PERCHÉ SCURATI NON DEVE VINCERE LO STREGA
[Questo intervento è apparso su «Alias» (sabato 11 aprile) con il titolo Scurati e l’autofiction, genere maggioritario. Il lucido articolo distrugge un incanto che vedo esercitato persino sulle idee della critica più avvertita – si legga Belpoliti. Spero che la discussione metta a fuoco il libro e le meccaniche di una vittoria predestinata. Domenico Pinto.]
di Gilda Policastro
Al romanzo contemporaneo serve una lingua, una voce. Ha bisogno di ritrovare la distanza dalle cose, di parlare di ciò che accade da lontano, con l’eccedenza di visione garantita all’eroe in misura inversamente proporzionale, teste Bachtin, alla sua identificazione con l’autore. Invece la strada che gli scrittori italiani sembrano proseguire con ostinazione, nel tentativo, forse, di emulare l’eccezionale successo planetario di Saviano, è quella di continuare a dire “io”: trovarsi, volersi trovare – cioè fingersi – in mezzo alle cose. Saviano era un cronista prestato al romanzo, ora alla ricerca di un’identità (superando, magari, quella che non possa vederci meno che solidali, di vittima designata). Lui si definisce scrittore, ma la critica deve aspettare ancora, a consacrarlo tale. Deve cioè ricalibrare la sua innegabile attitudine alla comunicazione e all’informazione, sulla scrittura: che è, prima di tutto, stile, cioè, si diceva, lingua, voce, e, ribadiamo, distanza. Il Novecento italiano si era aperto con Tozzi e Pirandello (i «misteriosi atti nostri», la «frattura fra parole e cose»): c’è da augurarsi che il Duemila non voglia farsi partire con elenchi di «mortiammazzati», come in un servizio di Blunotte o Chi l’ha visto.
La quarta prova narrativa di Scurati, Il bambino che sognava la fine del mondo (Bompiani, pp. 295, euro 18) reca scritto in copertina “romanzo”. L’autore, nei ringraziamenti, si confessa debitore a una «biografia romanzata» e a un «saggio etnografico». Di fatto, il libro somiglia di più all’essai di un moralista; e, per dare una tenuta narrativa a un essai sui nostri tempi, s’è presa la cronaca di un fatto recente. Correzione: della cronaca televisiva, anche perché lo stigma maggiore dell’autore si riversa contro il medium, nella sua più diabolica incarnazione del conduttore per famiglie, erudite impugnando all’indirizzo di un plastico divenuto proverbiale l’altrettanto proverbiale bacchetta. Primo stridente contrasto: ma perché, qui cosa si sta facendo, di diverso? Perché l’autore si porta a Bergamo, dove insegna come il suo eroe, e a due passi da Milano, dove collaborano, autore ed eroe, alla “Stampa”, come fosse cosa sua la delicatissima vicenda dei bambini di Rignano? Elementare: per poter dire “io”, alla maniera dell’autofiction contemporanea (l’ha fatto da poco Giuseppe Genna in Italia De Profundis: «vedo l’Italia, vedo me»). L’io di Scurati viene però subito ostentato con un vizio di fondo, che è il principale difetto del suo libro: chi dice “io” è implicato nelle vicende che racconta, e dunque il suo moralismo da Catone ai tempi di youtube svapora. Depreca l’università e l’ignoranza degli studenti, non mancando di definirsi “il professore”; i giornali e la loro faciloneria, scrivendovi. Marcuse diceva che un libro non cambia le cose. E allora? Le indaga, le scopre, piuttosto, le fruga o le urta. Ma per farlo ha comunque bisogno di un linguaggio attraverso il quale passi, secondo qualcuno, l’ideologia. Cioè nient’altro che la visione del mondo. Un narratore «assiso sull’Olimpo del suo cinismo», quale visione del mondo fa filtrare?
Si dirà che il pregio di questo libro è di restituire una radiografia dei nostri tempi, soprattutto della «televisivazione contemporanea» (per criptocitare ancora l’autore di prima). Una radiografia che viene da lontano, però: perlomeno dalla fine degli anni Ottanta, quando è esplosa la televisione commerciale, e se ne è subito fiutato il voyeurismo becero. Se n’è fiutato: qualcuno lo ha fatto. Aldo Nove ad esempio, che dedicava un racconto di Woobinda ad Alfredino Rampi. Lì si provava una voce delicatamente ironica rispetto all’elemento farsesco che invariabilmente viene affiorando nella tragedia: «per farti intervistare dovevi essere suo parente […]. Per stare vicino al fosso dovevi essere importante, gli altri guardavano alla tele, come alla Scala». La voce autoritaria di Scurati talvolta vorrebbe torcere a tutti i costi la farsa in letteratura, se non in tragedia, come accade rispetto alla co-protagonista del romanzo, descritta come una «tardiva Bovary della nostra provincia, forse sedotta dalla blanda notorietà di cui ero circonfuso».
Proprio dalle pagine della “Stampa”, nelle vesti di critico, Scurati denunciava l’assenza di trauma dall’esperienza (anzi, dall’ inesperienza, per citare invece dal suo più celebre pamphlet) della sua generazione: lo choc si darebbe, per i 35-40enni, solo come “effetto” televisivo. Ma un trauma lo Scurati scrittore pare avercelo eccome: è il sesso facile che allegramente dilaga, declassando l’amore romantico a mitologia vetusta e improponibile all’oggi. Quanto lontano da Aldo Nove, ancora, dalla sua tematizzazione postromantica del sesso (sempre in Woobinda, memorabile la scena dell’orgasmo per via di Vibravoll, cellulare ultimo modello): con quella voce così riconoscibile, che è un misto di compartecipe immersione nello Zeitgeist e di ironico distacco da quella corrottissima parte di Welt che è l’Ich. Allo Scurati-professore còlto nell’atto di sottomettere sessualmente la studentessa, vien da chiedere come mai il suo autore non sia ripartito dal Pratone di Petrolio o dalle orge di Salò, per raccontare l’omologazione sessuale neocinica contemporanea, invece che dalle viete avventure di un Rocco Sifredi laureato: perché infliggerci «l’enorme pene […] mostrato con la ragionevole pacatezza con cui si manifesta un’opinione»? perché le massaggiatrici esotiche, le studentesse ammiccanti, i professori arrapati? perché Il bambino che sognava la fine del mondo? Uno scrittore americano, qualche anno fa, quando si scoprì che l’autofiction del suo alcolismo non era vera, fu chiamato a risarcire economicamente i suoi lettori. Ma in Italia non abbiamo bisogno (per fortuna) di accertarci che Scurati l’uomo nero da piccolo l’abbia sognato per davvero, come il suo eroe. Ci basterebbe non asserisse perentorio che «il Male esiste», con deprecabile maiuscola, e avremmo fatto un passo avanti tutti: lettori, scrittori, stile, lingua, voce e romanzo. Già, il romanzo: ma chi l’ha visto?
