Inchino a Marianne Fritz

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di Alban Nikolai Herbst
traduzione di Elisa Perotti

Non ci saremmo piaciuti. A me non sarebbe piaciuta lei, questa donna pallida, forse traumatizzata, che a partire da Die Sterne der Romani è rimasta china per tutta la sua vita su una macchina da scrivere. E quasi sicuramente a lei non sarei piaciuto io, il macho esuberante, almeno a detta di tutti, per il quale l’eros ha più valore dello spirito della parola. Tuttavia Marianne Fritz ha profondamente influenzato il mio lavoro. Mi ha insegnato in primo luogo una postura estetica. Che un poeta non si piega al mercato, per quanto una presunta vita agiata e la prospettiva della celebrità possano allettarlo. L’opera di Marianne Fritz è garanzia di consequenzialità artistica, queste sono le fondamenta.

Ma è soprattutto garanzia di bellezza. Che nella Fritz è sempre adombrata. Perché non è una bellezza accessibile, quanto piuttosto una bellezza la cui percezione necessita d’una partecipazione attiva. Del resto, non abbiamo imparato a considerare diversamente l’arte e la musica moderne. E già siamo sul punto di dimenticarlo.

Marianne Fritz si approssima alle sue storie solo per vie poetiche. Vuole tutelare i diritti dei suoi personaggi ed è contraria sin da principio a far loro violenza con strutture della lingua da lei ritenute patriarcali. Ciò che conta non è se abbia ragione o meno; anche se credo che non si sia sbagliata. Ciò che conta è che qui sia stata sviluppata una poetica del romanzo che nell’area di lingua tedesca non ha confronti e che, a mio parere, può essere equiparata alla poetica, diciamo, di Gertrude Stein, con la quale ha in comune alcune cose – fra cui un’incommensurabilità che, almeno fino a Dessen Sprache Du nicht verstehst (La cui lingua tu non comprendi), non trova ancora piena espressione (1985).

A questo proposito Lezama Lima ha scritto, a ragione, che solo la difficoltà è stimolante; solo la resistenza, sfidandoci, riesce a mantenere flessibile il nostro pensiero. Il fatto che qualcosa non sia accessibile è infatti spesso solo dovuto ad una scarsa attitudine all’avvicinamento. Alla comodità. E a quel calcolo che non vuole libri che restino. I costi di magazzino sono troppo elevati. Soprattutto perché nessun giornalista può più leggere lunghi libri, giacché la proporzione tra dispendio di tempo e onorario non lo permette più. Di fatto Marianne Fritz ha ereditato da Robert Musil il concetto di scrittura come qualcosa che si protrae nell’arco di un’esistenza intera. La sua opera è quindi conseguenza naturale della modernità letteraria.

Ma non incrocia i binari della pensione e della carriera letteraria. Anche se è vicina come quasi nessun’altra al suo tempo, al nostro tempo. Mentre noi riusciamo a malapena ad avere una visuale completa degli avvenimenti e dei princìpi basilari della nostra vita, e tendiamo sempre a ridurre, a ideologizzare, ad attribuire parvenze di comprensibilità, nei romanzi della Fritz non è più possibile una visione d’insieme, almeno a partire da Die Sterne der Romani. Per questo ho sempre letto i suoi libri in frammenti lunghi e fluidi; così facendo li comprendo; mi areno, cado nel flusso della lingua, inciampo nell’interpunzione, leggo quindi le frasi ad alta voce – e sebbene sia sempre possibile stabilire, approssimativamente, ciò di cui si parla, non è questo che rende i suoi libri così grandi, smisuratamente grandi. Piuttosto sono i momenti, è il suono dei momenti – ed è la disperazione degli inermi a cui la Fritz conferisce tale bellezza: una bellezza calda, umana. La cui lingua tu non comprendi si muove su quel filo di rasoio che fa incontrare e affina l’astratto della musica con il concreto della ricerca e dell’immaginazione poetica, perché si oppone a ciò che grammaticalmente è troppo accessibile e gerarchizzato. È curioso che i capitoli siano articolati in modo tanto più categorico. A prima vista ricorda più la strutturazione di un sistema filosofico che non l’architettura narrativa di un romanzo; d’altronde, i titoli stessi parlano una lingua completamente diversa: “Ciononostante lasciati abbracciare, terra”; “Nero di fuliggine il volto; dovrebbe spaventarmi?!”.

