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194: dall’interno

di Francesca Matteoni

Per le donne l’aborto è soprattutto silenzio.

mare di hrissi

Leggendo in questi giorni i vari dibattiti nati nella rete attorno alla legge 194, non ho potuto fare a meno di rilevare tra idee, teorie, condanne e vagheggiamenti disparati la mancanza di un resoconto diretto su cosa è l’aborto dall’interno. Mi ero detta per questo stesso taboo implicito di tacere su questo argomento, di astenermi da questo tipo di discorso così esposto alla forza macellante sia di chi lancia anatemi, sia di chi sfrutta anche quest’occasione per far sfoggio di scienza. Ma poi mi tormentano gli spettri: il corpo della donna, il corpo del feto, il corpo indesiderato della libertà di scelta, il corpo della parola doppiamente diretto contro se stessi e il mondo. Quindi tanto vale prendere coraggio – come donna che ha qualcosa in merito da dire. In alcuni commenti sul post della 194 su Nazione Indiana leggevo della differenza tra uomini e donne nel rapportarsi al problema: i primi teorizzano, dove le seconde argomentano, suggeriva una donna firmandosi Alcor. È vero, la donna non riesce a staccarsi dal concreto dell’esperienza, per motivi che spesso più che contingenti alla sua natura hanno una matrice storico-culturale. Non è facile prima di tutto teorizzare su qualcosa che si vive nella carne, la quale non è esattamente una proprietà: si può possedere ciò che ci sfugge e ci tradisce continuamente come il corpo? Stabilire un possesso diventa ancora più difficile parlando di donne – creature che per secoli, fermandoci al solo Occidente, sono state determinate quasi esclusivamente dalle caratteristiche e potenzialità del loro corpo, posto quale simbolo esclusivo del valore di una donna nella comunità. L’essere femminile, le superfici lisce, curvilinee, chiuse, che nascondono il portento della vita e della morte. Noi non siamo abituate a pensare “fuori da noi stesse”.

Il cammino per l’uguaglianza non passa solo per le vie legali, ma per la strada assai più tortuosa della propria identità.

Leggevo poco tempo fa un misconosciuto mito in una delle Genesi Apocrife, secondo il quale tra Lilith (la donna demoniaca) ed Eva, era esistita una prima Eva, del tutto simile alla progenitrice che conosciamo. Sfortunatamente Adamo assisté alla sua creazione. E Dio la creò seguendo l’ordine del corpo, assemblando muscolatura, organi, vasi sanguigni, ossame. Adamo fu disgustato dalla scoperta delle interiora, come dal presentimento dei suoi propri limiti e non riuscì ad accettarla come compagna. Così la prima Eva se ne andò dal Paradiso Terrestre – non morì, non si trasformò in spirito, semplicemente scomparve nel nulla. Questa storia mi è sembrata celare un altro significato dietro l’orrore della vista: il riconoscimento di un simile, un’uguaglianza. Ad esclusione degli organi riproduttivi la donna mostrava il solito meccanismo dell’uomo, con le stesse possibilità. Rifiutandola, è questa uguaglianza identitaria che andava perduta, almeno finché qualcuno, magari un’altra donna, non fosse andata a ricercare quella silenziosa antenata. Tolta la prima Eva, resta la madre, il mistero del grembo, in cui sommergere l’altro, viziando la sua e la propria percezione dei diritti, delle emozioni, delle aspettative di un soggetto. Nel passato la donna è stata per lo più solo questo, l’emblema della maternità o nel peggiore dei casi l’antimadre, lo stereotipo della strega, la sua assoluta negazione, segnando la via personale e sociale non solo di un pensiero, ma di un intero mondo emotivo. Se conoscenza e consapevolezza ci fanno sperare in una libertà da un ruolo consolidato nelle epoche, i nostri sentimenti più intimi ci àncorano a colpe, sensi di inadeguatezza, responsabilità non pienamente risolte.

Nel linguaggio di una donna il feto è già “questo bambino” anche se ha deciso di abortire. Oppure non viene nominata quella vita in potenza per evitare altra pena, perché non tutte hanno la forza o l’incoscienza di registrare lucidamente ciò che stanno facendo. L’aborto è un trauma incondivisibile e feroce. Non parliamo di “una cosa” che ci viene impiantata dentro, come una bambola in una valigia, ma di qualcosa che cresce con noi, che trasforma il nostro corpo e poi se ne stacca per uscire nel mondo. Un bravo compagno può stare accanto a chi decida di abortire, ma non può arrogarsi nessun altro diritto, nella stessa misura in cui la sua perdita non sarà mai equiparabile a quella della donna. Non esiste nessuno, se non qualcuno completamente pazzo o ignorante, che possa dirsi a favore dell’aborto in sé come atto, così come si è favorevoli all’abbraccio dei propri cari quale manifestazione d’affetto. Questa cosa proprio non ha senso – sarebbe come dire sono a favore del suicidio. Gli abortisti non sono dei fanatici promulgatori della morte, ma individui favorevoli alla libertà di una scelta, che tentano di comprenderla, uomini o altre donne che siano, in nome di rispetto e responsabilità. Ho letto, nelle varie discussioni, tante parole, ma non mi pare di aver trovato “compassione”. Compassione intesa quale tentativo di sentire ciò che l’altro sperimenta o almeno provarci, senza l’aspettativa di un tornaconto, trovando perfino la decenza ed il pudore di fermarsi dove non si riesce a capire o immaginare. È questo credo, che come esseri umani dovremmo sforzarci di fare – a prescindere dalla legge. Ricordarci che non è il proliferare di bambini come in un formicaio a far crescere un paese e una coscienza, ma il modo di rapportarsi a loro, che passa prima di tutto per come ci rapportiamo a noi stessi. L’amore che diamo è la misura di quello che siamo. Se non si adempie all’essere, con tutto il dolore, il sacrificio, la severità che comporta, come sarà la qualità del nostro amore?

È nell’eredità di domande simili, più che negli accadimenti del corpo, che appare, come un dovere ed un fastidio, il sintomo dell’esistenza umana. E non esiste una risposta univoca, imponibile.

La nostra storia moderna ci insegna che anche in campo medico era difficile distinguere tra la materia fetale e la materia materna. In Europa come in alcune culture primitive contemporanee, il feto non solo era nutrito dalla madre, ma la sua sete aveva tratti inquietanti, vampiristici. Non c’era nulla di più indifeso e al tempo stesso di più difficile da comprendere come la vita in divenire dentro un’altra vita – i due corpi diventavano quasi lo stesso: meraviglioso e spaventoso. I miti di demoni bambini, o addirittura demoni “feto”, che tornano a tormentare la madre e la famiglia che li ha esclusi, sono sempre proliferati. Le madri eschimesi, in un passato recente tra le più grandi praticatrici di aborto, hanno una parola “angiaq” per indicare il feto abortito che torna assetato di sangue e vita. Da un punto di vista emotivo questo si spiega con lo shock e con il senso di colpa di cui una donna in qualsiasi tempo o cultura difficilmente si libera – anche in una cultura, come quella Inuit, che riconosceva l’aborto come metodo per il controllo delle nascite.

Una donna che oggi decide di abortire nella nostra società, in Italia, se vuole ha la possibilità di vedere su vari siti internet cosa è un feto di un mese, di vedere le sue parti formate e di decidere ugualmente di gettarlo nella spazzatura. Oppure può negarsi questa consapevolezza, fare finta che non esista, almeno fino alla fine dell’attesa, fino al giorno dopo il day-hospital. Io non mi sentirei di biasimarla.

Si dovrebbe invece ricordare che la vita è qualcosa di più di una massa pulsante, biologicamente “viva”, soggetta a piacere e dolore fisico – la vita sta in cose come riconoscimento, identità, la cura che una madre può dare al proprio figlio. Se questo, per un qualsiasi motivo, vacilla, subentra l’aborto. Perché i figli non sono solo quella bella creatura che esce da noi – sono esseri che crescono, che andranno accuditi, seguiti, amati. Supporre che una donna possa non abortire (nonostante questa sia la sua decisione) perché il marito non vuole, come da alcuni è stato suggerito, mi dà i brividi, perché è negare con la forza dell’ignoranza estrema il significato della gravidanza: un’irripetibile unità in cui non vale parlare di contenitore e contenuto. O forse qualcuno crede che una donna possa portare dentro di sé per nove mesi un figlio, come i barboni si portano dietro il sacco malandato delle loro proprietà, e poi scaricarlo al marito, al compagno, ad ignoti, come se nulla fosse? C’è davvero qualcuno, mi chiedo, che non si interroga se per caso dietro una gravidanza negata non si nasconda in modo ancora più crudele l’immagine dell’amore, esattamente come dietro la vita che nasce? In quanti si chiedono cosa succede in un caso d’aborto? Senza speculazioni, senza filosofia, la brutalità conclusiva di poche ore d’ospedale? Spesso una donna che decide per l’aborto non riuscirà mai ad assolversi, si sentirà schiacciata tra due diverse meschinità: quella del gesto che sta per compiere e quella dell’amore ad un possibile figlio, che non può o non vuole dare.