Forse sono in accordo con la Policastro. La scrittura dovrebbe ritrovare una certa distanza dalle cose. Per me intesa soprattutto come intervallo spazio-temporale fra la parola e le persone e gli oggetti del mondo. Lo scrittore inoltre dovrebbe recuperare una certa estensione da interporre fra sé e il resto del suo genere. Umano. Detto così sembrerebbe quasi inquietante! Un saluto a Domenico Pinto.
Sì, però mi permetto una critica rispettosa alla scelta del titolo da parte di Domenico – se è lui l’autore.
Secondo me, è assurdo autocandidarsi a vincente di un premio letterario, e siamo d’accordo, ed è anche assurdo che un premio venga assegnato in base meccaniche di spartizione (prima due mondadori ora uno a rizzoli); però mi sembra fuori luogo autocandidarsi (di fatto) a giudici di quel premio e dire chi non deve vincere e perché.
Sarebbe molto meglio che ognuno facesse la sua parte, sennò rischia di defilippizzarsi o morganizzarsi tutta l’Italia, e ci ritroviamo tutti poi a far anche la parte dei nostri concorrenti e giudici, nonché dei commentatori esterni alla competizione.
In altre parole: mi sta benissimo la critica al romanzo (va be’, se tale è) di Scurati (che non ho letto), o la sua stroncatura senza se e ma, e mi sta bene anche la critica in termini provocatori e politicamente scorretti all’autocandidatura di Scurati, però lasciamo alla giuria dello Strega decidere chi deve vincere lo Strega, prendendoci (prendendoVI, voi che di mestiere siete letterati) il diritto poi di dare considerazione o meno a quel premio in base al nostro (Vostro) giudizio sull’operato della giuria.
Questa è la mia opinione, da profano. Ma sono pronto a discutere le obiezioni.
Non ho letto il libro di Scurati e fuori dal dibattito sullo Strega, mi chiedo più in generale: ma ci si deve per forza schierare a favore o contro un genere, uno stile, una scelta narrativa, si deve per forza eleggere l’idea di letteratura necessaria e preferibile per rappresentare un’epoca e un paese, squalificando le altre?
La narrazione prevede molte possibilità. Mi domando se non sarebbe già tanto raggiungere coerenza e organicità all’interno di una di queste, in una singola opera, o nel percorso letterario di un singolo autore.
Forse in certi casi la distanza è cosa buona ed efficace, in altri casi lo è l’Io infilato in mezzo alle situazioni, per invenzione o per urgenza di cronaca. Si tratta comunque di artifici. Dove la scelta funziona, l’artificio non si percepisce. Dove non funziona, lo si vede sbucare fuori in continuazione, come è sempre stato.
La decisione di non leggere più Scurati l’avevo presa già col Sopravvissuto, e questa recensione mi conferma la sua bontà. Già lì c’era una lingua inerte che per mancanza di strumenti pigiava il pedale del fortissimo, ridondante di luoghi comuni, di stilemi tra i più vieti, e le poche volte che non erano vieti erano visibilmente derivati da pagine altrui mal metabolizzate. Difetti che forse con il lavoro potrebbero essere in parte – ma solo in parte – corretti. Ma l’immaginario dozzinale, quello, non si corregge.
Ho letto una recensione positiva di Siti, scrittore che invece stimo moltissimo, non mi sorprende, e per varie ragioni, mi dispiace, è ovvio, ma non più di tanto, Siti è così bravo proprio dove Scurati cade, che lo trovo un peccato minore.
perciò ha buone possibilità di vincere lo Strega
Il libro di Scurati è sul mio comodino, aspetto di terminare un paio di cose che ho iniziato e poi lo leggo. Quindi qui non parlerò di ciò che non ho letto.
Ma anch’io, come Lorenzo, capisco davvero poco il titolo di questo post, che trovo forviante e inutilmente polemico. Mi sembra davvero fuori luogo: perché deve essere la Policastro a indicare chi deve vincere lo Strega? Fa parte degli amici della domenica? (senza polemica alcuna con Gilda Policastro, sia davvero ben inteso. Magari il titolo infelice è di Domenico Pinto).
Io per primo ho messo alla burletta un certo modo di fare libri à la page, (vedi qui) ma che non si possa dire “io” in letteratura, questo qualcuno me lo spieghi. Che il valore testimoniale non sia più degno della letteratura (e penso a Carlo Levi, a Primo Levi, etc.), che la commistione fra vero, verosimile, finto, non sia d’uopo (ché Petrolio l’abbiamo letto tutti e sappiamo quanto Carlo sia e non sia PPP, e quanto i suoi personaggi ricalchino fino alla fotocopia persone vere eppure allo stesso tempo non lo sono), che Walter Siti non possa essere Walter Siti “come tutti”, io non lo capisco, ma magari debbo rileggere con calma.
Scurati sa che io non credo alla sua idea che viviamo l’età dell’inesperienza, ne parlammo in pubblica piazza. Anche perché, comunque, è esperienza pure quella televisiva. E se è pervasiva ha da essere (e può essere) raccontata. Che lui qui lo faccia non va a demerito alcuno. E che Scurati, in fondo, possa apparire contraddittorio rende, a naso, più interessante l’idea del suo romanzo.
Quella di risarcire i lettori perché non si è vissuti le vite che si raccontano è una imbecillità: è solo il testo che ha ragione. (anche se pure questa mia è una semplificazione, lo ammetto. E spesso non sono d’accordo con questa semplificazione, ma qui non mi dilungo). Qual è la verità che cerchiamo da un’opera d’arte?
Un giorno qualcuno mi spiegherà questa cosa strana del realismo, buona per tutte le stagioni come grimaldello critico: se dici che racconti quello che vedi per strada ti dicono che fai realismo trillerista; se dici che racconti storie sei un intrattenitore lontano dal mondo reale, se accenni al tuo tributo testimoniale fai del morboso reportage, se impasti esperienze e visioni sei un inattendibile finzionario, se… etc. etc.
