Corde del sogno

di Franz Krauspenhaar

Nel pensiero vagante scendo sotto, addormentato la testa, abbandonata, come sepolta. Sono teso con le mani attaccate alle corde del sogno, che si spalanca da una botola di palco. Attaccato alle corde tiro forte, le mani aperte, graffiate, stando con i piedi piantati a terra, uno dietro l’altro.
Tiro, tiro, tiro. Le corde del sogno avvolgono come una pellicola un film Super 8 di tanti anni fa. Lui bambino piccolo, i pochi capelli biondi e il sorriso, nell’auto che frena e riparte. Le corde del sogno restano tra la morte e me, fino alle palpebre incrinate, come cristallo spezzato, al
risveglio.

FREDDI

Detesto i freddi, le cose così fredde, anche fosse una bionda perversa avvolta nuda nei pali della luce, mi scandalizza il freddo delle ossa e delle tue tenebre molli. Io faccio la mia parte, sulla pelle, vado a brandelli nelle tue cose chiuse, in vasche di mascara. Come un soldo bucato, vago per la crisi dell’asfalto, mentre da grattacieli alti come papaveri manga piovono banchieri. E’ la crisi, è il sistema-lue, e la grande, mondiale macchia di AIDS che si spande sulla camicia bianca fino al colletto azzurro. Detesto i freddi, le cose così fredde, il sorriso bucato dal bel sole ottuso di quest’ ottobre impazzito, le tue ossa contraffatte per pelle allisciata dalle mie mani rigate di desiderio. Detesto le tue cose chiuse, in vasche di mascara, vado a brandelli nelle tue cose chiuse, mangiando cuori di nebbia, ascoltando una vecchia poesia al registratore picchiato nelle mie vene calde.

GRIGIO

Sono un gigione, un gigione, me lo dicono tutti, sono un gigione, leggo da gigione e parlo a volte così; e sono insomma un gigione, e da piccolo vedevo in tivu Topo Gigio, un gigione anche lui, a suo modo; e lui, un altro, lo chiamavo Gigetto quand’eravamo piccoli, anche poco prima che morisse, e non era più piccolo da un pezzo, e lo chiamavo a volte così, ancora; e il cielo di quella mattina, poche mattine fa, rientrando a casa, era grigio, o bigio, non era per niente al mondo un cielo gigione, nemmeno gigioneggiava, voglio dire, per farsi coraggio, per vincere una timidezza, un panico, una follia, un blocco; no, quel cielo era bigio come un pezzo di pane raffermo che viene calato in una tazza di latte, che sta davanti a una finestra che dà su quello stesso cielo grigio, o è del pane ed acqua, di un grigio di condanna, grigio di stento e di fine della corsa; e, a proposito, c’è il grigio dell’asfalto al Tour de France, il grigio di un paio d’occhi muti che mi guardarono una volta cercando nel mio azzurro un po’ di comprensione, quel grigio che ci sferza fino alle vene battenti con la pioggia; e il grigio del bianco e nero, lustrato di quella stessa pioggia nelle strade bagnate, lunghe strisce di lacrime sballottate in un lavaggio-strade, che sia a Brooklyn o sulla strada sotto casa, che dà a sua volta verso finestre spente da chiazze grigie, che sono in realtà soltanto tende, dello stesso colore; e dietro queste, delle anime grigie in pena, stordite fino in fondo dal terrore, che premono su tutto il grigio che si potrebbe scavare dentro il loro essere per decidere, una buona volta, di farla finita.

SOGNO N°3

Nel pieno rimbombante del sogno, sono in una caserma. Non è la solita, non è una delle caserme che ho frequentato da militare. Ha il tetto basso come un seminterrato; anzi è un seminterrato. Su questo tetto poco più in alto delle nostre teste, che ci racchiude come in una scatola di soldatini semoventi, quasi fossimo delle opere di uno scultore postmoderno e iperrealista, sta sopra di noi una plafoniera enorme, cioè lunghissima ma stretta non più di mezzo metro, che emette una luce spettrale, da drive in. Nella camerata-seminterrato ci sono solo delle brande con lenzuola e coperte verdi militare; il pavimento è di linoleum chiaro. L’atmosfera è di cupa rassegnazione. Sono seduto su una delle brande, in mutandoni di lana e maglietta verde. Ho la testa abbassata del calciatore seduto in panchina dopo una sostituzione non gradita ma necessaria per mancanza di fiato. Ho già una certa età, almeno quarant’anni, e sono di nuovo a naja, per l’ennesima volta, in un eterno progressivo richiamo alle armi. Sono il comandante di un gruppo di ragazzi che mi circondano; che non sono più ragazzi neanche loro, a guardarli anche distrattamente: alcuni hanno messo su pancia, qualcuno ha i capelli grigi: sono tutti ultratrentenni, magari con mogli e figli, anche loro richiamati alle armi, riservisti del nulla. C’è una guerra in atto? Siamo qui soltanto per esercitazioni annuali, come si fa nell’esercito svizzero, nel quale il militare non finisce se non molto avanti nell’età? Non lo sappiamo. Forse è in atto la guerra definitiva, quella che, col suo chiamarsi “terza”, potrà dirsi perfetta: una guerra perfetta è tale solo se porta alla distruzione totale, universale, senza ritorno. Sì, non sappiamo perché siamo chiusi in quell’antro squadrato e gigantesco. In noi soltanto una corrente elettrica a basso voltaggio, che ci percuote leggermente il petto, fino allo stomaco, sinistra, invadente, qualcosa di più energico dello sfarfallio dell’ansia tipica. E’ il non sapere dove si è esattamente, e per quale scopo. E’ questo senso di estraneità e al contempo di riconoscimento di una condizione subalterna a qualsiasi cosa. Sentiamo ancora una volta, ciascuno per suo conto, ma sintonizzato con gli altri tramite un’empatia dolorosa, che la vita militare è la vita della servitù necessaria, dell’estrema ratio. Alzo la testa, ricordo che c’è da fare una specie di appello: chiamo stancamente gli uomini a raccolta davanti a una scrivania malandata, dietro la quale c’è una sedia di ferro. Ma non mi siedo: sono stato seduto in una specie di pesante e arcigna catalessi fino a ora. Prendo finalmente un foglio battuto a macchina un po’ in nero e un po’ in rosso, da qualcuno che aveva a disposizione una macchina da scrivere difettosa o non aveva più un rullino d’inchiostro di ricambio, e scandisco dei nomi che non ricordo fin da subito. I ragazzi a uno a uno alzano stancamente il braccio.
Finito l’appello, torniamo a sederci tutti quanti sui bordi delle nostre brande. La luce lentamente s’abbassa, come fosse di un palco teatrale prima della rappresentazione. Un occhio di bue, dal palco, riprende il volto di uno spettatore, appisolato in prima fila: è l’attore spagnolo Fernando Rey, morto alcuni anni fa. Apre gli occhi: tutto quello che sta intorno a lui sparisce; la macchina da presa segue il suo sguardo, si posa sugli occhi del regista Luis Bunuel. La luce si spegne: nel buio, soltanto gli occhi del regista possono essere visti, allungati come se sorridessero.