Quando ti sottoponi ad aborto fai tutti gli esami. Compresa l’ecografia dove c’è il cuore del feto che batte sullo schermo e sai che quel cuore è parte di te. Non ancora persona, eppure nutrito da te. I dottori sono educati, ma non puoi evitare di sentirti guardata come un mostro. Magari non sono loro a farlo. Magari è qualcosa, un pensiero occhiuto, attaccato come una zecca, dentro di te. Il giorno dell’ospedalizzazione non si vede l’ora che finisca. Dura molto poco il raschiamento: ti raschiano via ciò che stai generando, hai le gambe sollevate e poiché l’anestesia è leggera il sonno non è così profondo. Al risveglio puoi chiedere, impastando le parole per effetto dell’anestetico, se potrai avere ancora figli. Dopo torni nel letto – perdi il sangue rosso di una strana mestruazione. Hai un senso di vuoto, non come l’inizio o la fine – non una mancanza, un dolore, un desiderio, un pentimento – ma la forma del niente che d’improvviso abiti. Certo queste cose non sono una novità. Non pretendo di portare nessuna illuminante verità. Ma provate a sentirle, ad esercitare la compassione se ne siete in grado. Una donna che abortisce può trovare difficoltà a confidarsi perfino con chi le è vicino oppure può scendere una densa omertà sull’argomento “per il suo stesso bene”. L’aborto è un’atroce, duratura, incomunicabile solitudine. Questo sceglie una donna. Che almeno sia libera di farlo.

Su questo sito si possono almeno trovare delle testimonianze.

116 COMMENTS

  1. @Francesca Matteoni: “Non è facile prima di tutto teorizzare su qualcosa che si vive nella carne, la quale non è esattamente una proprietà: si può possedere ciò che ci sfugge e ci tradisce continuamente come il corpo?”

    Se questo non è teorizzare il mondo è quadrato!

    E’ una sciocchezza dire che gli uomini teorizzano e le donne argomentano.

    Se io abito in una casa e poi c’è un terremoto che la rada al suolo non ero quindi proprietario di quella casa?

    Quanto dovete ancora imparare dalla fallacia euristica del linguaggio!!!

  2. P.S. Possedere non significa mica comandare! indica solo una relazione di identità. Ma questo è un argomento che i logici medievali avevano già ampiamente risolto!

  3. Compassione: è la parola che più entra nell’argomento, anche secondo il mio punto di vista. E senza partire dall’etimo della parola, per non incappare in un’altra evidenza della “fallacia euristica del linguaggio”!!!!
    L’aborto è un dolore che nessun uomo può avvicinare, come è impossibile per loro avere un’idea di cosa significhi un figlio che cresce dentro-con te.

  4. Luminamenti, ti sei svegliato male o di questo testo non hai semplicemente VOLUTO capire niente?
    Questi tuoi commenti sono un monumento all’intelligenza offesa dai propri insulsi eccessi, e questo post, bello e importante, non li meritava.

  5. Ho capito bene quello che ha scritto francesca e mi è piaciuto, ma questo non significa che non debba sottoporre a critica alcuni concetti. Certamente errati.

  6. p.s in più aggiungo che sono contro il mito dell’esperienza, nel senso che non credo all’ipotesi (perché solo di ipotesi si tratta) secondo la quale i discorsi dell’esperienza abbiano un contenuto euristico superiore rispetto ai discorsi che non nascono dall’esperienza.
    Più nello specifico della questione, non credo che la donna in quanto portatrice in grembo di un embrione, di per sé, sulla base di questo dato dell’esperienza, possa essere garante della presunzione che il suo discorso linguistico sull’embrione sia euristicamente superiore a quello di un uomo che non può fare esperienza fisica dell’embrione.

    Detto questo, ho già ampiamente espresso la mia convizione che la donna debba avere piena autonomia decisionale in materia, ma perché l’embrione è un suo possesso e il corpo della donna è suo ed è inviolabile e ne può fare quello che vuole (contenuto compreso)

    Ecco quindi spiegata la ragione della mia obiezione critica.

  7. Cara Silvietta, tu non hai capito proprio niente. Quello che ho detto mica significa non riconoscere ciò che prova una donna, non rispettare quello che sente, che merita pienamente ascolto e comprensione, assenza di giudizio e di condanna. Quello che ho detto è tutt’altra cosa!

  8. “sono contro il mito dell’esperienza, nel senso che non credo all’ipotesi (perché solo di ipotesi si tratta) secondo la quale i discorsi dell’esperienza abbiano un contenuto euristico superiore rispetto ai discorsi che non nascono dall’esperienza.”

    Sono daccordo con Luminamenti
    (mi sa che è la prima volta in un anno di blog)

    L’esperienza è fondamentale per la testrimonianza. Ma il giudizio, che precede una vera decisione, deve trascenderne la parzialità.
    Come ho già scritto altrove a Francesca, secondo il suo ragionamento l’unico a poter legiferare in materia di uso o abuso di stupefacenti dovrebbe essere un tossico all’ultimo stadio.

  9. Lumina e Valter, la vostra degnazione è inquietante.
    Confondere una gravidanza con una tossicomania, poi, è preoccupante. Come se rimanere incinta e chiedersi che fare turbasse l’armonia sociale e minasse l’ordine pubblico alla stregua di una partita di coca.

    A una donna non serve neppure rimanere incinta per potersi esprimere con maggior cognizione di causa di un uomo sull’aborto.
    A un uomo non basta neppure amare per potersi esprimere con il senno di una donna sull’aborto.
    Questa è la differenza.
    Fosse per me, toglierei ai politici maschi ogni facoltà di legiferare sull’argomento.

  10. Binaghi
    sì, a legiferare son proprio loro, e non è un ragionamento per assurdo. Si interpellano intere commissioni, si richiedono dossier scientifici per illuminare il lavoro dei legislatori. A legiferare in qualche modo indiretto sono proprio i casi soggetti a legge, pur se in una dimensione protocollare. Il giudizio infatti, in una “decisione”, non viene quasi mai prima, ma durante. Perfino in sede non legislativa ma giudicativa-esecutiva in senso stretto.

  11. Harzman, il tuo è un discorso inquietante. Se il contenuto euristico appartiene solo al mondo della propria esperienza, ogni esperienza sarebbe vera e ognuno di noi sarebbe una monade isolata da tutti gli altri. A che pro questo punto parlare? Il biologo direbbe che lui ha ragione perchè è lui solo che ha esperienza di cellule in vitre, la donna perché è lei che ha esperienza dell’embrione e il legislatore perchè è lui l’unico che ha esperienza del diritto.

    Aprite il cervello invece di chiuderlo!

  12. Grazie a Francesca Matteoni, che ha tradito la massima stessa che ha posto in esergo al suo scritto. Uno scritto importante e prezioso. Che mi ha fatto comprendere ancor meglio, in modo più intimo e concreto, alcune questioni che il sociologo Luc Boltanski ha affrontato in un saggio dal titolo:”La Condition Foetale – Une Sociologie De L’engendrement Et De L’avortement”. E tra queste, la questione cruciale dell’inevitabile trauma e della conseguente colpevolezza.

  13. illuminare il lavoro dei legislatori – è diverso da legiferare

    A parte le zampettate della signora Catalano, che confonde un’analogia con un sillogismo, la cosa inquietante è il totale oblio cel concetto di un bene comune, che emerge da rivendicazioni come quelle di hartzman.

  14. mi pare che come al solito il discorso si divida in funzione del genere. se non si esperisce non si può comprendere a fondo l’esperienza. mi pare che la testimonianza di francesca dica questo. e capire di non capire sulla propria carne scaturisce la compassione di cui parla.
    quel che lei dice si può tentare di sovvertire attraverso le parole, attraverso la citazione e la logica, ma gli mancherà sempre quella prossimità che nasce dalla compassione appunto.
    credo sia questo: ha sapore di verità ciò che è vissuto; il resto gli si avvicina, molto anche, ma è come gli mancasse qualcosa.
    tutto il resto, che forse ritengo a torto scontato, sono bei ragionamenti, che aiutano a capire e a mettere in discussione, ma non sono, a mio avviso, altrettanto vere.

  15. Non so chi tu sia Franco Scelsit, comunque grazie.

    Messere Binaghi, vada per la sua strada e che la luce le possa illuminare il cammino. Io mi fermo, invece, sempre in bilico tra dubbi e certezze ma, mi creda, non vacillerò.

  16. harzman abbi pazienza, binaghi non è neanche in grado di scrivere il tuo nick correttamente (Inf., III, 51).

  17. Scusate, per sbaglio ho cancellato un pezzo, quello buono è questo che segue,

    Dice Lumina, e Binagli gli dà ragione
    “sono contro il mito dell’esperienza, nel senso che non credo all’ipotesi (perché solo di ipotesi si tratta) secondo la quale i discorsi dell’esperienza abbiano un contenuto euristico superiore rispetto ai discorsi che non nascono dall’esperienza.”

    Superiori forse no, ma diamogli almeno il diritto di eguaglianza.