Detto ciò leggerò Scurati e poi dirò la mia sul suo libro.
Biondillo, hai scritto “opera d’arte”, bravo. Anche per me la letteratura ha ancora, nonostante tutto, a che fare con l’arte. E’ ben questo che manca a Scurati.
Scriva saggi, forse li leggerò, benché anche il saggista debba avere per me qualità di scrittura.
Purché non mi parli di mera cronaca, che già ne son pieni tutti i telegiornali.
Non ho letto, e non leggerò Scurati, non per partito preso, ma perché se volessi leggere (cosa che faccio sempre più raramente, e di argomenti strani, poi, che nemmeno io mi sarei immaginato) avrei tante lacune, prima, da colmare. Cmq, per intervenire sulla questione dell’io in letteratura, trovo che negli ultimi decenni questa prima persona singolare si sia ingrossata paurosamente e smodatamente (forse mossa da un intento dimostrativo-competitivo, come la famosa rana), in modo, anche, “indecente”. In poesia oramai, a partire dagli anni ’80, l’io lirico te lo trovi incistato ovunque, anche nel “tu” che è poi un io travestito. E nella narrativa, tra un io innamorato, un io sfigato, un io autofiction, anche qui non si sa a che santo votarsi, se non a San Io, appunto. Anche la coincidenza tra io narrato e io narrante è sempre più all’ordine del giorno. A questo punto mi vien da rimpiangere il nessun conto in cui la critica strutturalista teneva l’io autoriale, e magari fondare un movimento per il ritorno a un sano “egli” in letteratura, distante dall’esperienza (o inesperienza) biografica dell’autore come la Terra è da Alfa Centauri. Pare che oggi sostenere alla Rimbaud che “Je est un autre” sia divenuta una bestemmia. Se poi Scurati vincerà lo Strega, o il Campiello, o il Viareggio (di cui personalmente non mi può fregar di meno), sarà segno dei temporamores.
mi piace ciò che ha detto Tullia, e con incredibile semplicità, dopodichè posso non storcere il naso quando si critica il primo piano dell’io di Scurati, o di Genna, cioè in quel libro di Scurati, in quel libro di Genna, ma l’autore, e più in generale quella soluzione di aderenza ai fatti con la pelle, con il corpo, come nel caso di Saviano…
è un’operazione così fastidiosa, ma davvero fastiziosa per chi assiste quella di costrigere di impilare tutto il romanzo in due tre categorie, così, alla bell’e meglio, fa venire l’emicrania da costipazione, da comizio.
e poi quella cosa: della consacrazione! a scrittore da parte del sacerdote pardon del critico
L’eterno dilemma: “Chi giudica chi”… ammesso che i concorsi sono sempre più legati a gruppi di potere economici-editoriali (almeno quelli più noti), ammesso che Scurati abbia voluto strategicamente e intenzionalmente muovere le acque per fare parlare di lui (dignitoso, comprensibile, più o meno condivisibile), ammesso che non sappiamo (non certo io) se vi sia qualche fastidio/pregiudizio/rancore di Policastro verso Scurati, ammesse tutte queste cose, secondo me, con diritto di dubitarne io stesso, sia chiaro, mi piace pensare che questo nuovo polverone mediatico faccia bene alla letteratura, travolta da troppo tempo dal genere Saviano (comprensibile, ma ha omologato più o meno consapevolmente troppe opinioni sulla letteratura contemponarea) e dalla solitudine dei numeri primi di Mersenne connessi alla topografia algebrica letteraria di Giordano.
Forse stiamo prendendo direzioni nuove con l’uscita più o meno azzeccata di Scurati, come negarglielo?
gli scrittori italiani?
effeffe
Scurati! uanema d’o criatorio
Quando un libro fa incazzare si perde il lume della ragione
In punta di piedi segnalo: non è che per caso, la crescita spropositata dell’io in letteratura sia un po’ il segno dei tempi? Non è che stiamo tutti percorrendo una deriva che porta inevitabilmente all’egocentrismo? Mi spiego meglio, non viviamo forse in un mondo in cui l’io conta più di tutto? E allora credo sia evidente e forse anche inconscio nei processi di scrittura utilizzare l’io. Non è forse l’io il vero protagonista del nostro tempo? E allora è ovvio che ciò si riverberi in un certo modo non solo in letteratura ma in qualsiasi altra forma d’arte. Se ci fate caso gli stili di narrazione, e mi viene in mente il cinema o la fiction Tv, sono tutti condotti in prima persona dal protagonista o da uno dei personagi principali che, sfruttando sempre più spesso la voce fuori campo, racconta le cose dal suo punto di vista. In soldoni: credo che si vada sempre di più verso questo tipo di narrazioni e che ciò in qualche modo sia giustificato dal tempo in cui viviamo, nel senso che non riusciamo a vedere dall’eterno gli sviluppi di nessuna cosa, se prima non la valutiamo in termini di effetti che essa ha sull’io. Egoismo imperat quindi. Voi altri cosa ne pensate?
Io sono incazzato con Scurati perchè non me l’ha dato. Ora oggi come oggi tutti sappiamo che è il più grande scrittore italiano anche per autoproclamazione, è una questione di fede e non serve leggere i libri, leggere i libri non si fa più, la letteratura è farsi i pompini a vicenda oppure da soli, come Scurati. Di fronte a ciò lui non ha mai voluto che gli facessi un pompino, e così è per tutte le persone che non lo stimano.
P.s.: Vi siete mai chiesti come mai in Italia Nanni Balestrini non ha MAI vinto un premio letterario mentre è tradotto e premiato in tutto il mondo? Avete mai fatto caso che sui quotidiani ci sta un certo Cordelli che è il caposcuola dei recensori che invece di parlare di libri lancia strali personali e tutto si risolve lì? Ma chi cazzo li legge, in Italia, i libri che poi recensisce o premia? Forse Gilda Policastro ma non vale, anche lei, come me, non è entrata nel mitico letto di Scurati.
Aldo Nove
io scurati non lo consoco quindi vuol dire che non vale la pena die ssere conosciuto
o più semplicemente: perché scurati?
pienamente d’accordo con gp e a9.
scurati, con la sua intervista a repubblica, è riuscito a superare in squallore, egolatria e parvanimità l’articolo di cordelli sul cds di qualche giorno prima. e dire che non era facile.
la domanda che un po’ mi turba è: perché persone civili, dotate di raziocinio e intelligenza si comportano als ob scurati e cordelli fossero grandi scrittori o grandi critici?
