Pont des Arts (Aria e dieci variazioni)

cartolina b/n

Con una sosta delle cose, intorno ad esso, l’illusione di un guasto nel tempo…

di Chiara Valerio
I. È l’unico con un paletot chiaro. Se non ci fosse, qualcuno, uno qualsiasi, io pure, guardando dal basso, quasi dall’acqua, penserebbe che non ci sia vento. L’immobilità delle quattro figure in abiti scuri farebbe dimenticare le increspature delle acque del fiume. Cammina veloce, con i libri sottobraccio e l’aria dello studente che sta per arrivare tardi a un appello, l’ultimo della sessione autunnale. Non arrivare sarebbe come non poter rientrare a casa per le vacanze. Rimanere interdetti fuori dalla porta per una marachella più grande del vezzeggiativo che la definisce. Così cammina a passo svelto, concitato e diretto, ha una meta ma non l’aria dello studente, il sole tra i capelli scuri riflette un bagliore di fili bianchi. Forse è un professore. Sì è un professore, mi convinco, potrei scommettere. È un professore in ritardo per una riunione con altri professori. Se non riesce a essere in quel circolo, intorno a quel tavolo nei prossimi dieci minuti perderà ogni possibilità di interlocuzione ché i ritardatari non hanno diritto alla parola, se fosse rettore eliminerebbe questa regola salica di primogenitura della seggiola, ma rettore non lo sarà mai e comunque non è il momento di sprecare energie in farneticazioni accademiche. Rallenta e si volta a sinistra come se gli fosse volato uno scontrino dalla tasca o un appunto da un volume, rallenta ma lo sguardo scivola troppo in basso, oltre la striscia asfaltata del ponte. Fissa l’acqua, in basso. Sul fiume c’è un battello che si chiama Suzanne, rallenta, leggere lo ha sempre distratto, questo è certo, e rilassato, rallenta ancora ma un poco, appena il tempo che il soprabito, leggero, settembrino gli si sgonfi intorno alle gambe disordinatamente come una vela ammarata da un mozzo inesperto, senza frenarlo.


II. Angela ricorda improvvisamente che non sarebbe dovuta uscire. Il vento le scompiglia i capelli appena sistemati in una acconciatura forse troppo vistosa. Non è il disordine possibile a preoccuparla ma la sua crocchia da ventenne. Le ossa le dolgono perché il clima è volubile e la testa, perché ascolta ancora sua madre ripeterle Angela non uscire se i capelli non sono bene asciutti, fai due chiacchiere prima di lasciare la poltrona del parrucchiere lui sarà contento e tu non avrai mai emicranie, Angela tu sai quanto io soffra di emicranie. Angela, ferma sulle scarpe col tacco quadrato che non ama ma che deve portare perché ogni età ha forma e altezza di tacco pensa che senza la madre non avrebbe mai avuto la sensazione dell’emicrania prima dell’emicrania. E anche senza. Non soffre di mal di testa ma è sempre preoccupata di poterne soffrire. Sorride al fantasma che le si para davanti e allarga le gambe per perseverare in una parvenza di equilibrio. Una volta si era tagliata i capelli cortissimi, forse durante una contestazione. Contro chi non ricorda, ma sa di essere tornata a casa e chiesto, una provocazione, alla madre quanto le sue emicranie dipendessero dall’umidità che la massa di capelli crespi e corvini le manteneva intorno ai pensieri. Quanto i pensieri impregnati d’acqua diventassero pesanti, insopportabili. Quando infine sarebbe caduta la goccia di umidità a farle scoppiare un definitivo mal di testa. Sua madre non aveva risposto e forse nemmeno capito tutto, per filo e per segno, ma guardandola negli occhi neri e specchiandovisi appena, giacché Angela e sua madre si somigliavano spesso, come gocce di un lavandino rotto, aveva sussurrato, sdegnosa, Meglio l’emicrania che l’ansia spigolosa dei visi in piena luce. Se c’è un fiume c’è un ponte per passare oltre. In tempo di pace.