    Se l’euristica è l’arte della ricerca pratica e teorica, del pervenire a nuove scoperte, e perciò a un nuovo sapere, l’esperienza ha un suo peso.
    L’esperienza della materia, del corpo, supportata dalla capacità di metterla in ordine.
    Nessun discorso è slegato dall’esperienza dell’essere qui.
    Ogni discorso teorico è sempre stato riletto alla luce della ricerca, e la ricerca è esperienza.
    Questa esperienza ha una sua tradizione e un suo sviluppo.
    Galileo “guardava” contro un discorso che si fondava su un altro sguardo intorno al quale il sapere si era organizzato fondando il suo potere, per questo è stato condannato.
    Mai come nella scienza si fa onore all’esperienza, e la scienza ha sempre corretto i discorsi nati dall’ esperienza grazie alla nuova esperienza.
    Che è fatta di discorso e di osservazione, assieme.
    Persino la filosofia che ha preso poi derive così astratte e teoriche è nata dall’esperienza, ma il discorso dell’esperienza, anzi, il discorso, ha sempre avuto uno strettissimo rapporto col potere, e il potere è stato sempre e prevalentemente maschile.

    Il sapere maschile ha avuto secoli per organizzare i propri discorsi, il sapere femminile poco tempo, il sapere femminile è diverso e più legato all’esperienza del corpo. Non esclusivamente legato, perché anche dal corpo parte per la riflessione. E non esclusivamente a quella del proprio corpo, ma del corpo delle proprie madri.
    Io non me la sento proprio di escludere il maschio dalla riflessione sull’aborto, e tanto meno sulla vita.
    Vorrei solo che ci fossero orecchie capaci di intendere questo apporto di esperienza femminile, e le vedo anche qui.
    Quando ci si rifà a una genealogia di pensiero, si dovrebbe ricordare che è una genealogia maschile, che anche se crede di essere assoluta, è per forza di una parte sola.

  18. … allora… da uomo e padre che sente in ritardo di qualche anno e forse in modo meno viscerale della madre di mio figlio (parlo, naturalmente, dal mio esclusivo punto di vista) l’amore per un bimbo con cui puoi anche riuscire a confonderti, senza sentire confini tra i suoi e i miei desideri… da uomo e da padre mi rendo conto di essere nella condizione dell’uomo che dalla riva di un torrente guarda, sull’altra riva, una donna che allatta un bambino… (Giorgione, La tempesta, 1507-8, Venezia, Galleria dell’Accademia)… il pezzo di Francesca, per questo, è molto bello

  19. fatto, Alcor, grazie del tuo contributo, come sempre prezioso, apprezzo molto l’accenno “Che è fatta di discorso e di osservazione, assieme.”
    a.

  20. Vorrei:

    a) aver scritto io queste frasi di Alcor: «Il sapere maschile ha avuto secoli per organizzare i propri discorsi, il sapere femminile poco tempo, il sapere femminile è diverso e più legato all’esperienza del corpo. […] Quando ci si rifà a una genealogia di pensiero, si dovrebbe ricordare che è una genealogia maschile, che anche se crede di essere assoluta, è per forza di una parte sola.»

    b) precisare che neanch’io mi sognerei mai di escludere nessuno, con o senza pisello, da una qualsiasi discussione o riflessione su qualsiasi tema, anche sul legiferare; ma quanto al legiferare stesso, e nella fattispecie sull’aborto, farei volentieri a meno dei maschi e del loro astratto pontificare – dove l’origine clericale del termine è usata qui a proposito.

  21. Nei commenti al mio pezzo, scrivevo che il punto decisivo è che c’è un “noi”, e la donna che risponde al suo appello. Ringrazio Francesca per aver parlato quel “noi”.

  22. Grazie a Francesca per il suo scritto, vero, dolente e profondo al di là di ogni tentativo di “inquadramento” (e grazie ad Alcor per i suoi commenti).
    Anche (e soprattutto) da parte di mia moglie.

    U.C.

  23. Cara Alcor, tu dici: “Superiori forse no, ma diamogli almeno il diritto di eguaglianza”.

    Perfettamente d’accordo. Quanto ha scritto Francesca mi è piaciuto. Quello che non è mi è piaciuto è questa sorta di premessa teorica secondo la quale solo chi fa esperienza di una cosa può capirla ed esser nel giusto o nel vero. L’esperienza non è il terreno delle verità ultimative. E’ da dimostrare. E oltretutto esiste anche l’empatia.

    Per il resto mi sembra di avere ampiamente detto quanto sia importante ascoltare le donne su questo tema

  24. “quanto sia importante ascoltare le donne su questo tema” ?!

    ASCOLTARE LE DONNE SU QUESTO TEMA?!

    Il discorso va esattamente rovesciato:
    è importante che anche gli uomini esprimano il loro parere su “questo tema”. Il cuore del discorso è proprio qui: ciò che per alcuni è un tema, per altre NON può esserlo; è tutt’altro che un tema da dibattere e la Matteoni l’ha detto benissimo.

  25. “L’esperienza non è il terreno delle verità ultimative. E’ da dimostrare.”
    Cosa è da dimostrare, l’esperienza? In questo caso naturalmente fa ridere, “l’esperienza è da dimostrare” è una frase priva di qualsiasi senso.
    Oppure: è da dimostrare che l’esperienza è il terreno delle verità ultimative? Questa parola non mi suggerisce nulla, luminamenti, nulla, le ‘verità ultimative’ è un concetto strano e probabilmente vuoto, e comunque, nel caso della presente discussione, non ne vedo neanche una.
    Mentre che ‘esista l’empatia’ credo qui nessuno abbia dubbi.

  26. Un grazie per i commenti – rimando anch’io al post di Rovelli, dove sono state dette cose molto importanti.

    Cerco di rispondere sulla questione dell’esperienza: se io sostenessi o credessi che si possa parlare solo dalla propria esperienza, dovrei anche mettere in discussione la possibilità di fare storia, sociologia, letteratura e via dicendo. Cosa che reputo improbabile, occupandomi per prima io stessa di storia del 1600 (di cui per ovvi motivi non ho testimonianza diretta). Ritengo però che il confrontarsi con l’esperienza – non il viverla direttamente – sia un atto di coscienza e di rispetto, oltre che il fondamento per scrivere qualcosa di sensato. Ma non esprimo un concetto nuovo: l’empatia di cui parla luminamenti è probabilmente la compassione di cui ho tentato di scrivere, o la strafamosa caritas di Paolo nella Prima lettera ai Corinzi.

    Due esempi pratici – studiando certe credenze relative al corpo e connesse alle accuse di stregonerie in età moderna mi è capitato spesso di vivere una sorta di entusiasmo, quando vedevo un certo anello mancante, o una soluzione teorica a certe problematiche. Poi, però mi è anche successo, leggendo ad esempio molte confessioni di presunte streghe, di pensare che qualsiasi cosa io potessi dire o scrivere o cercare non avrei mai potuto sentire la disperazione di quella gente. La loro esperienza ed il loro dolore o terrore resta da questo punto di vista intraducibile. Ma è proprio con la consapevolezza del nostro limite che possiamo confrontarci con la vita in ogni sua forma, nel passato o nel presente, renderne una testimonianza. E’ partendo dal non sapere socratico che si dice o si scrive e non viceversa. Quando qualcosa è detto con queste premesse il suo messaggio avrà sempre più forza di qualcosa detto solo con l’entusiasmo per il sapere; quando ci sentiremo a posto con il nostro sapere, probabilmente sarà il momento della nostra massima ignoranza.

  27. Le donne sono così, le donne la pensano in questo modo… ma siamo sicuri che tutte le donne siano uguali e la pensino tutte allo stesso modo?
    Perché questo bisogno di imporre alle donne un pensiero unico?
    Torniamo al determinismo sessuale?

  28. Caro Sparz svegli i neuroni. L’esperienza, ahimé, è considerata da molti (a torto) più importante per giudicare qualcosa. Ebbene non è così. Studia e vedi che ci arrivi pure tu. La verità di qualcosa non è data dal farne esperienza. Questa è solo una tesi, una ipotesi.
    Non è l’esperienza da dimostra, ma il contenuto di verità di una esperienza. L’esperienza è soggetta anch’essa a falsificazioni.

    @<francesca Matteoni, certo che bisogna confrontarsi con chi fa esperienza, ma è diverso dal credere che ciò che si vive con il corpo non è teorizzare! Non si può in ogni caso non teorizzare!

  29. Consiglio un libro come I Sapori del mondo, un fantastico libro di antropologia, adatto a quelli un po’ lenti con la testa, per comprendere che tutto ciò che percepiamo, proviamo, che tutto ciò di cui facciamo esperienza è filtrato, è già elaborazione culturale. E’ già teoria!

  30. va bene. ma a me interessa la “teoria viva”. quella di francesca matteoni è questo. la tua, professore, è tentativo di indottrinamento.

    sergio, le donne sono molto diverse l’una dall’altra. anche gli uomini. però, se tu prendi una pallonata nel basso ventre avrai la stessa “risposta” che potrò avere io, luminamenti ecc. ecc. ecc. hai capito?

