande lavoro da parte dell’antropologa Paola Tabet e di alcune altre persone che da molti anni si adoperano nella scuola e tra i ragazzi per smuovere i pregiudizi. Pregiudizi e disgusto sono spesso associati. Ci sono brani del Diario di Etty Hillesum in cui è evidentissima la sopraffazione quotidiana che gli ebrei subivano sotto l’occupazione nazista.
Il disgusto per la loro condizione di reietti portava poi a giustificare le deportazioni.
Il disgusto si impara e , fatto fondamentale per un discorso sulla responsabilità anche individuale, lo si insegna, di proposito o senza consapevolezza precisa. Il disgusto inoltre si produce per condizionamento sociale. (14)
Molti vorrebbero rimuovere quegli anni. Etty Hillesum scriveva prima della fine:
[…] ci vorrà un bel pezzo di vita per digerire ogni cosa. (15)
Ammesso si possa digerire un genocidio, ci rimangono, sospese e vive, le domande e le non risposte con cui conviviamo. Ci forzano a qualcosa, ma è il loro interrogarci che ci chiama a un compito non facile: essere nuovi ogni giorno. Nuovi vuol dire meno incapaci.
Note
* Questo testo appare in Nazione Indiana modificato rispetto all’originale in A rivista n. 329
* * Rimando anche al mio precedente saggio su Etty Hillesum apparso nella rivista “A” ottobre 1999, e on line http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/257/40.htm e poi sul sito www.ellexelle.com.
1) Etty Hillesum; Lettere 1942-1943 Edizione Gli Adelphi ( 2001) pag. 45
2) Preferisco in questo testo soffermarmi sulle lettere avendo già precedentemente scritto del Diario
3) D’ora in poi indicherò con ibidem le citazioni da Le lettere 1942-1943 di Etty Hillesum.
4) Ibidem; pag. 19; nota non datata, Amsterdam, forse luglio 1942.
5) Ibidem; pag. 39-40; Lettera a due sorelle dell’Aja, dicembre 1942.
6) Ibidem; pag. 40; Lettera a due sorelle dell’Aja , dicembre 1942.
7) Ibidem; pag. 45 ; Lettera a due sorelle dell’Aja, 1942 .
8) Ibidem; pag. 64; Lettera a Han Wegerif , 8 giugno 1943.
9) Id. pag. 65 .
10) Id. pag. 65.
11) Mikhail Naimy ; Il Libro di Mirdad; Edizioni Mediterranee ( 1992).
12) Il Libro di Mirdad; pag. 100.
13) Etty Hillesum; Diario1941-1943 ; ed. Adelphi ( 1981).
14)Paola Tabet e Silvana Di Bella; Io non sono razzista ma… Strumenti per disimparare il razzismo; pag. 27 ed: Anicia (1998).
15) Ibidem; pag. 31 ; Lettera a Han Wegerif, 29 novembre 1942.
Complimenti Nadia, bellissimo pezzo. Etty Hillesum me l’aveva fatta conoscere Emanuele Trevi in “Musica distante”, e da allora mi ero appassionato alla sua storia e alla sua scrittura.
Letto con grande piacere e interesse, complimenti. Lo giro subito a due persone alle quali so che potrebbe garbare molto.
Un pezzo stupendo su una persona stupenda, grazie, Giulia
Davvero commovente, Nadia, grazie, le coincidenze nella vita sono buffe, non avevo mai sentito parlare di Etty Hillesum, quando due settimane fa me l’ha fatta conoscere una mia amica, leggendomi anche qualcosa di lei, e ora ecco qua. Meraviglia.
Davvero interessante quello che scrivi su questa scrittric così interessante e consì denza, Costanza
Vi ringrazio tutti. Etty Hillesum mi ha impegnato molto fin da quando trovai il suo Diario. Sto cercando fonti e testimonianza per completare la ricerca su di lei e spero proprio di farcela. un saluto
tutto il nostro essere allo sbaraglio, esposti non tanto alla vita o alla morte, ma ai nostri simili/dissimili.
cara nadia
eccomi qui dopo una lunga notte. un testo così, letto dopo una notte insonne è ancora più vero e intenso.
cose di questo tipo non le leggeremo mai su repubblica o sul corriere.
i veri poeti, i veri studiosi di questo tempo
non sono i pagliacci che ingombrano la scena.
un abbraccio insonne…
Cara Nadia ti ringrazio di cuore, mi è molto piaciuto anche il tuo articolo sulla gloriosa A Rivista Anarchica, che ai tempi d’oro, o di piombo, dipende, vendevo di fronte al mio liceo, insidiata a male parole da qualche “compagno” stalinista che si premurava a volte di strappare le copie in mille pezzi, strattonandomi non gentilemente… sono particolarmente felice della sua sopravvivenza.
Etty è tutta lì, qui con noi, sempre “il cuore pulsante della baracca”, nella sua capacità di trasformare dentro è fuori di se il male in bene, la tenebra in luce, nella cartolina che lancia sui binari dal vagone piombato che da Westerbork la porta ad Auschwitz con scritto:
“Abbiamo lasciato il campo cantando”
Mio nonno Giorgio, non ebreo, deportato per motivi politici, che ebbe lo stesso destino di Etty, ne lasciò scivolare una diretta a mio padre, che aveva fino ad allora rigidamente obbligato a fare Legge per tradizione familiare, con scritto:
“Fai pure Filosofia”
A te e a questi loro ultimi luminosi pensieri di vita davanti alla morte, dedico il canto finale dell’opera Brundibar composta da Hans Krasa nel campo di Theresienstadt, i bambini che la interpretarono furono anche loro tutti deportati ad Auschwitz, mi piace pensare che avrebbe potuto essere il coro di Etty.
Grazie.
Grazie Nadia, da una brughiera nordica, e un augurio per le sue ricerche.
Molto bello questo pezzo. Di Etty Hillesum conosco solo le Lettere, ma mi è venuto desiderio di recuperare anche il Diario.
Nadia, mi piace quando parli di “margine”, “limite” divisorio, luogo della scelta e insieme dell’esclusione, ne dai una definizione calzante. Paradossalmente è proprio lì che si colloca l’unica possibile uguaglianza umana.