(e tra l’altro: ma chi cazzo se lo beve lo strega?
bevete della grappa!)
del resto, quanti libri sono che hanno vinto lo strega sono rimasti o rimarranno? pochissimi. e nessuno dal 1991 a oggi). forse è meglio lasciare che lo strega continui a rappresentare il furbo cinismo dei salotti come ha (quasi) sempre fatto. e premi chi di questa farsa pseudointellettuale sia consapevole e astuto interprete o ignaro attore.
Aldo Nove, se si tratta di farsi fare un pompino io sono sempre a disposizione, non mi formalizzo mica…
;-)
Quanto siete scurrili qui.
Io scurati l’ho visto in televisione qualche volta e parlava di romanticismo in un modo così romantico ma così romantico che… peccato che si riferiva all’800 ma ne parlava come di questioni di letterine alla scuola media quando prudono i pantaloni per la prima volta.
E poi scurati m’ha fatto l’effetto di quel ragazzino che cresce cresce ma rimane mentalmente sui quattordici anni, è sempre tutto eccitato e colmo di ebbrezza adrenalinica per via delle idee romantiche, ma del tipo che dice ‘voglio conquistare il mondo’ e ‘voglio un mondo migliore dove c’è la pace’ e ‘w l’amore’ e risponde agli intervistatori tone per bidone credendo che gli chiedano proprio tone, e quando gli intervistatori gli ribadiscono “bidone” lui ribadisce “tone” perché nella sua testa non capisce assolutamente quello che gli chiedono ma va dritto per la sua strada fulgidoadolescenziale come fosse un Manzoni ibernato e sciolto 5 minuti prima della trasmissione per la trasmissione. Insomma, mi è sembrato fondamentalmente, come si dice tra i giovani, un po’ sfigato.
Me lo ricordo Scurati, alla scuola di scrittura. Così compìto, così sconosciuto, così obbediente di fianco a Franchini. Che bella storia ci raccontò Franchini.
la cosa tristissima è leggere degli scrittori abbastanza giovani che mettono in fila gli strega e i non strega. in italia esiste lo strega, il de profundis, woobinda. stop.
sembra che dall’antologia di einaudi “gioventù cannibale” non sia stato pubblicato nulla.
sveglia, eh?
L’Io-rana è una forma, e non tanto indiretta, di Restaurazione. All’Io non andava a fagiolo la sua condizione di io diviso, frammentato, precario, decentrato in cui l’aveva costretto il Novecento letterario, allora, agli albori del Duemila, ha preso a gonfiarsi, rivendicando la propria ideologica centralità, dimentico dell’ammaestramento di Esopo:
Inops, potentem dum vult imitari, perit.
In prato quondam rana conspexit bovem
et tacta invidia tantae magnitudinis
rugosam inflavit pellem: tum natos suos
interrogavit, an bove esset latior.
Illi negarunt. Rursns intendit cutem
maiore nisu et simili quaesivit modo,
quis maior esset. Illi dixerunt bovem.
Novissime indignata dum vult validius
inflare sese, rupto iacuit corpore.
mah..è consentito uno sbadiglio? Ogni anno la solita polemica sullo Strega, fosse almeno il Nobel.., e non, com’è , un parente povero di Sanremo..mi pare più significativo che il 65% degli italiani (dati Ocse) non siano in grado di”comprenere” un articolo..V.
“comprendere”, obvious, V.
ogni anno la polemica perché ogni anno la letteratura perde posizioni a favore dei prodotti editoriali
e ogni anno i prodotti editoriali entrano di spighetta in quel che resta del dibattito letterario e poi si mettono di chiatto, e una volta che si sono messi di chiatto è difficile levarli di lì
infatti non c’è quasi più spazio
Traggo dal dibattito in corso alcune sollecitazioni su temi che mi stanno particolarmente a cuore, come quello del realismo. Qualcuno (Tullia) concordava con me sull’obiettivo della conquista di quella che il mai troppo citato Bachtin chiamava l’ “eccedenza di visione” rispetto al reale, come via maestra della letteratura. Qualcun altro invece trova che occorra sporcarsi con le cose, avvicinarsi ad esse il più possibile senza schermi (come se la letteratura non lo fosse per statuto, uno schermo). Comunque prendiamo per buona questa posizione, e avvaloriamo la tesi di Belpoliti, del libro interessante per il, diciamo così, manzonianamente, misto di vero e di invenzione. D’accordo: ma Manzoni s’è inventato Renzo e Lucia, mica la peste. Scurati la vicenda dei bambini di Rignano la usa pretestuosamente come impalcatura infedele e traballante di un libro che non ha nessun tipo di rilevanza, né letteraria (e certo che se ne parla, come mi ricordava qualcuno – mi pare utilizzando il nick “SulRomanzo” -, ma se ne parla perché è un libro Bompiani; perché l’autore collabora con uno dei nostri quotidiani più importanti; perché Repubblica gli dedica una pagina quando si autocandida allo Strega –mostrando peraltro di ignorare anche l’iter formale che conduce al premio, attraverso la presentazione dei cosiddetti Amici della domenica, e non di certo per autocandidatura!), e nemmeno solo documentaria. Prendiamo l’aspetto più rilevante e al tempo stesso più inquietante di quella vicenda: nei pc dei presunti pedofili, a quanto ricordo, non venne mai trovato nessun tipo di file pedopornografico, un vero hapax nel genere giudiziario in questione. Allucinazione collettiva, manipolazione, complotto? Il tema poteva offrire il destro a una narrazione, certo, ma Scurati invece non riesce. E il perché credo di averlo detto nell’articolo. Qualcuno, sempre SulRomanzo, mi pare, si chiede a questo punto se io abbia dei motivi personali di rancore nei confronti dell’autore: nec miror, perché è questo il pregiudizio che grava su una critica ridotta a pettegolezzo tra serve da chi la vorrebbe cancellare dalla faccia della terra, perché refrattaria ai giochini di potere, alle strategie, ai (pre)destini, come diceva qui sopra Pinto. I libri, invocati poco fa da Aldo Nove, interessano ancora? Certo che ho del rancore (professionale), nei confronti di uno scrittore che tira per 300 pagine scritte in modo pedestre a partire dall’ortografia (segnalo soltanto, tra i molti refusi ed errori, la meraviglia di p. 193: “il corpo continuava a non c’entrare niente in quel teatro di eccessi”), un caso di cronaca su cui ci bastava aver letto pagine e pagine dei giornali e visto trasmissioni su trasmissioni televisive, senza che dovessimo anche costruirci intorno la (imbarazzante: l’ha detto prima di me Pacchiano, sul ”Sole”: chissà se anche lui ha dei motivi personali di risentimento) storia del bambino che sognava etc. etc. Ed è chiaro che il mio riferimento finale all’autore americano finto alcolista era ironico: non penso certo che chi inventa debba giustificarsi. Anzi! tutte le volte che ho potuto ho chiesto a Saviano (cioè io in convegni menomissimi, lui in televisione) più invenzione e meno elenchi, più immagini, travestimenti, allegorie, e meno cifre. Insomma, l’introduzione al Decameron, non i trattati sulla peste del Trecento. E recupero per la seconda volta quest’immagine della peste, perché è Scurati stesso a presentarla così, la sua ”autofiction”, come una specie di improvviso vento mefitico che travolga ogni cosa. La pestilenza è invece piombata per il momento solo sul romanzo, che non può ulteriormente degradarsi su questa via. Servono più libri, e meno scrittori. E il risentimento, sì, la vendetta, se ti piace chiamarla così, tu che ti firmi (antifrasticamente?) SulRomanzo, la vendetta, dicevo, del critico, non può essere altro che questa: dir male dei pessimi libri, anche quando gli scrittori siano come Scurati: telegenici showman “laureati” (Montale).