  31. Indottrinamento è far passare una filosofia della conoscenza per pura e semplice realtà, esente da opposizioni dialettiche o critiche. Quando si dice quello che qui si dice non sulla priorità ma sull’esaustività dell’esperienza, si sostiene una certa dottrina (empirismo sentimentale?) sul conoscere.
    L’esperienza è sempre parziale soggettiva, per arrivare a un giudizio sulle cose occorre una definizione universalmente valida, dopo galileo una legge nella forma di un’equazione differenziale. Non esistono saperi maschili e femminili, ma esperienze maschili e femminili. Il sapere, se pretende alla scienza, trascende questa dimensione. In realtà tutti sanno questo, ma nella fattispecie la decisione politica di rendere la donna assoluta arbitra della questione, rende specioso ogni dibattito.
    Non c’è più verità, se non quella che aveva già profetizzato Nietzsche: la verità e il valore sono posti, non riconosciuti dalla volontà (di potenza).

  32. ci sono cose su cui non si può teorizzare, in assoluto. si possono solo provare, sperimentare.
    paradossalmente penso però che le teorizzazioni altrui possano servire a meglio comprendere la propria esperienza.

    e dopo tutto questo dibattere sulla legge “per l’aborto”, che dura da anni, secoli, direi… lo scoramento che mi rimane addosso è dato dal pensiero che in italia non si fanno le leggi per tutelare la libera scelta del singolo individuo…

  33. il significato del commento di binaghi – se non ho capito male – è che lui non potrà mai essere incinto

  34. Franco dice:
    “le donne sono molto diverse l’una dall’altra. anche gli uomini. però, se tu prendi una pallonata nel basso ventre avrai la stessa “risposta” che potrò avere io, luminamenti ecc. ecc. ecc. hai capito?”

    Veramente no.
    La tua metafora è molto “dolorosa”, ma non capisco in quale modo si possa applicare all’opinione delle donne sull’aborto.

    Il punto che pretendevo evidenziare con le mie domande precedenti era il tentativo di alcune donne favorevoli all’aborto di ergersi a rappresentanti di tutte le donne, come se fossero un blocco omogeneo.

  35. Un’altra osservazione. C’è una discussione sul valore dell’esperienza. Alcuni sostengono che solo chi ha vissuto questo dramma doloroso sulla propria pelle può capire di cosa si parla. Questo ovviamente per escludere o restare importanza ai pareri degli uomini. Ma se questa premessa fosse vera, allora anche molte donne sarebbero da includere nella stessa categoria degli uomini, visto che molte donne non si sono mai ritrovate davanti a questa sofferta eventualità o semplicemente perché non sono mai state madri.

  36. Infatti sergio, è assolutamente falso che solo chi ha vissuto questo dramma doloroso sulla propria pelle può capire di cosa si parla.
    L’esperienza è impastata di teoria fin dentro le ossa.
    Chi non lo capisce è fuori di testa!

  37. Luminamenti,

    in linea di massima sono d’accordo con te, anche se spesso le esperienze, interagendo con la nostra conoscenza del mondo, modificano il nostro punto di vista. Io non escludo assolutamente che una mia esperienza in questo ambito possa farmi cambiare parere. Quello che voglio dire è che se dovessimo limitare le persone che possono esprimersi su questo argomento a quelle che l’hanno vissuto sulla propria pelle, allora tutti gli uomini e tantissime donne dovrebbero star zitti.

    E se ci pensate bene, più genericamente, molte delle nostre opinioni non sono basate su un’esperienza reale di ciò che parliamo, ma su elaborazioni che ci costruiamo a partire dalla nostra conoscenza generale del mondo.

  38. @certamente l’esperienza di qualcuno può cambiare il punto di vista di un altro che non ha quell’esperienza. Non sto né promuovendo l’esperienza rispetto alla teoria né viceversa. Esperienza e teoria, pensiero e azione sono talmente intrecciati, impastati l’uno con l’altra che quello che conta non è l’una o l’altra, ma quello che ne viene fuori.
    Se uno ascolta il resoconto di donne africane sulla loro esperienza di aborto, ci si accorge che cambia proprio la percezione di quello che si prova, che è diversamente complesso da quello che prova una donna occidentale. La cultura, il retroterra religoso o mitologico, l’educazione ricevuta, lo status economico e molte altre cose ancora forgiano ciò che è l’esperienza.

  39. Luminamenti, il tuo è certamente il nick con cui dio entra in nazione Indiana, ieri la logica giaina, oggi il resoconto delle donne africane sulle loro esperienze di aborto, non c’è frammento di sapere umano che tu non abbia i ndagato e non controlli, ti vedo, accosciato davanti al fuoco, mentre le donne cuociono il miglio e raccontano le loro storie, sono tranquille, perchè non ti vedono, ma tu ci sei, e sai.

  40. @ alcor, è sufficiente seguire Geo in tv per sapere che in mondi culturali diversi uno stesso vissuto o fatto è percepito, interpretato, sentito, raccontato differentemente. Invece delle battutaccie (perché si è rimasti senza argomenti), occore solo ammettere di aver detto delle sonore sciocchezze sul fatto che gli uomini teorizzano e le donne argomentano! O che l’esperienza sta da una parte e la teoria dall’altra.
    Consiglio di David Le Breton il bellissimo libro IL sapore del Mondo, un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina editore. Una miniera di dati. Come quello di Howard Becker sul modellamento culturale dei sensi.

    Per i più svegli, invece Caratteri Primordiali del massimo antropologo RodneY Needham edito da Medusa. Un capolavoro di analisi.

    O il bellissimo libro di A. Montagu, il linguaggio della pelle, trad Vallardi 1989.

    O il lavoro in Statues in M. Serres, o i lavori di Margaret Mead.

  41. @veramente alcor basta seguire Geo comodamente in poltrona per ascoltare ed essere informati che in mondi culturali diversi la stessa esperienza è vissuta, percepita, interpretata, raccontata diversamente.
    Ci vuole solo un pochino d’intelligenza. Mica tanto sapere!
    E magari leggersi un po’ di letteratura africana, che possiede scrittori interessanti.

    Invece delle battuttaccie occorre ammettere di avere detto una sciocchezza, per cui gli uomini fanno teoria e le donne argomentano, o che l’esperienza sta da una parte e la teoria dall’altra.

    Consiglio nuovamente e caldamente il bellissimo libro I Sapori del Mondo, un’antropologia dei sensi per scrollarsi di dosso tanta ingenuità.
    O leggersi gli studi di Howard Becker sul modellamento culturale dei sensi.

    Per i più svegli e volenterosi invece Caratteri primordiali di Rodney Needham.

    Sempre istruttivo poi Montagu, Il Linguaggio della pelle.

  42. Non agitarti, Lumina, non ti dona.

    Ah, a proposito, hai letto il bellissimo e ormai introvabile Anatomy of sense di Whyatt, Arrow e Brouwer?
    Molto formativo, e si fa anche una bellissima figura a citarlo.

  43. Perché mi dovrei essere agitato? vorrai dire perché mi sono messo a ridere! Geo e Geo… come al solito deduci stati d’animo con molta fantasia. E’ dai primi del novecento che si sa che la mappa non è il territorio!
    L’ultimo libro di Anatomia che ho consultato è stato ieri pomeriggio dato che devo preparare una lezione. Se t’interessa ho consultato l’atlante del Netter (il più bello al mondo).
    Invece la ultime riflessioni in termini di etica sull’aborto le ho lette a pagina 30, 31, 42, 117, 118, 126, 211, 242, 246, 247, 248, 249, 411,413 dell’intererssantissimo allievo Chomsky, Marc D. Hauser, Menti Morali, le origini naturali del bene e del male, Saggiatore 2007

  44. ps forse a te piace citare per fare bella figura, a me interessa solo informare ed essere informato

  45. @Sergio

    A dire il vero non si parlava soltanto del “valore dell’esperienza”, per cui “solo chi ha vissuto questo dramma doloroso sulla propria pelle può capire di cosa si parla”, ma della sensibilità femminile tout court rispetto a quella maschile. Non io almeno.
    Ripeto:
    A una donna, o alla maggior parte delle donne, non è indispensabile aver abortito per avere maggior cognizione di causa di un uomo sull’argomento; diversamente, a quest’ultimo, o alla maggior parte degli uomini, non basta neppure la volontà di comprensione derivante dal più perfetto connubio di amore e intelligenza per afferrare il fenomeno dell’aborto con altrettanta “esattezza” della donna. E questo non in virtù di un vantaggio empirico, ma naturale, biologico.

    Inversamente, per dire, una donna non potrà mai capire cosa significa eccitarsi e godere con due parti del corpo estreme e separate da tutto un tronco e le sue appendici come la crapa e il glande.

  46. tash, non c’è difesa contro la luce che emana ovunque lumina, lo dice la parola stessa. Non importa che non risponde alle obiezioni più elementari, che usi tesi e ipotesi come equivalenti (vedi sopra “Questa è solo una tesi, una ipotesi”, sic!), che non veda i neuroni degli altri, la luce stessa non vede, dà luce. Egli è, nel senso più letterale possibile, impavido. Vedrai la risposta a questo! Fuochi d’artificio!