III. Mantenere la testa dritta, guardare avanti, non lasciarsi confondere dai mormorii della folla e dallo sciabordio dell’acqua. Decidere un obiettivo chiaro e perseguirlo. Inquadrarlo. Tenere i pugni chiusi, pronti alla battaglia o alla zuffa se la battaglia fosse troppo lontana nel tempo e nelle occasioni. Fermarsi impercettibilmente a metà di ogni rombo che orna la ringhiera del ponte, esserne la diagonale corta. Essere normale al terreno e a se stessi. Osservare gli altri, distratti, che non saprebbero elencare tutte le figure geometriche che hanno incontrato e calpestato dalla mattina alla sera e che nemmeno si rendono conto che il portone del loro appartamento è un angusto rettangolo. Guardare ancora avanti lasciando che il passo, breve, misuri la distanza tra una diagonale e la successiva. Piccoli passi, recitabili, come nei duelli a fuoco, in una tenzone differita. L’io che va e l’io che viene, avanti e indietro, fino a non lasciare vergine nemmeno una diagonale, fino a diventare parte di un disegno ordinato, di un motivo. Superfluo alla struttura e necessario all’addobbo. Avere un motivo. Mantenere la testa dritta, il mento in linea col busto, le spalle aperte a colpi bassi di passanti incoscienti che nemmeno per fortuna potrebbero essere obliqui ma che non si dolgono, con la superbia della loro pochezza di passeggiare secanti e sghembi a qualsiasi armonia. Mantenere dritta la testa.

IV. Quando la nebbia non sale dal fiume ma scende come una condensa untuosa dal cielo grigio non c’è speranza di incrociare gli sguardi distratti di chi cammina sul ponte a fianco. Non che io veda bene e non che mi fissi come una alla quale manchino ingranaggi, ma faccio caso agli sguardi. Oggi non c’è che scrutare la marea e la Suzanne che finisce il giro. Suzanne domanda e l’acqua risponde di tutto quello che ha visto durante il giorno, e raccoglie informazioni di cartoni, taniche di benzina vuote, pesci morti e ogni tanto suicidi. Se la nebbia salisse dal fiume la Suzanne sarebbe una chiatta qualsiasi come quella che le sta a fianco piccola e ruggine, battelli da diporto e da lavoro nemmeno degni di essere nominati. Una volta mentre camminavo su questo ponte leggero da sembrare uno schizzo a matita ho visto l’argano pescare un corpo. Non era blu e non verde fango, non era un naufrago o un suicida, solo un uomo che non aveva visto l’acqua passeggiando sull’argine basso del fiume ed era affondato senza urla e senza tonfi secchi. Forse era sera, forse i clacson delle auto assordavano tutto o forse la nebbia che sale dal fiume copre ogni rumore. La borsa mi pesa sull’avambraccio ma odio tenerla in mano.

V. Non sono un autarchico. Il lampione è la metà del ponte e io la metà della nostra coppia interrotta, riesco a rimanere in equilibrio anche da solo e accetto, quando barcollo di argomentazioni, di appoggiarmi alla piantana con tutta la sinistra del corpo. La destra è alla berlina dell’aria comune. Del marciapiede e del transito, non luoghi e senza spigoli. Qui in mezzo, un poco dimidiato, sto per spingere gli occhiali fino a metà del naso adunco e rendere netto il mio sogguardare. Ancora una divisione per due. Quando un uomo miope vuole sogguardare, deciso nel farlo, deve abbassarsi gli occhiali. Per adesso resto fermo col ginocchio piegato a mimare, in vece di una espressione, disinvoltura. Sembro un uomo disinvolto, i pantaloni morbidi, il maglione scollato a V, gli occhiali di osso a regalarmi un’aria rivoluzionaria. La aspetto e la metà della mia attesa è il suo ritardo e vado alla rivoluzione così come si deve. Con la camicia bianca ben inamidata nascosta da un maglione sdrucito per ricordarmi la necessità di prendere il ruolo dell’uomo che si è defenestrato, per rammentarmi, giovane e pieno di ardore, che chi va alla rivoluzione deve anche assumersi le responsabilità delle azioni a venire. A venire. Avvenire. Lo scollo del mio maglione aggiunge la V che manca per trasformare la necessità in futuro e io gioco con le parole ancora a metà di questo strano ponte semideserto sull’acqua color dell’arcobaleno. Un amico mi ha detto che è l’olio delle chiatte, che non c’è meraviglia, è l’olio che inquina e distrugge. Sogguardo in lontananza le sue scarpe che arrivano, inghiotto ogni mia critica e deglutisco, il rosa delle scarpe è l’evidenza che nessuna metà esiste per quelli in equilibrio come me.