breve postilla a quanto detto (solo perché mentre scrivevo il mio, mi erano sfuggiti gli ultimi commenti)
@viola
gli italiani non comprenderanno, in larga maggioranza, gli articoli di giornale, ma poi i libri premiati allo Strega li leggono (vedi Giordano, lo scorso anno), ma, soprattutto (per l’autore e l’editore) li comprano. non mi sembra irrilevante. e c’è più da inorridire che da sbadigliare, secondo me, al pensiero, solito, banale, trito se vuoi, che lo Strega (che non sarà il Nobel, ma nemmeno il Premio Vicini di Casa) negli anni Cinquanta lo vincesse Pavese e oggi (ma speriamo di no) ”Il bambino che sognava etc.”
@Franz Krauspenhaar
non proponevo un canone contemporaneo, recensivo un libro di cui si parla, in 6mila caratteri. se vuoi discutiamone qui, di ciò che manca al mio pezzo, così mi sveglio: magari nel frattempo tu alla sola pars destruens unisci, come si diceva una volta, un po’ di ”critica costruttiva”. procediamo.
Cara Gilda, capisco perfettamente la necessità di stigmatizzare i “prodotti editoriali” come dice Alcor, ma è altrettanto chiaro che con un 65% di analfabeti di ritorno è possibile “lanciare” e “piazzare” di tutto come , de facto, accade. un abbraccio di buon lavoro, V.
scurati non l’ho letto e non entro nel merito, ma impallidisco di fronte al delirio d’onnipotenza dell’ultimo critico che ritiene sua prerogativa l’assegnazione di patenti e patentini di scrittore con tanto di ricette della nonna: 100 grammi di allegoria, 2 tuorli di travestimenti, 3 cucchiaini di immagini… (mi ero fermata allibita al saviano ammesso con riserva di ripetere i quiz sull’identità! sic! ma, evidentemente, il meglio doveva ancora venire…
@maria v
di nuovo la pars destruens, senza una proposta. spiegacelo tu, maria v, come vuoi che si distinguano i buoni libri dai cattivi. soprattutto quando non li hai letti, come in questo caso. e di che vuoi parlare, allora, DI ME?
procediamo? ahahah!
Sono d’accordo con Policastro. Oggi c’è una drammatica mancanza di veri scrittori, e una profluvie di falsi romanzi. Il genere dell’autofiction, in Italia, ha scoperchiato uno spaventoso vuoto di forza d’invenzione. Ha contribuito a tale deriva il successo di Saviano, che però non è un romanziere, è un giornalista, il quale per giunta scrive male. Direi che Saviano sta a Capote come Scurati a Ellis (lui sì, capace di inventare pur utilizzando l’io autobiografico). Il problema non sta naturalmente nel genere scelto, ma negli interpreti. Un genio piega il genere ai suoi voleri (Dante, Shakespeare, Dickens, Flaubert, Tolstoj, Dostoevskij, Austen, Emily Bronte, Manzoni, e tantissimi, tantissimi altri; ma anche uno scrittore assai più modesto dei succitati, come Stephen King, ha saputo trarre dal genere horror la sua originale interpretazione del mondo, tanto per scendere su livelli più umani); un mestierante viceversa si appoggia al genere per farsi ben volere. Qualcuno afferma che oggi non sarebbe più possibile fare arte senza utilizzare il fuoco della prima persona; ma c’è un esempio di polifonia, di personaggi straordinariamente caratterizzati, di diversi e ugualmente ricchi strati interpretativi che un’opera contemporanea ci offre in abbondanza, confutando ogni recinzione aprioristica: LOST. In questa serie tv c’è tutto: i sentimenti, il mistero, la fascinazione, la metafisica, la scienza, la religione, la credenza, la fede.
Ancora, sono filosoficamente d’accordo con Macondo: sembra che “Io è un Altro” sia diventato una bestemmia, invece di quel grimaldello verso nuove e inedite forme d’invenzione che è stato e tuttora resta. L’egocentrismo impotente dell’autofiction italiana è un sintomo d’afasia creativa, mancanza di freschezza, coraggio, creatività, è un marchio di vecchiume intellettuale e un segno di scarsa curiosità verso il futuro, verso l’articolazione di nuove possibilità; e in tal senso tradisce la letteratura intesa nella sua più alta accezione. In fin dei conti è molto più semplice affrontare, per un narratore poco dotato, lo stagno del fatto di cronaca piuttosto che l’oceano del grande romanzo.
Un’ultima precisazione sull’impatto con la realtà: posto che l’arte non deve (e forse nemmeno può) redimere, non è certo la verità oggettiva di un racconto a rendere il medesimo perfomante, ma l’energia inventiva che vi si cela. Un solo esempio: LA METAMORFOSI di Kafka (ma potevo dire IL PROCESSO o IL CASTELLO), che narra una vicenda totalmente immaginaria e inverosimile, è l’autentico mito nero della modernità, e ci rappresenta assai più di qualunque Porta a porta, televisivo o letterario che sia.