  47. E’ vero, è qui in missione per conto di dio per illuminare la nostra ignoranza e dare una sferzata ai nostri neuroni.

    Comunque gli va dato atto che è pieno di buoni intenzioni, anche se legge a modo suo e interpreta a capocchia.
    Ma in fondo mi è simpatico.

  48. Rimasti senza argomenti. Bene! siamo alla battute. Le accetto volentieri. L’ironia è sempre una bella cosa.

  49. Dio mio, Luminamenti, è che si sceglie di tacere. Cosa vuole che le si risponda?Gli argomenti, se non se ne è accorto, sono stati messi sul tappeto. Ma lei insiste a teorizzare la carne, come un gourmet che parla di spigole senza averne mai mangiata una.
    Lei, Luminamenti, sarebbe certamente il tipo che nel mezzo di una strage, con le budella sparse di donne e bambini, tira fuori un manuale sulla storia dei fucili.

  50. visto lo svacco, e questo bel pezzo d matteoni non lo meritava, ne approfitto per chiedere che fine abbiano fatto eva risto e fiorello m. annoia. qualcuno ne sa qualcosa? e lo storico ‘amico’ di luminamenti, lazzaro visconti pera, dove l’avete segregato?

    aridàteceli!

  51. “Che mi ha fatto comprendere ancor meglio, in modo più intimo e concreto, alcune questioni che il sociologo Luc Boltanski ha affrontato in un saggio dal titolo: La Condition Foetale – Une Sociologie De L’engendrement Et De L’avortement.” Gli è piaciuto pure a Luminamenti.

  52. Una persona può anche essere libera di decidere per la propria vita, ma non può decidere per la vita di un altro essere umano. Non si può limitare la libertà di un essere umano, la sua libertà di nascere, di crescere e di sperimentare l’amore. Non siamo forse troppo egoisti, quando pensiamo solo a noi stessi, riservando per noi e solo per noi il piacere dell’amore?

  53. “Da un punto di vista emotivo questo si spiega con lo shock e con il senso di colpa di cui una donna in qualsiasi tempo o cultura difficilmente si libera – anche in una cultura, come quella Inuit, che riconosceva l’aborto come metodo per il controllo delle nascite”

    “Spesso una donna che decide per l’aborto non riuscirà mai ad assolversi, si sentirà schiacciata tra due diverse meschinità: quella del gesto che sta per compiere e quella dell’amore ad un possibile figlio, che non può o non vuole dare”

    “Nel linguaggio di una donna il feto è già “questo bambino” anche se ha deciso di abortire”

    “L’aborto è un’atroce, duratura, incomunicabile solitudine”

    è su questi pensieri che le donne dovrebbero lavorare, è da questi pensieri che le donne dovrebbero affrancarsi.
    affrancarsi da una cultura che le vorrebbe non solo vittime sacrificali di una legge “naturale” ma anche intimamente schiacciate dal senso di colpa, dal senso del peccato se scelgono di non essere contenitori del “fato” del “destino” del “caso” della “natura”
    se io avessi solo minimamente “sentito” di “buttare nella spazzatura” “questo bambino” non avrei certamente abortito.
    io non ho provato sensi di colpa nè prima, nè dopo aver abortito, non per una sorta di rimozione ma perchè prima di scegliere avevo la piena consapevolezza di quello che stavo facendo.
    sono un mostro?
    il senso di colpa è un meccanismo che rende meno pauroso guardare in faccia il coraggio e la fatica e l’orgoglio dell’ autodeterminazione?
    il coraggio di assumersi per intero le proprie responsabilità e la propria dignità di essere umano che rifiuta una coercizione “naturale”?
    è la punizione che mi infliggo per espiare la colpa di non avere colpe?
    sono più accettata, giustificata, compassionata dal contesto culturale e familiare e sociale e politico e “naturale” se provo sensi di colpa?

    un abbraccio a tutte le donne che hanno abortito o che intendono farlo, un abbaccio di conforto e di com passione.

    per il resto con divido, e sento i pensieri di francesca.
    baci
    la funambola

  54. Cara Funanbola, hai colto pienamente cosa volevo dire ed il modo terribile in cui senso della responsabilità e senso di colpa possono coincidere per una donna davanti a certe scelte. Ho usato un linguaggio crudo in certi punti per sottolineare l’imposizione assimiliata di un certo modello socio-culturale e come spesso purtroppo ci sentiamo. Questo non è affatto giusto. E la strada è lunga… Ricambio l’abbraccio.

    Riguardo all’amore – l’amore passa per la strada della scelta, prima che dell’accoglienza – se è un piacere riceverlo, non mi risulta che sia così tanto semplice darlo con piena consapevolezza. Tirare in ballo l’amore per dare contro all’aborto mi pare un approccio un po’ semplicistico, nonostante sia il modo più diffuso presso i cattolici. Se non sbaglio, proprio Cristo portava un comandamento nuovo: ama il prossimo tuo COME te stesso. Non so quanto si rifletta su quel COME, che è fondamentale – significa nella stessa misura in cui sei capace di amare te stesso – e dato che non credo che questo sia un inno all’egoismo mondiale, forse certe parole andrebbero un po’ meditate. Anche nel motto di Sant’Agostino: Ama e fa’ ciò che vuoi (ciò che detta la tua volontà), non vedo tutta questa facilità piacevole nell’amore. Oppure Dante – per vedere l’amore ha attraversato tutto l’Inferno e ha addirittura “inventato” il Purgatorio. Sarà pure facile amare…

    Sul concetto di essere umano: un feto non è un essere umano. E se si è letto con un po’ di attenzione ciò che ho scritto mi pare di spiegare abbastanza bene come sia complesso per una donna (senza generalizzare) rapportarsi a questa vita in potenza. Sulla vita generalizzando stavolta: credo che un uomo o una donna non abbia più diritto di una mosca o un giaguaro. Non sono mai stata una fan dell’uomo al centro del mondo. Ma questo è un altro discorso, temo.

  55. @Franco Scelsit: e quale sarebbe l’argomento? che l’esperienza è più vera della teoria? che possono parlare solo le donne dell’aborto? Solo gli ingenui possono crederci! che l’ultima parola spetta alla donna? sì, certamente, ma non perché ha esperienza mentre gli uomini hanno le teorie. E purtroppo, così si è premesso in questo testo e qualche pecora del gregge l’ha seguito. Questa è stata la mia critica, non al resto del testo. La premessa mi ha dato l’impressione di porre un pregiudizio: che chi non fa esperienza di qualcosa non può comprenderla ed empatizzarla.
    In più l’esperienza è costruita sulla teoria, sull’educazione culturale che abita una persona. Non è vero che gli uomini teorizzano e le donne argomentano!
    Ma, mi sembra, che Francesca, più intelligentemente di alcuni commentatori, abbia poi postato un commento in cui riconosceva l’empatia.

    Spetta alla donna l’ultima parola perchè sul suo corpo ha diritti assoluti e l’embrione non è una vita umana.

    @The O.C. sì quel libro mi è piaciuto proprio perché sposa quanto ho detto: nessuna legge è legittima sull’aborto, l’aborto resta qualcosa di negativo, rimane il depotenziamento del vissuto femminile, i conflitti interni e le giustificazioni che la donna si pone. E’ in questo senso un manifesto di quanto le donne non siano emancipate con il corpo come credevano di essere. L’esperienza di un aborto pone nuovamente sul tappeto il tema della maternità, che molte donne avevano ritenuto di avere superato.

  56. @funambola dice: “su questi pensieri che le donne dovrebbero lavorare, è da questi pensieri che le donne dovrebbero affrancarsi”.

    Non è un lavoro che le donne possono fare da sole. E’ la società che deve mobilitarsi in questo senso e gli uomini, i maschi possono fare tantissimo per aiutare le donne in questo processo che tu auspichi.

  57. Luminamenti, con rispetto parlando, la tua incomprensione ultima della questione è tutta in questa frase:

    «Spetta alla donna l’ultima parola perchè sul suo corpo ha diritti assoluti e l’embrione non è una vita umana».

    Voglio dire, tu prima fai mostra di aver capito – «Spetta alla donna l’ultima parola perchè sul suo corpo ha diritti assoluti» – e poi chiosi con una fesseria colossale, oscurantista, persino contraria alle più elementari acquisizioni dalla scienza genetica:

    «e l’embrione non è una vita umana»

    Ma allora, scusa tanto, da dove diamine credi che vengano le annose responsabilità del diritto e, soprattutto, il senso di colpa della donna? O forse tu ti senti in colpa quando calpesti un ciuffo d’erba o accoppi un mosquito con il parabrezza?

