Etere 7: la meteora Novalis
di Antonio Sparzani
Ich fühle des Todes
verjüngende Flut
zu Balsam und Aether
verwandelt mein Blut –
Ich lebe bey Tage
voll Glauben und Muth
und sterbe die Nächte
in heiliger Glut.
Come accennavo qui, sotto l’influsso delle proposte newtoniane, s’era diffusa nella medicina inglese del Settecento una concezione dell’etere più terrestre, quasi sanguigna; ricordate le parole di William Cooper (Londra 1724) : «il fluido contenuto nei nervi non è probabilmente altro che quel sottile, raro ed elastico spirit che sir Isaac Newton conclude sia diffuso ovunque nell’universo».
L’etere era diventato una sostanza mediatrice tra nervi e muscoli, tra cervello e arti, tra pensiero e azione.
Dall’altra parte della Manica, verso la fine del secolo «gli apostoli di una nuova religione – scrive Lukács nel suo saggio giovanile su Novalis [1] – si riunivano nei loro salotti a Berlino e a Jena per discutere con appassionati paradossi il programma della nuova conquista del mondo – in seguito però fondarono una rivista molto intelligente e bizzarra, molto profonda e interamente esoterica, che in ogni sua riga tradiva l’impossibilità di esercitare un’influenza. E se essi, nonostante ciò, avessero avuto influenza…?»
Lukács allude naturalmente alla rivista Athenäum, fondata dai fratelli Schlegel nel 1798 a Jena, che continuò le pubblicazioni fino al 1800. Interlocutore e partecipe dell’impresa fu appunto Novalis, pseudonimo (che significa “campo appena dissodato”) di Georg Friedrich Philipp Freiherr [barone] von Hardenberg (1772 – 1801), «l’unico vero poeta della scuola romantica, il solo che sia riuscito a trasfondere in canto tutta l’anima del romanticismo e solo quella», dice sempre Lukács.
Nel 1800 Novalis pubblica in Athenäum le Hymnen an die Nacht, gli Inni alla notte, definiti talvolta la Vita Nova del Romanticismo, che era andato stendendo nei due anni precedenti, anche in connessione con la morte sia dell’amata Sophie von Kühn sia, a pochi giorni di distanza, del pure molto amato fratello Erasmus.
E nel quarto Inno – in un appassionato presentimento della morte propria – ecco che appare, come un balsamo, il nostro fluido magico:
Mi libro al di là
ed ogni mia pena
sarà uno stimolo
di ebbrezza eterna.
Tra poco libero
sarò da catene,
giacerò inebriato
nel grembo d’amore.
In me vita ondeggia
potente, infinita:
io guardo dall’alto
laggiù, verso te.
Si spegne il tuo vivo
fulgore sul colle
ed un’ombra porta
la fresca corona.
Aspirami in te,
o amato, con forza,
perché mi addormenti
e impari ad amare.
Sento in me della morte
l’onda che fa giovani,
in balsamo ed etere
si muta il mio sangue –
Io vivo di giorno
con fede e coraggio
e muoio le notti
in ardore sacro.
L’originale è assai scandito e ardente, provate a battere questi ultimi otto versi:
Ich fühle des Todes
verjüngende Flut
zu Balsam und Aether
verwandelt mein Blut –
Ich lebe bey Tage
voll Glauben und Muth
und sterbe die Nächte
in heiliger Glut.
[ho usato la traduzione di Giovanna Bemporad della V edizione Garzanti 1999]
[1] György Lukács, Sulla filosofia romantica dell’esistenza: Novalis, in L’anima e le forme, Se, Milano 2002 (ediz. orig. 1910). [^]
Sento in me della morte
l’onda che fa giovani,
in balsamo ed etere
si muta il mio sangue
curiosamente balsamo ed etere qui mi sembrano aver a che fare con una specie di imbalsamazione in vita, qualcosa di alchemico e massone (tanto in auge all’epoca)… tipo gli esperimenti del principe alchimista Raimondo di Sangro di San Severo che con il suo fluido dalla formula segreta metallizzava e pietrificava i corpi, o li scarnificava rendendoli mera terrificante impalcatura di sottili e ed intricate vene.
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