Ciò, sia ben chiaro, al di fuori del premio Strega, del quale non m’interessa affatto.
segnalo un refuso nel pur forbito post: a «l’enorme pene mostrato con la ragionevole pacatezza con cui si manifesta un’opinione» deve evidentemente leggersi *openone*
Anche io sono in accordo con Policastro e con Diamante. Il fatto è che generalmente ci si sta allontanando parecchio dal cercare di tendere all’arte quando si scrive. Essere scrittore, vincere premi e vendere libri rappresenta una grande responsabilità cultural/sociale/artistica sempre più soffocata aihnoi dalla vanagloria, dalla scaltrezza “compiaciona” dall’ambizione ipovedente e sopratutto dalla mitomania.
siamo davvero sicuri che sia lo scrittore a decidere di separarsi dall’arte e dalle sue responsabilità sociali, e non l’editore, che certo nel caso di scurati avrà meno influenza, ma che comunque può condizionare un’opera giudicandola difficilmente vendibile? Non è che ora ritorniamo a ciò di cui ormai a ragione si straparla e cioè: forse la scrittura fatta d’invenione artistica e di genio non è più quella che piace al grande pubblico o che secondo gli editori piace al grande pubblico. Non so perchè, o forse sì ma non mi va di dirlo, ma credo fermamente che se alcuni grandi capolavori della letteratura fossero state opere prime di scrittori di oggi, e fossero passate sotto la mannaia dell’editoria odierna probabilmente non sarebbero ammuffite in un cassetto semplicemente perchè oggi come oggi non hanno pubblico (dicono). e questo finisce per influenzare anche gli scrittori di fama come scurati che se arriva al successo percorrendo una certa strada, probabilmente ritiene che quella sia la via migliore se non per accrescerlo quanto meno per mantenerlo. O no?
ovviamente per invenione si intende invenzione, non sarebbero ammuffite va sostituito con sarebbero ammuffite, arriva con arrivano e ritiene con ritengono. Ma s’era capito lo stesso no?
@ viola,
il 65 degli italiani non compende un articolo perchè non possiede le competenze alfabetiche di base per interagire nella società dell’informazione, come ricorda G. Fontana su “primo amore”
Ho trovato il pezzo della Policastro davvero molto interessante per la sua ricchezza di spunti e di suggerimenti, visto che apre su più aspetti. Vorrei evidenziare tre punti essenziali: 1) che genere di romanzo vi è oggi in Italia? Si scrivono ancora romanzi? O davvero il secolo XX iniziato con Pirandello, Svevo, Tozzi e poi proseguito con l’altissima lezione della Morante e Gadda si è pure concluso lì? Vi sono stati poi non dico grandi scrittori, di scrittori buoni, discreti o persino ottimi ne abbiamo avuti, ma romanzieri? E i grandi raccontastorie? Forse l’ultimo, scomparso quasi un anno fa, è stato Rigoni Stern…
Vi sono strade diverse da quelle di Scurati et similia? Vi è una resistenza non elitaria? Vi sono strade da imboccare?
La biografia di Anna Maria Carpi su Von Kleist in realtà è un esempio puntuale di romanzo, si direbbe volendo proprio catalogare un saggio romanzato… Vi è il filtro di quello che è fiction, la storia rivissuta e affrescata. Altro esempio e altro percorso originale è quello di Buffoni col suo Zamel. Nove citava Balestrini, a me viene in mente un’importante poetessa e narratrice, oggi troppo spesso dimenticata, come Rossana Ombres. E guarda caso i nomi citati sono tutti provenienti da esperienze poetiche…
2) A cosa serve lo Strega e in generale sono utili i premi? Questione di visibilità è la risposta. In fondo in una società votata alla sovraesposizione e al culto dell’immagine, dell’esserci sempre e nonostante tutto, anche i letterati (brutta, bruttissima parola. La letteratura soleva dire Morante è prostituzione) non rinunciano al marketing. A cosa serve lo Strega? A guadagnare e a vendere. Si dovrebbe riflettere su chi ci guadagna di più e perché…
3) Che ruolo hanno i critici oggi? Assolvono davvero al loro compito? Si recensisce davvero un libro? Lo spirito critico sussiste? Si riesce a essere onesti con se stessi?
Per quanto mi riguarda, Scurati almeno un miracolo l’ha prodotto: sono d’accordo con Diamante & Policastro.
Metto prima Diamante per gli autori di riferimento che cita, non ultimo il bravo King che, con “It”, ci presenta un “vero” bambino alle prese col male, e che, con lo gnostico “Ombra dello scorpione”, il male lo descrive “davvero”.
Ho letto Scurati? No.
E’ dal giorno della sua autocandidatura che, quasi ogni giorno, prendo in mano il suo libro. Lo sfoglio, ne leggo qualche pagina.
Non mi è piaciuto e non lo leggerò.
@ maria v.
questa volta, purtroppo, non posso essere d’accordo con te.
Cosa deve fare un critico?
Se non sei d’accordo, devi ribaltare le sue argomentazioni, non mettere in forse la sua funzione.
Forse puoi chiedere un’indicazione in positivo.
*
L’indicazione in positivo, però, non la chiederò alla Policastro.
Facendo parte del 35% degli italiani che pensano di capire gli articoli dei giornali, ma, tra questi, del 30% che non capiscono gli articoli dei critici letterari, mi faccio tutto da solo, e, cercando compagnia, propongo che la vittoria allo Strega, vada, ex.equo, a Franz Krauspenhaar, Era mio padre, e Giorgio Vasta, Il tempo materiale, che, mi pare, di aver già indicato, almeno da gennaio, come i migliori libri italiani dell’ultimo anno.
E come ha ragione la Policastro su Saviano!