CORDE

Come liane i tuoi capelli: corde. Come d’attracco, corde. Gesti ripetuti di mani fini dentro le unghie rosse, lo smalto tra biscotti zigrinati e caffellatte. Corde, mentre in un sole sparso come neve gialla, sul cemento quasi nero, vedevo l’indiano di diciotto anni buttare la palla gialla nell’angolo più sparuto e solo del campo. Applausi. Al 30-0 finivo rotolando in una botola di lacrime che avrei tenuto a galla nella mia notte emotiva fino a quel maggio atroce di cent’anni dopo. Con lo zoom dell’adolescenza spianata negli occhi vidi la rete balzarmi addosso, provocata da corde che si gonfiavano nell’aria. Sotto rete, il braccio scavato in una volley. Niente, l’indiano raggiunge quella palla gialla battuta quasi nell’angolo alla sua destra con un paio di balzi da ghepardo, e rimanda gonfiando la bocca di un rantolo, che percorre il suo braccio fino alla sua Bancroft di legno. E fa un altro punto. Corde. Indietro a velocità di missile, la palla gialla mi sorpassa infinite altre volte, mentre la rete si gonfia come appena lanciata da una baleniera e le corde di quella rete, gonfiandosi come ali di vento, mi surclassano come il cielo di un funerale prima di una pioggia di cocci, tutti i poveri resti della mia vita, dal passato fino al futuro gelido della mia stessa morte. Mi sveglio intirizzito, nelle mie mani, per scaldarmi, il ricordo dei tuoi capelli: corde. Tese alla dimostrazione dell’esistenza di qualcosa che valga la pena di tenere stretto nelle mani sbiancate, sempre più. Corde, corde di rete, di liana, nello scurirsi, il tuo volto dalle labbra rosse e dischiuse di divano di Dalì, che si apre al sesso di fortuna fatto da due bambole Mattel che si spogliano di furia. . Corde, le tue corde tra le mie mani che cercano altri pezzi di corda, i tuoi capelli come d’attracco, corde. Liane, appeso a un filo mi tengo nella notte, attaccato al sospiro, piangendo dentro di me nella notte, mentre tu apri le labbra e mi mangi rotolando i denti bianchi nel palato tra la mia pelle come biscotti secchi.

Nell’immagine: Fernando Rey

16 COMMENTS

  1. Frammenti di vita notturna, con una musica bella e triste.
    Conoscevo tre brani, tre canti in sveglia del ricordo,
    tre cammini in città scura dell’amore.

    Amo leggere e rileggere..

  2. Gigione. Sì, forse ai ragione. Ma ricordi? Dietro c’è un fondale nero. Il nero fondale di Topo Gigio mi attraeva. Anche tu ti muovi con un fondale nero alle spalle. Ci può essere tutto, il dolore ma anche la festa di un camerino prima dello spettacolo.
    Verde. Come i militari. Anzi, come due commilitoni che si ritrovano dopo sedici anni. E se fossero stati invece un uomo e una donna, due amanti di un amore mancato o impossibile? Cosa sarebbe cambiato?
    Azzurro. Come i tuoi occhi. Che un po’ danno sul grigio. Come il cielo di una Milano incredibile, inaudita sotto il sole in tre giorni di camminamenti. Come pellegrini.
    Ciao Franz, questa mia è per dirti che sono tornato a casa… come in una bellissima poesia di Giudici. Pasquale Vitagliano

  3. un grande grazie a voi con un grande abbraccio. a pasquale, che ho conosciuto di persona sabato nel mio piccolo “regno” in uno dei miei bar di riferimento esprimo la mia contentezza per il bell’incontro – e c’erano anche due suoi simpaticissimi amici – e la mia stima.

  4. Franz, queste corde del sogno sono struggenti e nostalgiche.
    E ripescare i sogni, comunque e qualunque siano, da quella botola di palcoscenico, con le mani graffiate, mi sembra un ottimo esercizio di vita.

    Bravo! Quante volte te l’ho detto?

    abbracci
    jol

  5. Teso a restituire la filigrana dei sogni. Franz, se ti capita leggiti Tu più di chiunque altro di Miranda July, penso che ti piacerebbe. a presto!

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francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.