Nell’opera della Fritz molto è archetipo. L’io individuale dell’autore entra nell’ombra della regressione; il romanzo parla collettivamente. Può essere questo un motivo per cui alcuni critici hanno avuto reazioni accese nei confronti di questi libri, della loro ambizione alla totalità. A cui si aggiungono i nomi dei personaggi e dei luoghi, presi in prestito dalla lingua delle fiabe e dei bambini in modo alquanto bizzarro: la Pietrofaga, il Gazzettino, Josef Zero, Abel Nessuno; Nessunaparte, Lapalissole e Danublu. Anche qui opera il regresso. Ma più minuta e infantile è l’onomaturgia, più vasto l’influsso. Infatti questo espediente letterario così semplice permette sì di sottolineare il carattere metaforico degli avvenimenti, ma questi restano sempre assolutamente concreti e tracciano la descrizione dei destini individuali: la Pietragnucolona piange davvero pietre, ma il fatto che pianga pietre è una metafora. Nella Fritz l’allegoria diventa fenomeno naturalistico. Allo stesso tempo, inoltre, ricorre ai princìpi della narrazione epica, a Omero.

Nel delineare le cose in modo infantile, da un lato viene definita la prospettiva degli indifesi, dell’inermità, dall’altra la lingua può davvero ritornare ad essere espressione, e con quale forza, dei suoi soggetti. Apre precisamente a questo. Il fatto di restare vaga le consente nuovamente delle utopie senza sfociare nel kitsch. Proprio per questo la Fritz, a dispetto del consapevole virtuosismo, non poteva più rientrare in categorie convenzionali. Che per tale motivo le sia stato addebitato uno scarso dominio della sintassi è tanto più assurdo se si pensa a quanto furono lodate le sue prime opere. Solo in un secondo momento ha radicalizzato il presunto regresso su cui si doveva fondare quest’altro sistema linguistico a-patriarcale.

I romanzi di Marianne Fritz fluiscono in maniera diversa da quelli Joyce, ad esempio, la cui narrazione era sempre orientata al fallico. Carpiscono della lingua ciò che ancora vi è in lei di originariamente umano. Anche ciò ha qualcosa di utopico, perché sembra credere senza riserve, in modo quasi naif, al fatto che nella lingua, anche nei suoi aspetti più disadorni, ci possa ancora essere qualcosa che parli all’umanità di ciascuno; la si deve solo liberare dalle incrostazioni… poi la lingua torna a parlare del tutto “umanamente”. Si spiegano così i momenti dialettali, e perché il racconto, ritmato da un’interpunzione ritenuta scorretta, si muova spesso più vicino alla parola parlata che a quella scritta.

Chi legge Marianne Fritz e si abbandona a lei, deve confrontarsi con una fede nell’umanità che è completamente estranea ai pragmatisti e agli ironici. Il suo sguardo è sempre empatico, compassionevole, carico di affetto. Non pochi punti fanno pensare alle preghiere dei bambini che ritengono ancora che il buon Dio sia davvero buono. Infonde speranza.