“Insomma, l’introduzione al Decameron, non i trattati sulla peste del Trecento.”
clap clap clap
I giudizi qui esposti, della Policastro su Saviano, sono esternazioni da dilettante: vogliamo discutere di come avrebbe potuto altrimenti che essere o ritornare ancora una volta, su quello che, appunto, invece è stato, ed è riuscito ad essere gomorra, fuori dai canoni, dalle regole consolidate al punto da non aver ancora finito di scandalizzare certi critici ? una cosa è affermare che si tratta di un unicum e scongiurare epigoni, un’altra che la Policastro si metta dietro le quinte a propinare all’autore ricette che avrebbero, secondo lei, dovuto far lievitare meglio la torta…
lei crede che un libro del genere sia ancora lì ad attendere il suobeneplacito, in base al censimento di presunti requisiti, e non riconosce invece che il posto che gli spettava gli sia stato già assegnato, di diritto, e sia stato proprio il pubblico, una volta tanto, a farlo? e non voglio nemmeno accennare alla gaffe, chiamiamola così, della Policastro sul Saviano in cerca d’identità, uno dei pochissimi autori che sia riuscito nella chimerica impresa di consegnare tutta intera ad un’opera la sua identità, con tutto il carico che comporta e che ancora sconta, e mi fermo qui
lo spunto di Angelo mi sembre essenziale per uscire dall’impasse. Parliamo anche del ruolo che hanno gli editori e i loro editor nei tanti romanzi costruiti a tavolino, altrimenti siete i primi a ricadere nel soggettivismo romantico di cui parlate. Un libro è veramente il frutto del lavoro di un solo autore? Forse in certa piccola editoria è ancora così, ma quando si arriva a questi livelli mi sembra che i “paratesti” assumano un’importanza quasi pari al testo di partenza (e ancora, qual è questo testo? basti per tutti il recente esempio di Carver).
Inoltre vedo che anche qui, come in molti altri dibattiti, è spuntata la parola “realismo”, usata in accezioni diverse, tanto che ormai sembra voler dire tutto o niente… forse dovremmo ripartire dalla definizione di certi concetti, dal significato che rivestono oggi… ecco un buon lavoro per la critica…
Lo Strega ha i suoi difetti, ma almeno non contempla la delazione, come invece Pordenonelegge, come si desume dall’outing di A. Cortellessa:
*Uno dei Lettori, il quale insegna in un’Università che non nomino, ha come superiore diretto, professore ordinario, un noto poeta la cui non memorabile opera non ha ricevuto molti voti. E che ha cominciato a sottoporre a mobbing questo Lettore in quanto sospetta di non essere stato da lui votato.*
Mi sembra che basterebbe il nome di Walter Siti sulla cui importanza come scrittore sembrano per una volta essere d’accordo (quasi) tutti – che cosa bella e rara! – per far pensare che il problema non stia nel seguire o meno moduli narrativi di autofiction o autobiografia, ma nel come si riesca a farlo.
Scurati non l’ho ancora letto, per cui non mi pronuncio sul suo romanzo, mentre vorrei allargare un po’ lo sguardo ad altri nomi che negli ultimi decenni (ossia assai prima che si potesse parlare di tendenza) hanno interpretato in modi assai differenziati e personali questo tipo di approccio alla narrativa.
Una larga parte dei libri di Michele Mari, alcuni di Giulio Mozzi, Edoardo Albinati, Eraldo Affinati, Mario Mancassola, Antonio Franchini, Antonio Pascale e a naso direi pure l’ultimo libro di Valeria Parrella, sebbene usi un io narrante non apertamente autobiografico. Aggiungo “Lettere a Nessuno” e “Gli Esordi” che per me sono libri importanti, ma penso soprattutto che a Moresco andrebbe riconosciuto lo statuto di scrittore vero e di peso anche se non si condivide il suo modo di fare letteratura.
Saviano per me ha già dimostrato con Gomorra di essere uno scrittore, anche se un domani smettesse di scrivere altro che articoli o scrivere del tutto. Motivarlo in un commento è pressoché impossibile. Dico solo che secondo me la letteratura non coincide solo con lo stile, ma con l’aderenza di tutti i suoi mezzi formali (scrittura, costruzione, tecniche narrative ecc.) a ciò che le preme dire, qualcosa che però non si presenta scisso e esterno al testo come “contenuto” o “messaggio” (lo so che detto così è troppo semplice). E in questo Gomorra mi pare un libro riuscito, cosa che non toglie che lo si possa anche criticare. Non sono necessariamente i libri più perfetti, quelli meno ingombri di zavorra ad essere queli più letterariamente rilevanti, secondo me.
Poi esistono casi come – per me – quello di Genna, dove la stessa modalità è convincente in alcuni libri come “Assalto a un tempo devastato e vile” (scritto negli anni novanta) o nelle potentissime parti autobiografiche di “Dies Irae”, mentre ho trovato l’io di “Italia de profundis” troppo caricato di significati che non riesce a reggere e soprattutto piuttosto di maniera, alla maniera degli scrittori che a un certo punto fanno il verso a se stessi, il che è una cosa assai comune.
Ovviamente il breve elenco fatto sopra rappresenta i libri che mi sono venuti in mente subito, verosimilmente quelli che mi sono rimasti più impressi e potrebbero mancarne altri che o non ho letto o non ricordo.
Ma era per dire che le cose vanno guardate un po’ più da lontano perché la letteratura ha tempi e neccessità diversi dai trend e dalle mode.
Poi se si arriva al trend che col solito cortocircuito domanda-offerta viene alimentato dal mercato, ci sarà chi lo insegue o cerca di approffitarne in buona fede, sulla base di una sintonia preesistente o convinto che quella sia la strada più giusta, e chi lo fa invece con più calcolo e furbizia. Ma anche in questo secondo caso, l’unica cosa su cui vale la pena soffermarsi è, alla fine, la qualità di un libro.
@ chi è del ramo:
-tra i 100 elettori di Pordenonelegge, chi è ricercatore o professore ordinario?
– tra gli autori che hanno avuto pochi voti, chi è professore ordinario?
grazie. a incrociare i 2 dati poi ci penso io.
Ho l’impressione che taluni abbiano da poco scoperto la parola autofiction (dopo aver scoperto la parola fiction) e ora si balocchino nell’usarla tanto per dare aria alla bocca.
Non credo che in letteratura sia importante l’io, se venga dissimulato nascondendolo o nascosto sovraesponendolo. Sono d’accordo in linea di massima con ciò che dice Biondillo nel suo primo post.
Il valore di un libro sta nella scrittura e nella capacità di narrare un “come” dello scrittore. Siamo liberi di leggere ciò che vogliamo e io personalmente sono piuttosto stufo di questa critica o dormiente o straparlante.