  58. @ scusami Harzman, ma vuoi dire che la genetica sostiene che l’embrione è vita umana, persona? se stai dicendo questo ti sbagli. E’ insostenibile e non lo afferma la scienza della genetica. Edoardo Boncinelli si è pronunziato chiaramente e con ragioni fondate!
    Non credo di aver detto nessuna fesseria. Mi sono espresso con la massima coerenza e logica e sentimento. Le mie critiche erano su un altro terreno e tutte a beneficio della donna. E’ proprio sul terreno dell’esperienza che il sottosuolo falsificato del femminile crolla! Perchè è costruito in maniera intellettuale. L’esperienza non è sempre la verità, molto spesso è il falso, la falsificazione di ciò che si crede di essere!
    Lo so benissimo che la donna si sente in colpa. Ma a torto! se si sente in colpa perchè pensa di avere ucciso un essere umano, si sbaglia e chi sta attorno deve farglielo capire e superare. Non ha ucciso nessuno. E’ certo! e va spiegato con un’elaborazione concettuale che ricostruisca la sua identità disimparando! Se si sente in colpa perchè ha distrutto un progetto di maternità, perchè non ha vissuto la sessualità con la responsabilità che sarebbe dovuto il suo problema è fondato e deve affrontarlo ricercando la sua identità.

    Come dicevo più sopra, i sensi di colpa nascono dall’educazione culturale, dall’influenza nefasta di una religiosità che come ha detto bene Genna in un suo articolo (vedi su Carmilla), è moralistica piuttosto che metafisica.

    Se ci fosse una vera cultura e conoscenza metafisica del problema saremmo già molto avanti.

    purtroppo molti voi hanno i paraocchi
    Come terapeuta io lavoro in questa direzione.

  59. Ho capito la tua posizione, Lumina, e in fondo mi piacerebbe che fosse più fondata della mia. Il fatto è che anch’io la pensavo come te, anche se non posso fregiarmi delle tue stesse letture; poi, quando la mia compagna rimase incinta, in un libro divulgativo ma ben fatto, decisamente laico e ‘imparziale’ sulla gravidanza trovai questa semplice notizia: che a un’ora dalla fecondazione l’embrione ha già inscritto in sé l’intero codice genetico – leggi ciò che saranno il colore degli occhi, dei capelli, la forma del naso, delle orecchie, delle mani e delle braccia, la capienza polmonare, le imperfezioni del rachide, l’inclinazione alle allergie ecc. ecc. – dell’essere umano che sarà abbozzato entro qualche settimana e che (forse) nascerà di lì a nove mesi. Allora, non conoscendo questo signor Boncinelli, le mie convinzioni hanno cominciato a vacillare.

  60. solo una percentuale molto bassa di ovocellule fecondate è destinata in natura a svilupparsi dando poi vita ad un bambino. Quindi, per lo zigote e l’embrione sono d’accordo con chi afferma che si può parlare solo di persona in potenza. Attribuire loro la natura di persona, così come al bambino e all’adulto, significa non consentire di valutare le differenze, cosa che un laico dovrebbe invece sempre fare.

  61. L’articolo di monsignor Sgreccia pubblicato martedì 10 maggio sul Corriere mi induce a riproporre un tratto del mio discorso sull’embrione—lasciando anche questa volta da parte il mio pensiero filosofico e la mia critica del concetto di «capacità», e indicando solo quali conseguenze scaturiscono dalla dottrina della Chiesa sull’embrione. Invito cioè la Chiesa a pensare con attenzione al contenuto del mio articolo apparso sul Corriere del 24 febbraio 2005. Nel marzo scorso monsignor Sgreccia mi aveva criticato dicendo tra l’altro che, per me, affermare (come la Chiesa afferma) che l’embrione è sin dall’inizio un essere umano «è come affermare che l’uomo è “capace di entrare nel Regno dei Cieli”». Santo cielo! Se io avessi scritto queste strampalerie monsignor Sgreccia avrebbe il diritto di considerarmi uno sciocco. Ma non avendole scritte è sorprendente che un esponente così autorevole e competente della Chiesa abbia così frainteso il mio discorso. Che dunque ripropongo con alcune considerazioni relative al nuovo articolo di Sgreccia.
    Secondo la filosofia a cui (anche) la Chiesa si ispira, un uomo può nascere solo se, prima di esso, esiste qualcosa che ha la capacità (o «potenza ») di diventare uomo. Si badi: qualcosa di unitario. Tale principio vale anche per altre forme di «generazione». E così: una statua può essere prodotta solo se, prima di esserlo, esiste, poniamo, un blocco di marmo capace di diventare una statua (per opera dello scultore). Se il blocco fosse in frantumi, nessuno di essi, e nemmeno il loro insieme, avrebbe la capacità di diventare quella statua. Per produrre quella statua bisogna che le parti del blocco non siano frantumi, ma unite; ossia, bisogna che il blocco sia qualcosa di unitario. Altro esempio: un uomo può entrare nel Regno dei Cieli (può esistere cioè quel processo che è la «generazione» di un beato) solo se, prima che egli vi entri, esiste qualcosa di unitario che ha la capacità di entrarvi e che è appunto quell’uomo durante la sua vita terrena. (Non sono la testa, le gambe, o parti della psiche, in quanto tra loro separate, ad avere quella capacità: non sono cioè i pezzi dell’uomo ad averla).
    Se non esistessero la capacità del blocco di marmo di diventare statua e la capacità dell’uomo di andare in Cielo, l’esistenza di statue di marmo e di beati sarebbe impossibile. Epertanto, ritornando al nostro caso, se, prima della nascita dell’essere umano, non esistesse qualcosa di unitario, avente la capacità di diventare un uomo (se cioè non esistesse un uomo «in potenza »), la nascita di uomini sarebbe impossibile.
    Orbene, per la Chiesa, l’embrione è, sin dal momento della fecondazione, uomo, persona; e il principio spirituale (l’«anima razionale») per il quale l’uomo non è animale è creato da Dio. Per la Chiesa, cioè, Dio crea tale principio sin dal momento della fecondazione, cioè dell’unione del gamete maschile e femminile.
    E siamo al punto. La domanda che rivolgo alla Chiesa (e ad altri) è: se un uomo può nascere solo se prima di esso esiste un qualcosa di unitario che ha la capacità di diventare un essere umano, e se sin dalmomento della fecondazione l’embrione è essere umano «in atto», che cosa è e dove è mai il qualcosa di unitario che ha la capacità di diventare uomo e senza di cui nessun uomo potrebbe nascere? Dov’è l’uomo «in potenza»? La Chiesa non può rispondere a questa domanda.
    Infatti, prima dell’unione dei gameti (con la quale, per la Chiesa, esisterebbe già sin dall’inizio un uomo «in atto»), i gameti sono separati e nessuno dei due, in quanto separato, può avere la capacità di diventare uomo. (Come nessuno dei frammenti del blocco di marmo ha la capacità di diventare una statua; né sono i pezzi di un uomo ad avere la capacità di andare in Cielo). E come l’insieme dei frammenti del blocco di marmo non ha la capacità di diventare statua, nemmeno l’insieme dei due gameti separati ha la capacità di diventare uomo. E, per la Chiesa, prima della loro unione non può nemmeno intervenire Dio a infondere in essi l’«anima razionale».
    Che cosa segue da tutto questo? Un assurdo: sostenendo che fin dal momento della fecondazione esiste un uomo «in atto», la Chiesa viene a negare (contro le proprie intenzioni) l’esistenza della capacità, da parte di qualcosa di unitario, di diventare un uomo; e da questa negazione segue ciò che anche per la Chiesa è un assurdo, ossia che non potrebbe nascere alcun uomo. Ma gli uomini nascono. Dunque ciò che provoca questo assurdo è impossibile, ossia è impossibile che sin dall’inizio l’embrione sia un uomo.
    Monsignor Sgreccia mi ricordava che «i due gameti hanno la capacità di generare un individuo- ratto allo stato embrionale, che poi si sviluppa e diviene adulto proprio perché esiste una capacità, una potenzialità che si attua nel momento dell’unione». Ma, replico, questa capacità di diventare adulto è quella che si costituisce quando l’embrione ha già incominciato ad esistere: non è quella di cui stiamo parlando, che è la capacità di qualcosa di diventare embrione umano (o animale) — la capacità, cioè, che cessa di esistere quando l’embrione incomincia ad esistere.
    Per uscire dall’assurdo ora indicato è dunque necessario negare che sin dall’inizio l’embrione sia un essere umano in atto; e dunque è necessario che Dio infonda l’anima razionale dopo che l’embrione ha incominciato a esistere, ossia è necessario affermare che ciò che ha la capacità di diventare uomo sia costituito, perlomeno, dallo stato iniziale dell’embrione, per quanto breve esso sia.
    Per la scienza non sappiamo quando l’embrione incominci a essere persona. Ma, sulla base dell’argomentazione ora indicata, la Chiesa, per evitare l’assurdo, deve dire che all’inizio della sua esistenza l’embrione non è persona. È poco, ma è decisivo. (È poco, perché rimane aperto il problema, per la Chiesa, di accertare l’estensione di quell’inizio, cioè se Dio crei l’anima razionale subito dopo l’unione dei gameti, oppure dopo qualche tempo). Non è meglio che la Chiesa, anche qui, ritorni a san Tommaso, per il quale «il feto è animale prima di essere uomo»? (Il mio riferimento a Tommaso è stato poi ripreso da altri). Uscirebbe dal vicolo cieco in cui si è cacciata. O almeno da questo — altri ancora essendocene, ancora più ciechi; e non solo per la Chiesa.
    Nell’articolo pubblicato sul Corriere monsignor Sgreccia parla invece da scienziato. Ma, rispetto a quanto sopra abbiamo mostrato, sfonda una porta aperta. Richiama infatti che per la biologia (e anche per biologi non credenti) l’embrione ha, «fin dal momento della fecondazione » un’«identità» biologica, genetica e organica. Un cane, dice, è cane sin dal momento della fecondazione e rimane cane fin quando è vecchio e prossimo alla morte. E aggiunge: «Pensiamo che la stessa biologia valga anche per qualsiasi animale superiore, compreso l’uomo ».
    Ora, non v’è dubbio che i biologi siano per lo più d’accordo su questo avvicinamento di cani e uomini. Ma monsignor Sgreccia qualche dubbio dovrebbe averlo. La dottrina della Chiesa non è adeguatamente rappresentata da scritti come questo di Sgreccia. I biologi, infatti, non hanno difficoltà ad affermare che un organismo materiale si evolva e divenga mente, coscienza, ragione, cioè essere umano — come, perlopiù, essi non hanno difficoltà ad affermare l’evoluzione delle specie, quella evoluzione, cioè, per la quale l’uomo proviene dalla scimmia.
    Ma la Chiesa può starsene tranquilla come lo è monsignor Sgreccia? La Chiesa esclude perentoriamente che la vita umana e il suo inizio possano essere adeguatamente intesi dalla scienza e dalla biologia. Per la Chiesa la spiegazione adeguata si può raggiungere — abbiamo detto sopra — solo introducendo l’azione di Dio, che crea lui, direttamente, ciò che vi è di propriamente umano nell’uomo. In questo articolo monsignor Sgreccia ha invece l’aria di sostenere che per risolvere il problema dell’inizio della vita umana basti la scienza. La Chiesa non è adeguatamente rappresentata da un discorso come questo di monsignor Sgreccia che lascia così vistosamente da parte quel sapere filosofico al quale invece la Chiesa — con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI — dà una così rilevante importanza.
    Ho detto che, rispetto all’argomentazione sopra sviluppata, monsignor Sgreccia sfonda una porta aperta, perché tale argomentazione parte proprio dalla supposizione che l’embrione sia, sin dall’inizio, vita umana (e lo sia nel senso voluto dalla Chiesa, non dalla sola biologia); e così partendo — ossia pur concedendo tutto ciò che sta a cuore alla Chiesa e a monsignor Sgreccia—tale argomentazione mostra a quale assurdo quella supposizione conduca.
    Come dice monsignor Sgreccia, la coscienza morale proibisce che si spari verso un cespuglio se appena si dubita che dietro di esso, invece di una lepre, ci sia un bambino. Ma quell’argomentazione mostra che la dottrina della Chiesa sull’embrione conduce alla conclusione (certo non voluta dalla Chiesa) che dietro il cespuglio non può essersi venuto a trovare nessun bambino — appunto perché, come si diceva, quella dottrina porta a negare la capacità di diventare un essere umano (ossia un bambino dietro il cespuglio).
    E dico tutto questo condividendo le preoccupazioni per la manipolazione e mercificazione dell’uomo.
    Emanuele Severino