La cui lingua tu non comprendi è un’opera matriarcale. Il che spegne ogni polemica proprio nel momento in cui si prendono delle posizioni. Il nemico, vero o presunto, viene ancora avvolto nell’abbraccio poetico; viene trattato con sensibilità, senza essere catalogato, ed è esaudito il suo “Chi mi udirebbe se lanciassi un’invocazione?” (Volume III, Seconda parte). Significativo che la Fritz trasformi il “se io gridassi” di Rilke in un’invocazione, rifacendosi quindi a Giobbe 9. Non è l’accusa a pervadere il romanzo. Ragione che lo differenzia da quelli di Elfriede Jelinek, con cui condivide la rivendicazione di una scrittura femminile. Marianne Fritz vi si avvicina di più. Di fondo i suoi romanzi sono apolitici e sovratemporali, e anche quando la politeia svolge un ruolo, non è mai sedizioso dal punto di vista strategico, ma è uno tra mille, scorre. I romanzi della Fritz non si impegolano in attacchi, perché attaccare rientrerebbe di nuovo in una prospettiva patriarcale. Probabilmente la poetessa non aveva scelta, probabilmente la sua poetica non conosce decisioni intenzionali. Poteva solo scorrere, fino al raggiungimento del suo delta fisico, che sfocia nell’infinito.

Questo fluire del racconto in tal senso, questi sguardi continuamente rivolti alla struttura microtonale delle realtà, sguardi che girano intorno ai loro oggetti e alle loro persone, osservandoli da molte delle prospettive possibili, richiedono parimenti una lettura divagante; Kant l’avrebbe definita “contemplativa”. In questo consiste parte della sorprendente modernità della Fritz; la sua poetica si intreccia come una rete infinita di significati e di relazioni. Quasi nessuno riuscirà a seguire filo per filo tutte le sue matasse. Non è nemmeno questo il punto. Mentre Musil lavorava intenzionalmente all’incompletabilità di romanzi dal finale aperto, nella Fritz l’infinito procede secondo una struttura interna: gli spazi non vengono dilatati su un raggio temporale irreversibile, ma nei minuti stessi, scissi, in cui accadono gli avvenimenti. Ciò rende ogni secondo uno spazio potenzialmente infinito, mentre lo spazio narrativo resta definito, per così dire, in una matrice (utero!): il “quattordicesimo anno”, il 1914. Come lettori si deve entrare nell’ottica che si vivranno sempre solo dei frammenti, ma con la massima intensità. La Fritz non ci viene incontro con nessuna semplificazione. Piuttosto, affronta la complessità di un mondo che noi semplificheremmo molto volentieri e che falsifichiamo. Questa è per l’appunto la prospettiva patriarcale che, pur senza aggressività alcuna, viene privata di fondamento.

Definisco questa poetica matriarcale anche perché la narrazione non si sviluppa in una direzione prestabilita, ma in cicli. I romanzi reagiscono come organi, come veri e propri organismi, non come congegni i cui autori, con il loro ego più o meno virtuoso, pigiano tasti narrativi al servizio della meccanica e di Chronos. Ecco perché questi libri sono così difficili da digerire, se si è alla ricerca di un prodotto, cioè di una merce, che soddisfi un appagamento specifico. E lo sono ancora di più se li si deve riassumere, e quindi definire, per il mercato. Chi li ha letti, spesso non sa con precisione che cosa effettivamente abbia letto; tuttavia qualcosa è fluito in lui in modo permanente ed incisivo, qualcosa che non ha davvero uguali. Nel tono della Fritz: un tono mai udito prima. Per quanto ne sappia, che la sua lingua non si comprenda, è l’unica polemica che Marianne Fritz ha fatto filtrare. Pur sempre in un titolo.

Quando, nel 1985, mi capitò fra le mani La cui lingua tu non comprendi, avevo appena iniziato il mio romanzo Wolpertinger, il quale certamente imboccava un altro sentiero estetico; tuttavia la Fritz mi stava preparando un terreno decisivo. Thomas Pynchon a parte, che però venne dopo per me, non conosco nessun’altra opera che abbia meditato in modo così decisivo su una poetica del romanzo adeguata al nostro presente e che l’abbia accelerata. E oggi so che la mia opera non sarebbe assolutamente pensabile senza questo romanzo in particolare, sebbene io lavori molto di collage, e non risolva e assorbisca in me, come fece la Fritz. Voglio e volevo lasciare il segno, com’è nella mia natura di maschio, mentre la Fritz, essendo femmina, completa una gestazione in senso genetico e letterario. Non appena mi tuffai nella lettura del suo grande romanzo, divenni consapevole di questa differenza; di fatto si tratta di una differenza dovuta al gender, e la si deve assolutamente mantenere, proprio contro le tendenze all’ibridazione del presente economico, conformi al meccanismo capitalistico: smerigliare tutti i contenuti, riducendoli ad una formula di equivalenza, ad un valore d’uso veloce, cioè ad un valore di ricambio; alla fine non è nient’altro se non un valore di consumo. Non lo si deve fare con la Fritz.