VI. Se l’uomo con la giacca a tre quarti si volta adesso tutto andrà come deve. Io prenderò i guanti bianchi e tornerò nel bar all’angolo a consegnarli a mio figlio. Guarderò questo sconosciuto negli occhi, come fossimo intimi o avessi di che minacciarlo, per ringraziarlo profondamente da parte mia e di tutta la famiglia. E delle generazioni future. Un ufficiale che dimentica i guanti è lo zimbello di una caserma intera, se poi è giovane e ultimo arrivato è peggio. Non sono mai stata militare ma mio marito lo era ed è morto durante la guerra e mio figlio è vivo ma se ne sta seduto sulle mani come una scimmia addestrata alla contrizione. Se si volta adesso io riuscirò ad avanzare dei passi che mi servono per giungere alla distanza di un braccio, senza pensare che questi lembi di stoffa bruciano come monete false. Nella fretta ho dimenticato la borsa ma ho le tasche capienti. Se qualcuno lo vedesse, se qualcuno sapesse che ha trafugato un paio di guanti di un ufficiale sarebbe messo in cella di rigore e beffeggiato, forse altri ostenterebbero un risolino ambiguo di una contiguità implausibile. Qualcuno potrebbe chiedersi perché questo giovane uomo riccio ha le chiavi della cassettiera in mogano di mio figlio. Io no, mi vieto gli uncini, sono un corriere particolare ma pur sempre un corriere e loro due sono uomini, anche se uno è mio figlio. Nel bar qualcuno gli ha chiesto Prende qualcosa e lui No con la testa crucciata e l’espressione di un bambino rimproverato e poi mi ha guardato disperato, più disperato di quando pioveva e ho cercato di coprirgli la testa con l’ombrello. Se si voltasse ora, quell’uomo in borghese mi renderebbe il compito più facile, ma immagino di dover arrivare al lampione e dire Ha un paio di cose che mi appartengono, e poi allontanarmi stipando i guanti morbidi nel fondo della tasca, le questioni sulle chiavi in fondo alla gola e lasciare la carta pane, involucro inconsistente, morire nel letto del fiume.

VII. Non mi ha riconosciuto. Ho provato a salutarlo ma era perso dietro a un foglio volato via dalla tasca, ho alzato il braccio in un moto adolescenziale di giubilo e l’ho rinfoderato. Non avrei dovuto, so che la sua, anche se involontaria, è la reazione giusta. Se mi avesse visto avrei potuto criticare una reazione invece così è perfetto, lui è perfetto e io ancora poco cresciuta. Mi sento donna e stupida come non mi succedeva da anni, come davanti allo specchio di una discoteca nella contiguità sudata e forzosa di altre venti donne ammassate a rifarsi un trucco che non durerà il tempo di tornare sulla pista. Se il luogo di questo incontro unilaterale, monodico, fosse stata una scala avrei potuto voltarmi indietro e chiamare Carlo quasi il singhiozzare imposto dai gradini al fiato e alla memoria mi avesse impedito di pronunciare il nome nella breve, immediata orizzontalità, di un gradino condiviso. Invece qui, sul ponte, senza scale e senza ostacoli io l’ho riconosciuto e lui pensato ad altro. Qualsiasi cosa ci fosse scritta sul foglio che veleggia, precipita e fluttua, le eliche della Suzanne che lo aspettano non avranno contezza o senso di privilegio nell’ignorare di aver distrutto un ricordo, una informazione o un pensiero. Io non so se abbia perso l’abitudine di annotarsi le impressioni e i colori che il mondo gli proietta sugli occhi verde e oro. Una volta, una vita fa, quando nessuno dei due portava cappotti lunghi o soprabiti eleganti, mi ha condotto in una strada affollata come la parola soqquadro e detto Guarda, non mi ero mai accorto che ci fosse un glicine, qui c’è sempre un bailamme e io non avevo mai visto il glicine, non lo trovi meraviglioso? Oggi non si è accorto di me, ma forse è l’odore di umidità e una eco di fanfara.