  62. scusate, c’è voluto un po’ ma ho eliminato tre delle 4 copie dell’identico commento (quello che comincia “scusami Harzman”) di luminamenti (che mi sembravano francamente troppe persino per lui. Per un attimo è sparita anche la copia superstite ma ora dovrebbe essere tutto ok. WordPress non è perfetta e la gestione commenti va *convinta*. Dite se vi pare abbia soppresso qualcosa, il che mai vorrei, ovviamente.

  63. mi scusi, luminamenti, non sono sicuro di aver capito, ma quest’ultimo commento suo è un articolo interamente di Severino? In ogni caso, non ci può risparmiare queste infinite polemiche con Sgreccia in merito alle posizioni della chiesa cattolica, che qui non sono particolarmente rilevanti?

  64. pensare che ci sia qualcuno che soffre più di altri la perdita di un figlio è come pensare che ci sia qualcuno più cosciente di altri su cosa sia la vita. questo lo trovo insopportabile. e questo è il germe del vero nazismo, checchè ne dicano le suffraggette da un lato e gli estremisti dell’anti-aborto dall’altro.

  65. lumina, sei prolisso! :))
    confido nell’uomo e confido nella donna, se perdessi questa consapevole illusione sarei disperata, e a me, mi si fa il riso.
    io ti leggo sempre con molto molto affetto
    baci cari
    la fu

    il pensiero di beccalòssi non lo compresi, magari se si spiegasse meglio forse comprenderei o magari sono tarda io, vabbè baci a tutti che prima o poi un fulmine vi colpirà, il fulmine della Consapevolezza nè che io vado via sempre leggera di metafora:))

  66. Che silenzio, in effetti.
    trovo del tuttto indicativo, e anche abbastanza sconvolgente dal punto di vista culturale che qui qualcuno abbia potuto sostenere che le donne sull’aborto “non teorizzano” e che la discussione si sia polarizzata di conseguenza su interno vs esterno, su esperienza femminile (la natura!) vs teoria maschile (la fede, la ragione!).
    Tranquilli, stavolta Non vi sgancio nemmeno un titolo tra i chilotoni di teorie, saggi analisi , riflessioni autocritiche convegni che le donne di tutto il mondo, italiane comprese, sociologhe filosofe mediche storiche scienziate antropologhe teologhe hanno prodotto e continuano a produrre sull’argomento, ampiamente saccheggiate del resto dagli “studiosi maschi”, il più delle volte senza alcuna menzione della fonte. Proprio vero che l’unico mestiere della donna è quello del nettare:)
    saluti

  67. Gina, anche tu leggi maluccio, non teorizzano “QUI” e a teorizzare in genere hanno cominciato da poco, da assai pochi anni, rispetto allo sgurdo sul mondo del maschile, che mi pare abbia fondato la filosofia, cioè la teorizazione in sé
    Qui ci sono tre post intorno all’aborto e alla 194, grossomodo, vai a vedere chi teorizza.
    La teorizzazione femminile oltre a tutto è rimasta elitaria, e non ha prodotto, sulla massa delle donne, quegli effetti che le teorizzazioni maschili hanno prodotto nei secoli sulle classi dirigenti maschili loro contemporanee.

    Ma non voglio aprire una polemica.

    La cosa che mi incuriosisce sempre in rete è – benché si senta dire ripetutamente che la rete è ignorante , o forse proprio per questo – l’accanita affezione verso il libresco, e la parallela mancanza di capacità di comprensione dei contesti, dei luoghi e del pensiero stesso delle persone.
    Come se ognuno dicesse, tutti i commentatori sono ignoranti, A PARTE ME CHE SO.
    perciò Gina, rilassati, dai anche tu, come luminamenti, la tua bibliografia, fatti magari venire il dubbio che non tutti hanno sempre bisogno di citare e magari una parte della bibliografia che darai sarà presente anche negli scaffali, o sarà stata addirittura letta, anche da quelli o quelle a cui consigi di fare le pulizie.

    Se tutti i libri sulle donne o delle donne che forse hai letto ti hanno portato a questa sciocca misoginia, e alla convinzione che non si possa riflettere, pensare e osservare senza citare sempre qualche bibliografia, vuol dire che quei libri non sono serviti a molto, se non a uno sfoggio personale. La pesanteur citatoria, o la tendenza a supportare le proprie idee con una bibliografia, nella conversazione, e qui si fa conversazione, è sempre degli studiosi minori.

  68. helena
    come già detto, abdico alla mia funzione di nettare:)
    Nonostante le mistiche del materno, e dell’abortivo, l’utero è luogo pubblico da un bel pezzo, come le biblioteche:).
    Alcor
    interessante reazione.
    Come già detto, non ho intenzione di citare né sfoggiare alcunché.
    La mia osservazione è libresca, ma culturale.
    Se sei prigioniera di vecchie e muffe dicotomie non è colpa mia.

  69. Sei molto presuntuosa, Gina, peccato, perché il pensiero delle donne, cioè quello che pensano “dopo” i libri, ma anche “nonostante”i libri non solo mi interessa, ma mi coinvolge.
    Che l’utero sia un luogo pubblico da un pezzo è un’idea estremamente libresca ed esclusivamente politica, che può nascere soltanto in una biblioteca, cioè tra quelle muffe che tu mi attribuisci, o nella rarefazione del “dibbbattito”.

    La cosa che mi dispiace è vedere così solidi e astratti paraocchi proprio in una donna.
    A me risulta che si pensi dal fenomeno alla legge, e non viceversa.
    A cosa serve pensare, cara Gina, se non si pensa nel mondo e per il mondo?

  70. l’utero come luogo pubblico è pratica biopolitica, alcor lo trovi nei libri di maschi e femmine per quanto riguarda la storia l’analisi la riflessione teorica delle pratiche disciplinari se ti interessa, ma è vivo anche nelle ecografie spalmate in ogni dove anche su internet, è vivo e scalciante anche nell’immaginario collettivo del qui e ora, cara, di maschi e di femmine, è luogo condiviso e pratico e di legislazione.

