Addio alle armi!

di
Andrea Bottalico

Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito
Il mio viaggiare
È stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

G. Caproni
Biglietto lasciato prima di non andar via.

Di una rabbia che mai si sazierà….memorie di un viaggiatore insonne
Il controllore scese dall’ultima carrozza con gli occhi assonnati sotto la coppola verde e le orecchie infreddolite. Neanche il tempo di accendere una sigaretta fuori che la sua voce secca rimbombò lungo il binario preceduto dal solito fischio, come un boato:
“Chiudere!”
Una signora sulla quarantina presa dall’ansia di fumare gettò suo malgrado la cicca appena accesa, e dopo aver bestemmiato salì di nuovo all’interno del treno, poi di nuovo lo strillo.
“CHIUDERE!”

Il solito Espresso notte. Quante volte l’avrò preso in un anno!? I ricordi dei viaggi passati si mescolano tutti insieme creando una matassa da cui è impossibile venirne a capo. Caserta Bologna Bologna Caserta passando per Roma Tiburtina poi Termini cambio direzione poi scintille sulle rotaie che sfrecciano nella galleria oscura finché il treno non esce dall’oblio come una pallottola da una pistola e finalmente vedi il cielo stellato ed il respiro rallenta insieme al serpentone di vagoni con il battito del cuore irregolare e sfasato…(troppo veloci, i pensieri nel treno, troppo veloci!).

Gli odori sono sempre gli stessi: quello forte ed aggressivo delle signore che resta incollato alle pareti degli scompartimenti per tutto il viaggio, il sudore mescolato alle imposte di pane mortadella e pomodorini secchi, quello fastidioso e acido che sa di plastica bruciata quando il treno è in fase di frenata, i fazzoletti intrisi d’olio delle frittatine di maccheroni preparate dalla mamma premurosa, il bagno che emana l’oramai familiare tanfo di pesce andato a male innaffiato dal solito deodorante scadente. In quel dannato treno si muove tutto quello che sta intorno, escluso il treno stesso…sembra un mondo sigillato dall’esterno. Come posso spiegarla quell’angoscia che provo quando ci salgo su? Che poi non è solo angoscia. E’ inquietudine eccitazione malinconia e speranza. Fastidio e rabbia, quella rabbia innocente che sbuca dal nulla e detta legge ai movimenti, la stessa che mi costringe ad andare via, forse. Lei decide per te e tu resti muto ad assecondarla. (quando poi non ho il biglietto viaggiare vuol dire soprattutto adrenalina pura, cuore in gola e fuga dal controllore con in testa la delirante musichetta di quei tre in “febbre da cavallo…”). Una volta mentre guardavo fuori dal finestrino le luci che si disperdevano nel buio come galassie incomprensibili, mi venne come uno svenimento, persi i sensi e mi ritrovai non so quanto tempo dopo (il tempo? E cos’era? Che importanza aveva?) sdraiato e convinto di essere nella stanza buia di casa mia, completamente spaesato. In quegli istanti il vuoto, totale. Sarà stata la stanchezza delle ore passate allerta e la sbronza della sera prima.

Prima di ogni partenza la testa produce la solita domanda che riecheggia e cade nel sordo silenzio disturbato dal frastuono, una domanda che non trova risposta, che genera altre domande e pensieri che martellano chiodi nel muro spesso delle immagini accumulate in questi anni lontano da casa: “Ma dove diavolo sto andando? Perché vado via?!”
Ero tranquillamente seduto in uno scompartimento dall’aria pesante e colma dei respiri affannati, pronto ad affrontare la nottata insonne, perché in effetti non riesco quasi mai a prendere sonno nel treno; è un vizio che mi costringe a restare sveglio. Devo perlustrare tutti i vagoni (quando è possibile). Devo guardare i volti, le facce abbronzate e stanche che masticano dialetti incomprensibili e lingue attraenti; mani spesse dei lavoratori abituati a mantenere l’equilibrio sulle impalcature, tutte quelle persone indecifrabili, impenetrabili e misteriose, i cinesi che scendono a Prato centrale. La desolazione delle stazioni dimenticate, le fronti sudate ed ingiallite che salgono sul treno affaticate da bagagli giganteschi; Loro sono pur sempre dei compagni di viaggio che condividono la snervante attesa dell’arrivo a destinazione. Morale della favola, resto sveglio tutto il tempo.

Quella sera il treno non era stracolmo (strano, stranissimo). Nel corridoio c’era un senegalese seduto al seggiolino che russava profondamente. Dal bagno in fondo proveniva ad ondate un forte odore di marijuana; Due ragazzi uscirono con le mani sullo stomaco per le risate quando videro un vecchio signore in canottiera bianca e pelle scura e braccialetti d’oro e catenina in petto che rifletteva il suo volto rugoso al finestrino e borbottava tra sé parole incomprensibili (fece questo per tutto il viaggio…) Andai a fumare nel piccolo spazio alla fine del vagone, vicino al bagno, e come al solito restai ipnotizzato dallo spettacolo che si ripeteva all’orizzonte: zone industriali piene di ciminiere che sputavano fumo denso e bianco e luci al neon che illuminavano strade completamente vuote. Poi il buio, fitto e tradito dai fuochi incendiati nelle città in lontananza, con i lampioni giallognoli degli angoli nascosti nelle campagne abbaiate.
Ad un tratto l’aria si impregnò del forte odore di tabacco.