Che una cosa del genere possa essere ancora sostenuta solo al margine dell’autosfruttamento, si tratti del singolo e/o di una casa editrice, non meraviglia certamente nessuno. D’altra parte che le opere d’arte non vendano non deve andare ulteriormente a loro discapito; la marcia trionfale di ciò che è popolare, che avanza di pari passo con la marcia trionfale del capitalismo, spazza via tutto fin troppo facilmente. Ciò che per noi, oggi, è una conquista ovvia della cultura, fu non di rado ignorata, se non combattuta, nella sua epoca; si pensi ad esempio a van Gogh, a Kleist o al Beethoven degli ultimi quartetti per archi, che ancora fino agli anni Cinquanta gli stessi esperti ritenevano malriusciti. O a Marianne Fritz.

In tutto ciò la cosa triste è che i tanti oppositori della poetica della Fritz, come alcuni dei suoi parziali simpatizzanti, sembrano non essere per nulla consapevoli della poesia che ci viene regalata… quanti momenti di commozione profonda, tuttavia senza che la nostra commozione venga banalizzata in una sensazione di mercato manipolabile: la poesia di Marianne Fritz dereifica. Forse questo è il più grande contributo che la poesia possa offrire. Io stesso non riesco più ad immaginarmi – e non desidero farlo – senza la Volpe sul fondale, l’antenata del paese che dal fondo del mare parla a tutte coloro che le succederanno: magica, mitica, per consigliare e consolare. Senza di lei non riuscirei a immaginarmi come senza Josef K., senza Simplicius, senza Nadia e senza Ada. Non riesco più a immaginarmi senza Johannes Zero, il bandito, protetto fin dall’inizio di questo poema epico dalle lanciatrici di serpenti e che Marianne Fritz voleva proteggere, finché non morì il 1 ottobre 2007 all’età di cinquantotto anni vittima di una grave malattia. E dell’ignoranza.

Dovremmo tentare di rimediare. Se a tale proposito l’Austria, la Germania e la Svizzera istituissero un “Premio Marianne Fritz” per poetesse che con perseveranza percorrono sentieri linguistici femminili, quest’opera ora interrotta proseguirebbe in altre. E la sua utopia umana non sarebbe più così distante dal mondo.

 

Alban Nikolai Herbst, nato a Refrath nel 1955, ha studiato filosofia e vive a Berlino. Nel 1955 gli è stato conferito il “Premio Grimmelshausen” per il romanzo Wolpertinger oder das Blau (Wolpertinger o il blu). Attualmente è docente di poetica all’università di Heidelberg. Il suo romanzo Meere (Mari), a lungo proibito e pubblicato sul numero 2/2007 di VOLLTEXT, esce ora sotto forma di libro per la Axel Dielmann. All’indirizzo www.albannikolaiherbst.de Herbst gestisce un sito assiduamente frequentato.

2 COMMENTS

  1. sembra molto interessante la presentazione di questa figura femminile che non conoscevo e che parla una lingua che richiama i grandi poemi, la profondità degli archetipi…
    è curioso come quasi tutti abbiamo una figura che ammiriamo, che ci guida, che in certo modo ci influenza, ma con questa figura si avrà sempre un certo distacco dovuto forse alla stima, o al pudore…
    o magari, semplicemente, non esiste più.
    il fatto di parlare, nella narrazione di un libro, a un collettivo, io non lo trovo particolarmente presuntuoso se questo narrare viene fatto con una certa umiltà, con tono sapienzale ma non categorico.

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Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.