  71. E benché sia contraria allo sfoggio di bibliografie e citazioni, ne farò una anch’io, perchè mi pare adatta, ed è di Simone Weil, che spero non venga considerata muffosa, la cito perché molto in sintesi dà un indicazione di metodo e anche, non so come dire, di postura:

    “Per l’essere umano in questo mondo la materia sensibile –materia inerte e carne – è il filtro, il vaglio, il criterio universale del reale nel pensiero; l’ambito del pensiero tutto quanto, senza che niente ne sia eccettuato. La materia è il nostro giudice infallibile”.

    L’esperienza personale, anche incolta e ingenua, nasce lì, nella materia, e se anche viene deformata dalla cultura, o elevata dalla cultura, è sempre l’origine del pensiero, che non marcia solo in avanti, non è solo progressivo, e anche dopo la lunga marcia del pensiero, sempre con quella finirà per confrontarsi, se non vuole rinchiudersi. Perciò per me ogni reazione di donna o uomo, se è “sincera ed esatta” e nasce dall’esperienza, e perciò stesso dalla sua “materia”, ha valore.

    Allo stesso modo per cui nasce dall’esperianza della materia, in primo luogo la propria, e poi si evolve e si trasforma, la poesia, che al pensiero è vicina, se non altro perché è parola, parola di materia, persino quando sfiora l’astrazione.

    E con questo credo di aver detto, sia pure succintamente e con l’aiuto di un’altra, tutto quello che penso sulla questione.

  72. bene alcor
    continui a dicotomizzare però, e ad astrarre:) l’esperienza personale dalla cultura (che non significa libri ), cosa con la quale non posso essere d’accordo, ovviamente.

  73. Mi pare logico che da l’incontro tra un uomo e una donna nasca un essere umano. Dopo nove mesi è chiaro ed evidente che nasce un essere umano. Dopo sette mesi è altrettanto chiaro ed evidente. Dopo un giorno dal concepimento, – se noi ci ponessimo la domanda – cosa nascerà? Nel passato lo sapevano potevano pensare che l’essere umano fosse compiuto all’atto della nascita. Ma, perfino da un punto di vista logico, dato che nascerà un essere umano, mi riesce impossibile – oggi – pensare che in principio sia qualcosa d’altro.
    Possiamo fare che noi ci facciamo offuscare la mente ma non possiamo fare finta che stiamo parlando di altro. Parliamo del fatto che dall’incontro tra una cellula maschile e una cellula femminile – fatte apposta per questo – nasce un essere umano. Vogliamo conservare la nostra libertà e impedire la libertà di questo nuovo essere che è stato chiamato al mondo? Come si fa a conciliare queste libertà? Come si fa a dire che sia libertà questo comportamento? La differenza che mi viene in mente tra un animale e un essere umano è che l’essere umano ha la libertà di scegliere la propria vita. E se dico che ognuno ha la libertà di scegliere la propria vita, dico che questa libertà c’è da sempre perché altrimenti sarebbe una libertà fasulla. Dunque non posso negare che questa libertà appartenga all’individuo in quanto tale. E dunque è *in origine* propria dell’individuo.

  74. Sì bella cosa citare Simone Weil, ci vado a nozze, tra i miei pensatori preferiti. Però è meglio leggersela tutta!

    In quanto al fatto che “La teorizzazione femminile oltre a tutto è rimasta elitaria, e non ha prodotto, sulla massa delle donne, quegli effetti che le teorizzazioni maschili hanno prodotto nei secoli sulle classi dirigenti maschili loro contemporanee”, affermare ciò è cosa diversa dal dire che le donne non fanno teorie (dentro la loro mente).
    Si è detto che gli uomini fanno teorie (e teorizzano) le donne argomentano. Si è presentata l’esperienza dell’aborto delle donne che lo vivono sulla loro pelle come forma di giudizio più forte rispetto agli uomini che possono solo parlare dell’aborto. Si è voluto creare una contrapposizione che è falsa, perché il problema è mal posto, perchè la mente della donna che vive il dramma della decisione dell’aborto la vive con la mente e il corpo immerso fino nei più intimi recessi da teoria/teoria (educazione, mentalità, percezione che è costruita, rappresentazioni del mondo e della sfera del giudizio, condizionamenti psichici eccetera eccetera).
    Che cazzo c’entra il fatto che “La teorizzazione femminile oltre a tutto è rimasta elitaria” quando la donna vive in un mondo mentale abitato dagli stessi pregiudizi che abitano la stragrande maggioranza dell’universo maschile? Ma lo sapete che la vista è anche apprendimento? che esiste un modellamento culturale dei sensi che influenza eccome il nostro giudizio? Chissenefrega se le donne non teorizzano (peggio per loro se non si danno da fare. Ma sarà poi vero?), perché la teoria si muove già nell’utero!

  75. Anche l’idea che la natura stia da una parte e la cultura stia da un’altra è da discutere. Evito di citare la quantità enorme di studi successivi a Simone Weill che non ha potuto ovviamente pensare altrimenti dato che molte nuove conoscenze le scienze hanno avviato, perché ho da fare adesso. Solo per questo. E’ così bello citare, costruire apparati bibliografici eccetera eccetera…le torte è bello guarnirle bene

  76. “Ma lo sapete che la vista è anche apprendimento? che esiste un modellamento culturale dei sensi che influenza eccome il nostro giudizio?” parole perfette, non dico illuminanti per non farti inegotire troppo

  77. Vorrei porre due domande:

    Immaginate che i progressi della scienza permettessero di riprodurre al di fuori del corpo della donna le condizioni necessarie alla vita dell’embrione dal momento del concepimento fino ai nove mesi.

    Cambierebbe questo la sostanza del problema?

    Spingendomi oltre.

    Immaginate che la scienza permettesse di far sviluppare l’embrione all’interno di un corpo maschile.

    Diventerebbero gli uomini titolari degli stessi diritti che alcune donne reclamano oggi per decidere sulla vita dell’embrione?

  78. alcor, tu dici ‘rinuncio, con un certo scoramento’. e sia pure. ma per rinunciare, e magari scoràrsi, bisogna prima aver tentato, o no? e allora ti chiedo: ma con quello ‘sopra’ di te, ad esempio, cosa c’è da tentare? lì non c’è nemmeno il gusto, anche minimo, della ricerca del pusher, tanto è chiaro da chi si fornisce. immagino siano partite di cellule maschili e femminili ben rollate. si spera, almeno, che il ‘fumo’, prima di spandersi nell’aria, prenda tutte le precauzioni del caso: te lo immagini il cielo straripante di feti dal profumo d’incenso?

    massey: cino, non cina. e, in ogni caso, nella tua risposta c’è un ‘anti’ di troppo: forse ti riferivi alla brevissima fase in cui aveva dato segni di voler uscire dalla dipendenza. ma ha desistito subito, a quanto pare…

  79. @Sergio: sì, hai fatto centro. Se i bambini nascessero al di fuori del corpo della madre, l’aborto sarebbe un problema diverso. E’ il corpo che fa la differenza. Non tutta la differenza, ma gran parte della differenza. Il bambino è di tutti e due, ma è solo un corpo che vive la metamorfosi (anche se alcuni studi hanno notato notevoli mutamenti ormonali anche nei futuri padri) e il dramma-aborto.

    Quando ho fatto la villocentesi, l’ho vissuta come una violazione, ma ho accettato di farla perché sapevo che il bambino che avevo in grembo (che poi è una bambina!) non era solo mio, ma anche del suo futuro padre e se razionalmente ero d’accordo con lui nel fare l’esame, quando mi ci sono trovata lì (e anche i giorni prima) è stata durissima, soprattutto perché temevo di perderlo (ho un’amica che dopo l’amniocentesi ha perso il bambino). Avevo dentro di me la vita e facevo un esame che la avrebbe potuta distruggere. Ho avuto la fortuna di non essermi trovata davanti una decisione tremenda come quella dell’aborto volontario. Decisione che era da tenere nelle possibilità, avendo deciso di fare quell’esame.

  80. Francesca,

    grazie della risposta ma soprattutto grazie della sincerità. Come si sarà capito, sono contrario all’aborto (tranne in caso di pericolo per la vita della madre), ma sono ben contento di non dover giudicare nessuno :-)

  81. a me me piasce binaghi che ce prova co alcor. ahò, giù le mani, sa? che mi padre se ncazza!

  82. non sono lusingata, amo i carciofi più dei gigli, i carciofi sono buoni da mangiare, i gigli puzzano, ma sono contenta che Valter, con il quale ho polemizzato, non ce l’abbia con me:–)

  83. Raramente mi è capitato di leggere uno scritto di simile perfezione e bellezza riguardo tale argomento.
    Non so cos’altro dire e soprattutto non ho alcunché da aggiungere. E sono felice quando mi capita di poter e dover tacere.
    A Francesca tutta la mia ammirata laconicità.

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antonio sparzani
antonio sparzani
Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato anche due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia, pubblicato presso Mimesis. Ha curato anche il carteggio tra W. Pauli e Carl Gustav Jung, pubblicato da Moretti & Vitali nel 2016. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.