C’era un altro tizio a fumare, che appena mi vide fece un cenno con la testa come a dire “ci tocca aspettare e fumare, poi aspettare ancora e fumare, maledizione!” Un gesto di comprensione, un si con il capo e gli occhi semichiusi, un modo semplice per mostrare la rassegnazione, condividerla.
Un maghrebino con il volto sfregiato aveva la schiena appoggiata alla porta del bagno e spontaneamente se la rideva…
Il tizio si chiamava Gerardo. La prima cosa che notai era la sua ansia. Non era soltanto per il desiderio di arrivare, c’era di più. Il cranio rasato a zero, la barba appena tagliata, Gerardo mentre parlava portava spesso la sua mano destra sulle palle, come a grattarsi o rassicurarsi che da quelle parti fosse tutto sotto controllo. Era una sorta di tic. Chi si tocca la punta del naso chi scherza con i riccioli dei capelli, Gerardo constatava ogni tre e quattro la consistenza del suo attributo, ma senza malizia. Ci misi poco a capire che Gerardo era un soldato. Un alpino, per la precisione, nato e cresciuto a Nocera Inferiore.
“Un posto di merda!” esclamò, mentre i rumori delle rotaie sui binari invadevano le voci, e per comprenderci dovevamo gridare. Aveva voglia di parlare, doveva confidarsi con qualcuno, sfogare. Forse per la necessità di vedere il tempo passare chiacchierando, anzi urlando.
Se ne tornava a Bolzano dopo una settimana di congedo, e per attaccare bottone mi mostrò la foto sul telefono di una donna mezza nuda:
“Mi sta aspettando, Deborah, bella eh!?. Non vede l’ora che arrivi. A me neanche me ne frega, tanto io fra poco mi sposo; giusto il tempo di un’altra missione. Intanto a Bolzano quando posso vado da lei, devi sentire come parla, con quell’accento mezzo tedesco! A me fa impazzire!”
Nel frattempo accese altre quattro sigarette, il maghrebino sorridente andò via e restammo soli, imprigionati dal fumo. Gerardo portava la sigaretta tra le labbra serrate come uno schizofrenico, se ne stava lì a gesticolare e ad urlare per farsi capire. Le mie orecchie erano confuse dalla sua voce rauca, che graffiava la gola.
“Sono cresciuto nel buco di culo dell’Italia meridionale” disse. “Quando avevo la tua età facevo tante di quelle cazzate che adesso se ci ripenso mi sembra di guardare allo specchio un’altra persona. Le alternative di chi nasce in certi paesini sono poche. Io ad una certa età dovevo soltanto scegliere: affiliarmi in uno dei clan della zona, fare soldi con lo spaccio insieme ai Maiale.. altrimenti il militare. Di studiare non se ne parlava neanche. Alla fine decisi di arruolarmi ed andare via, anche perché mio padre mi implorava di partire. Tanto una guerra vale l’altra! E poi non ero fatto per mettermi con qualcuno, ero troppo fuori con la testa, pensavo solo alle femmine alle droghe alla discoteca.. avevo bisogno di scappare via di casa, allontanarmi da quella fogna.”
“L’esercito mi ha cambiato, ma le missioni sono state la cosa più allucinante.. Kosovo Macedonia e poi Bosnia…quante ce ne sono capitate! Una volta ero di pattuglia a Mostar, di notte. Ad un certo punto vedo arrivare un gippone. Scendono in quattro di loro con i kalashnikov in mano; immagina una paranza come da noi. Era un gruppo di uomini armati, e ci stava pure il capo che si avvicina verso di me e dice che deve parlare con il colonnello. Io all’inizio non capivo, vuoi per la paura ma anche per la lingua.. In poche parole era successo che il colonnello aveva scopato una ragazza che apparteneva a loro, e così gli dissero di sposarla. Non aveva troppe scelte, il colonnello. Doveva sposarla altrimenti sarebbe scoppiato l’inferno. Adesso il colonnello è sposato con questa ragazza e ha tre figli. Se l’è portata in Italia..”
Avevo praticamente la bocca secca, senza più saliva.
“Fra un pò me ne vado in Afghanistan” disse, mentre il viso mutò espressione in una frazione di secondo; “dicono che è pericoloso, che per qualsiasi cosa devi avere il permesso dagli americani. Non puoi sparare un colpo senza una loro autorizzazione. Un altro pò e se vuoi andare al cesso devi chiederglielo agli americani, mentre loro fanno quello che vogliono, quei bastardi!. Tutti me ne parlano male di Kabul, dicono che è pericoloso, ma io se non vado a vedere con i miei occhi non posso saperlo! E’ inutile lasciarsi prendere dal panico prima, è inutile..
Giuro che dopo l’Afghanistan levo mano, lo giuro!”
Continuavo ad ascoltare Gerardo, anzi fui rapito dalle sue gesticolazioni frenetiche, la fretta di parlare; il modo in cui mangiava le parole con quel dialetto rivelavano in realtà una disperazione dissimulata. Avevo gli occhi annebbiati dalla stanchezza. Iniziai a martoriare le unghie delle mani sudate, mentre lui se ne stava lì a fumarne una dopo l’altra e raccontava ancora nascondendo il suo nervosismo addestrato. Di Deborah e delle parole sacrosante di suo padre in punto di morte, del suo desiderio di sposarsi e mettere su famiglia, la voglia di tornare a casa, abbandonare quella Bolzano così fredda e triste.. dopo tutto quello che mi svelò restammo senza dire niente, in un silenzio quasi imbarazzante, complice, con il sottofondo delle rotaie che picchiavano violentemente sui binari.