VIII. Tenere un segreto. Le onde intorno alla chiglia delle barca sembrano dragoni danzanti in una festa cinese, con i baffi impazziti di movimento e le code inquiete a nascondersi nell’acqua del fiume. I dragoni si mascherano da schiuma come i cuccioli di gatto da gomitoli di lana. Questo ho scritto dopo C’era una volta. Mi aspetto musica di flauti e sbuffi di oboe. Quando ho cominciato a camminare stamattina non pensavo che sarei arrivato fino a qui rimanendo zitto zitto, con la penna rinfoderata nel taschino, inane. Sono andato a letto credendo di non prendere sonno e mi sono svegliato pensando di non riuscire ad alzarmi e ora sono qui e tengo al petto i miei diari e le carte nella speranza che il vento non li muti in farfalle e i draghi le mangino. Tenere un segreto, disciplinarsi nel tentativo di tacere per sempre, un giorno dopo l’altro, non cercare la condivisione degli amici o di una amante e ricordare di tirarsi dietro come una tartaruga ogni piccola riga, per non lasciare tracce. I miei appunti sulle tovaglie di carta sono come le molliche di pane di Pollicino per tutti i curiosi del mondo, ogni linea è una striscia di zucchero per occhi golosi e previdenti come formiche. Tenere il segreto e con ogni gesto e oltre ogni argine avanzare nel mio zoo fantastico. Fiero e cauto. L’uomo davanti a me è fermo come uno che sa quello che deve fare per non inciampare al prossimo passo.

IX. Quando ho cominciato a lavorare su questa zattera vestita da nave da diporto nessuno le aveva dato un nome, poi il capo si è spostato e l’ha chiamata Suzanne, per non confondersi le intenzioni nei confronti della sua prima moglie. Per ricordarsele e ricordarcele, affinché nessuno ne pronunciasse il nome con una qualche intonazione languida. L’intonazione è diventata un’altra parte del lavoro perché non è possibile rimanere monocordi e asessuati e casti nelle parole e nell’inflessione quando tutto il giorno si va avanti e indietro e su e giù e a destra e a sinistra in balia della brezza e dei reflussi di marea. L’acqua addolcisce i toni, li illanguidisce. Forse serve una cima per non andare alla deriva. Una volta ho provato a dirglielo e lui mi ha tolto il turno della domenica col quale compravo i dischi. E allora ho taciuto. Lavorare su un fiume non è come veleggiare nel mare, specialmente in uno così, di città, che ti permette di conoscere luci e persone dal basso, di sguazzare nel ventre umido delle case e di guardare i passanti e le auto come esseri di un altro mondo, limitati, nel quale è possibile solo procedere avanti e indietro, mentre a te resta la coscienza di potere affondare. Andare sotto. Sotto questo ponte pedonale dove il tempo scorre senza orari e gli uomini e le donne sembrano scegliersi in un giro di cotillon una donna si è fermata come un cavallo impazzito e qualcuno ha perso un foglio che l’acqua scolorirà prima di adesso.

X. Alla fine del ponte c’è un telefono e al di là del telefono, dopo un intrico di fili lei. Aspetto che scocchi l’ora e me ne sto a guardare gli altri, qui intorno. Aspetto di sentire la sua voce pure oggi, felice come se stasera tornassimo a dormire nello stesso letto quadrato. Quando l’ho incontrata per la prima volta ho pensato che i suoi capelli sarebbero stati perfetti dieci anni prima e adesso eccessivi, che la sua camicia dal colletto coreano si portasse dietro esattezza ma fosse di una tonalità di blu violenta rispetto al pallore del volto. Sono salito sulla sua auto perché mi ero perso e abbiamo cominciato a perderci in due. Allora ci siamo fermati e preso un tè, alla pesca, e io corso fino a qui dove sono adesso per farmi accendere una sigaretta. La sua macchina non aveva un accendisigari e nemmeno un posacenere. Una auto salutista, bella e grigio perla. Delicata per gli occhi e per la polvere. Discreta. Con la sigaretta in bocca mi sono voltato per guardarla ed era lì, coi capelli rossi e folti e l’aria interrogativa, ridente. Ho pensato ride di me e mi sono appoggiato alla ringhiera come una giovane donna che si impressioni per una analisi del sangue. Penso, ricordo e temo che qualcuno si fermi a chiedermi Come sta? Risponderei Sono solo. Per rispondere una verità. Senza di lei sono solo e nervoso che a mezzo del ponte, fra dieci respiri e troppi affanni, da quel cavo possa uscire solo la sua voce. Due uomini sono davanti a me due donne dietro, intorno nemmeno una coppia. Se ci fossimo fermati sul ponte degli innamorati al posto di quadri e velleità forse avremmo bambini. Topografia infame.