Finchè non arrivai a Bologna, come per magia. Tutto il tempo a bestemmiare contro l’attesa e la sete, poi le parole di un soldato ansioso lasciano al tempo lo spazio per passare nello spiraglio.. Ricordo che appena il treno si fermò alla stazione di Bologna Gerardo mi guardò scendere con i suoi occhi gelidi e stanchi. Mi aiutò a prendere il bagaglio pesante salutandomi con una tenerezza repressa insolita e sfigurata. Adesso sarà a Kabul cosparso di granelli di sabbia a implorare contro gli americani oppure a sud del Libano o magari avrà deciso all’ultimo minuto di non partire, chissà.
Qualsiasi destino abbia abbracciato, qualunque scelta abbia preso, ricordo benissimo la sensazione che provai quando scesi dal treno. Di una rabbia infantile, istintiva e terribilmente viscerale, accompagnata da una fitta all’imboccatura dello stomaco, un forte bruciore. Mi incamminai nella nebbia del primo mattino verso la città vuota, con solo gli spazzini che sbadigliavano facendomi compagnia, e non riuscivo a togliermi dalla testa quel soldato. Dannazione! Gerardo lasciò dentro di me (te lo giuro) una rabbia, che mai si sazierà!

8 COMMENTS

  1. Un bel racconto che fa condividere il viaggio con le sensazioni (odore di cibo), la sete, la stanchezza. E soprattutto lo stato mentale: speranza, ansia, nervosita. Perché non è un viaggio turistico, è un viaggio tra due vite, come un cambiamento di tutto. Il viaggio invita all’incontro, e il testo descrive il personaggio con minuziosità, Gerardo si impone nella lettura, come viaggiatori fuggitivi che restano come impronte nella mente.

  2. il treno metafora fugge lontano dalle nostre vite e s’aggiunge alle decine d’altri intasati in una qualche galleria della mente. Un viaggio salvato, una storia fissata, un masticare ripetuto, uno sputo che parla, sono il treno rapido, stanco, puzzolente e carico che non lascia scendere i suoi passeggeri continuando su altri binari e infinite stazioni. E quelle storie sospese nell’alcova della parola sono impegno e memoria, dovere. Si staglia il soldato, che mai potrà smettere d’essere tale, anche in congedo. E lì che, credo, nasca la rabbia. Uomini costretti in maglie troppo strette che umiliano la scelta, da libera a coatta.

  3. @luca tedoldi
    difficile rispondere ad un commento del genere, che sia “all’altezza” (?)
    …comunque ci provo:
    diciamo pure che i versi di Caproni hanno semplicemente ispirato il racconto, non che il racconto pretendeva di essere all’altezza di qualcosa o qualcuno. Anzi! Al limite “abbassarsi” verso qualcosa o qualcuno…
    Naturalmente dopo l’ispirazione bisogna osare, altrimenti in bocca resta un sapore che non potrei sopportare a lungo…
    Del resto ti assicuro che un “buon viaggio” in espresso notte potrebbe offrirti impressioni diverse dalle mie, sicuramente valide ed importanti …se poi viaggi sempre in eurostar, mi dispiace, sono desolato. In tal caso mi permetto di consigliarti un magnifico documentario di pietro marcello, “il passaggio della linea”…giusto per guardare con altre lenti l’emigrazione nascosta e silenziosa.

    Ieri sono rimasti feriti due militari in afghanistan, vicino herat. Di loro non si sa nulla, fonti dicono che uno è grave altre dicono che sono fuori pericolo. Il ministero della difesa non fornisce altre spiegazioni e ribadisce la linea strategica dei militari italiani in quel paese.
    A’ tout!
    A.

  4. @benni: quello credo si chiami giordano…

    @andrea: niente male il tuo racconto, ma certo non mi lascia a bocca aperta come i versi di caproni. Tutto qui. Hai fatto comunque bene ad osare. Grazie per il consiglio del documentario.

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francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017