In claris non fit interpretatio. Giurista com’era aveva messo le briglie al pensiero. Inventare dieci o cento o numerabili ipotesi sulla cartolina non lo mutava in Sheherazade. Se i racconti non mi salvano la vita e non mi consentono di vivere, se posso vestirmi di veli e incontrare sultani e principesse senza essere io stesso parola, se non sono mai stato a Parigi ma posso riconoscere ogni angolo che sia stato fotografato o dipinto, se un termine finché non lo si è concordato in un linguaggio a due o a gruppo può avere dieci significati e sfumature, se è vero che esiste sempre un altro punto di vista e una prospettiva e un taglio particolare e commistioni e revisionismi e eccezioni alle regole e regole e tre periodi ipotetici io posso dire di essere scavato da un verme immondo o di avere appena un vizio?

10 COMMENTS

  1. Non è un caso che al colmo di un ponte gli antichi mettessero edicole sacre. Costruire ponti è patteggiare col diavolo (e spesso ingannarlo). Attraversare lacerazioni fluviali è pericoloso. E poetico, come queste tue solitudini, Chiara.

  2. certo, costruire ponti è poetico.
    quello in foto però forse si chiama Pont des arts.
    solo per la precisione dopo l’emozzione.

  3. @ Tash. e devi dirmi come si chiama perché devo cambiare il titolo! Ho sempre creduto che il ponte di fronte all’Acedemie des Sciences si chiamasse des Artes… ehm… in effetti leggere è meglio di credere…

    @ Gianni. lacerazioni fluviali è più poetico di tutto. anche perché sembra insanabile. nonostante il ponte.

    chi

  4. È l’unico con un paletot chiaro. Se non ci fosse, qualcuno, uno qualsiasi, io pure, guardando dal basso, quasi dall’acqua, penserebbe che non ci sia vento.

    ma lo sguardo scivola troppo in basso, oltre la striscia asfaltata del ponte. Fissa l’acqua, in basso. Sul fiume c’è un battello che si chiama Suzanne, rallenta, leggere lo ha sempre distratto, questo è certo, e rilassato, rallenta ancora ma un poco, appena il tempo che il soprabito, leggero, settembrino gli si sgonfi intorno alle gambe disordinatamente come una vela ammarata da un mozzo inesperto, senza frenarlo.

    Sua madre non aveva risposto e forse nemmeno capito tutto, per filo e per segno, ma guardandola negli occhi neri e specchiandovisi appena, giacché Angela e sua madre si somigliavano spesso, come gocce di un lavandino rotto, aveva sussurrato, sdegnosa, Meglio l’emicrania che l’ansia spigolosa dei visi in piena luce. Se c’è un fiume c’è un ponte per passare oltre. In tempo di pace.

    ho ripreso – mi sono permessa – questi. ma altri ve ne sono da riprendere che sono poesia alta evocativa perfortuna insondabile
    (come un’ acqua piena di pance che registrano).
    assolutamente poesia per il mio sentire
    c’è, poi, – a mio parere opinabilissimo – una certa difficoltà a confluire di questa con la prosa. voglio dire se ci riesco – ci sono molti dettagli su cui si fa tardi a soffermarsi e l’ amalgama risulta un po’ percorso ad ostacoli- si rimane almeno io sono rimasta andando avanti nella lettura alle immagini poetiche tendendo a saltare quando la descrizione si addentra e addenta con altro registro più “fiscale”
    più monotono e se non piacciono questi termini usati – sempre gli stessi? che a volte si fraintendono, posso usare : prolissità, limata passione, assenza con troppa presenza
    . ( è la stessa sensazione che provo io a rileggermi quando cerco di scrivere in prosa e mi è spesso ostico trovare un nodo medianico/maccanico (?) che mi soccorra – è come scrivessi a scomparti)
    allo
    ho letto, insomma. a salti, bighellonando però con piacere a cercarti (mi rivolgo alle maschere) e mi sono anche persa nel sogno della storia e nella storia c’ era dell’ umido e qualcosa da inseguire e che mi inseguiva- di forza e di forza evocativa belle cose
    financo la chiusa

    io posso dire di essere scavato da un verme immondo o di avere appena un vizio?

    e che bella – come un’ apertura di scena che chiude con una domanda a forma di mela (il verme vizioso o viziante…eccetera)

    a rileggersi
    paola

    ***
    penso che nel gioco di costruzioni Paola prenda un XI. chiara valerio.

    XI. È l’unico con un paletot chiaro. Se non ci fosse, qualcuno, uno qualsiasi, io pure, guardando dal basso, quasi dall’acqua, penserebbe che non ci sia vento.

    ma lo sguardo scivola troppo in basso, oltre la striscia asfaltata del ponte. Fissa l’acqua, in basso. Sul fiume c’è un battello che si chiama Suzanne, rallenta, leggere lo ha sempre distratto, questo è certo, e rilassato, rallenta ancora ma un poco, appena il tempo che il soprabito, leggero, settembrino gli si sgonfi intorno alle gambe disordinatamente come una vela ammarata da un mozzo inesperto, senza frenarlo.

    Sua madre non aveva risposto e forse nemmeno capito tutto, per filo e per segno, ma guardandola negli occhi neri e specchiandovisi appena, giacché Angela e sua madre si somigliavano spesso, come gocce di un lavandino rotto, aveva sussurrato, sdegnosa, Meglio l’emicrania che l’ansia spigolosa dei visi in piena luce. Se c’è un fiume c’è un ponte per passare oltre. In tempo di pace.

  5. @ tash. ce la posso fare.
    ho capito. il problema è che ho sempre inciampato nelle e.
    deve essere l’occhiello. ;-)

    @ paola, mi permetto di modificare il tuo commento aggiungendoci XI.
    grazie per l’attenzione

  6. @chiara

    onorata.
    sono io che ringrazio il tuo conversato
    generoso includere.raro stile di accogliere
    che porta lontano, il tuo “vedere” l’ altro
    e considerarlo (si sente, nella scrittura,
    a prescindere). sensazione.
    sono stata colpita dalle tue immagini
    come formelle o tasselli.
    estrapolando “a caso” – senza nome
    altre pagine – stesse pagine.
    ci siamo date appuntamento sul telaio
    del binocolo/microscopio.:
    una cosa così, più o meno
    (menon complicata di come l’ho scritta)
    :-)

    paola

  7. Ricordo un libro dimenticato di una grande studiosa, Anita Seppilli, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti (Sellerio, Palermo 1990): il ponte sacrilegamente attraversa, taglia, spezza il sacro corso d’acqua.

  8. cara chiara, ti vorrei innanzitutto qui ufficialmente ringraziare di aver usato la parola ‘paletot’, per me fra la dolce pania delle parole madeleinette in assoluto: qui nel mio borgo centro italico essa è ignota a tutti, come ‘golf’ per dire maglia o maglione, e se la uso mi guardano allibiti ed interdetti. Anche i miei figli qui cresciuti la ignorano… volevo però porti un mio dubbio inerente in certo qual modo a questa sfera tessile dei sentimenti: io temo che quello bianco svolazzante sul ponte non sia né un paletot e né un soprabito: ho appena riposto in naftalina alcuni di questi desueti capi di mezza stagione di cui la mia signora madre possiede diversi esemplari e ritengo impossibile che essi svolazzando assumano quel gonfiore, quel turgore che è invece inconfondibile degli impermeabili crema classici con interno scozzesino e cintura facoltativa… gli uomini e le donne con l’impermebile alla Simenon o Gerard Philipe o Annie Girardot anch’essi in estinzione… ma non credo che l’indossare un impermeabile avrebbe cambiato il destino del personaggio e/o la bellezza sospesa e lirica di queste tue sospese storie.

    ,\\’

  9. Questo sopra è un rilievo che Valerio non si merita, il paletot è solo un capospalla, può essere corto o lungo, un cappotto o un soprabito, e ci sono tessuti molto caldi e morbidi, o molto morbidi e leggeri che possono gonfiarsi, diciamo così, a seconda del prezzo.
    E’ vero che da noi il paletot o paletò o paltò indicava prevalentemente il cappottone pesante e inamovibile, ma qui siamo in Francia.

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