(ah..esigo l’emarginazione di Nove dall’editoria, ha detto “farsi pompini a vicenda”, affermazione sull’editoria che taluni possono confermare usai io stesso 5 anni orsono. Per cui l’aspetto nel mio dorato esilio con in mano i cinque euro del copyright prima che Google abolisca tutto ;))
In soldoni, importano solo i libri belli. Full of life è autofiction? Scuola di nudo è autofiction? E, perché no, Moby Dick è autofiction? E Sterne? E Bukowski? E Chatwin? E Piccolo Karma di Coccioli? E..altri cento o duecentomila libri…
Ma di che cosa vanno cianciando questi con autofiction in bocca. Gli scrittori italiani? Forse hanno la colpa di essere poco coraggiosi. Anche il mio ultimo libro inedito finito nel 2006 è autofiction se queste sono le tesi..e se come probabile uscirà forse nel 2027 esisterà ancora l’autofiction o sarò fuori moda o moltissimo alla moda….o sarò morto e quindi da “recuperare”?…ma per piacere…
@maria v
Gentile Dott.ssa,
ma Le è sfuggito, forse, che il successo di massa, in una società avanzata, non è mai (mai mai, eh!) “assegnato” dal pubblico, né “di diritto”, tantomeno né “di forza”. Le è sfuggito, mi sembra, che “il pubblico” è una nozione astratta, non proprio la somma, e nemmeno la serie, dei singoli lettori? Essendo una platea, piuttosto, perché si formi bisogna che qualcuno riempia il teatro: secondo i metodi, e per mezzo dei mezzi, che può usare. E nemmeno tanto gratuitamente.
Le è forse sfuggito (ma forse è un mio abbaglio, perché sembra proprio grossetta questa), poi, che nessun autore può mai (e dico mai mai, eh!) “consegnare tutta intera ad un’opera la sua identità”. Intanto perché l’identità è quella nozioncina che, per l’appunto, nega qualsivoglia supposizione di interezza: l’identità eccede, va da sé, essendo l’identica di sé stessa (essendo 2, insomma); e perché, per giunta, Saviano avrà consegnato la sua anagrafe (e ne paga il prezzo): l’identità di autore non la può consegnare: è un enunciato iscritto sul frontespizio del libro, una condizione trascendentale: un oggettino che sfugge a quella bonaria fiducia nell’esistenza delle cose che Lei mostra di nutrire, senza intermezzi o incidenti. Del che, impossibile negarlo, dobbiamo un po’ tutti assai invidiarla! Però, Dott.ssa, ai tropi, di qualunque foggia, è meglio non credere troppo: l’insegnava Freud, e prima di lui il severo, e noiosissimo, Ludovico Muratori: quindi se una impresa è “chimerica”, allora è “chimerica” (non si può imprenderla, evidentemente).
As-segnare, con-segnare, e via di possibili ulteriori suffissazioni: segnano forse una certa lacuna nel segno? La sentenza, impervia come si conviene, ai lettori dei romanzi contemporanei.
+per db: perché non vuole contare anche i professori associati?
+per aldo nove (lo vedo informato sui retroscena e ne approfitto): scurati è bisex? lei suggerisce che si farebbe fare i pompini tanto da lei quanto da gilda policastro. e gilda policastro? è femmina? è bisex? con chi sta? ma lei sta parlando di “pompini” reali o virtuali o metaforici?
+sempre per aldo nove, che scrive:
“Vi siete mai chiesti come mai in Italia Nanni Balestrini non ha MAI vinto un premio letterario mentre è tradotto e premiato in tutto il mondo?”
io non me lo sono mai chiesto, ma ora che me lo chiedo non riesco a indovindare la risposta. me la dice? sono sicuro che interessa anche a molti altri. forse tra gli anni Sessanta e Settanta i “premi letterari” non erano molto di moda? e magari c’erano altre forme di riconoscimento? Balestrini allora in Italia non era molto ai margini né misconosciuto, mi pare. forse ai tempi di Autonomia Operaia non era molto figo vincere un premio di poesia? forse lei intendeva dire che non ha MAI vinto un premio in italia DOPO il 1979? però sulla biografia di Balestrini sul sito ufficiale http://www.nannibalestrini.it io leggo:
“Premio alla Carriera 2007 del Dams di Bologna”
allora forse lei intendeva dire: – Vi siete mai chiesti come mai in Italia Nanni Balestrini non ha MAI vinto un premio letterario tra il 1980 e il 2006? sono confuso. la ringrazio per ogni chiarimento che vorrà darmi.
saluti,
lorenzo carlucci
Signora Policastro, ho letto con attenzione la sua risposta. Credo di avere compreso ulteriormente il suo punto di vista, che, forse non le sarà sembrato nel mio primo commento, condivido per la gran parte. Unica nota stridente: il senso della parola “pessimo” libro, come definisce quello di Scurati. Anche questa un’eterna questione: chi definisce? Il critico? Le migliaia di copie vendute? Il tempo?.
Quando citavo un suo eventuale risentimento (lei dice professionale), non avevo certo intenzione di marcare il tono in maniera tendenziosa, la ponevo come ipotesi (possibile o meno). Il mondo editoriale, non glielo devo confermare io, come altri settori della vita lavorativa, ribolle di schiaffi morali, di dispetti infantili, di egoismi traballanti e acidi, di colpi bassi da pugilato antisportivo. Un difetto pensare che lei possa forse avere qualche fastidio/pregiudizio/rancore nei confronti di Scurati? Ha comunque spiegato, abbiamo capito, credo.
Aggiungo un ultimo elemento.
Un tale sosteneva molti anni addietro: “Chi scrive in modo trascurato confessa così, prima di tutto, che egli stesso non attribuisce un gran valore ai suoi pensieri”.
C’è chi potrebbe pensare questo di Scurati.
OT
Lo chiedo senza intenzione polemica: ma come fanno, molti che qui commentano, a leggere o almeno conoscere così tanti libri di autori italiani contemporanei? Sono davvero così importanti rispetto ai classici o a tutto ciò che di altrettanto o più buono si pubblica in traduzione? O ne leggono altrettanti di classici e di stranieri? E se è così, dove diavolo lo trovano il tempo per leggere tutti questi libri?
ringrazio l’ottimo Carlucci e rifletto sul mio lapsus, ché deve leggersi:
-tra i 100 elettori di Pordenonelegge, chi è ricercatore o professore associato?
– tra gli autori che hanno avuto pochi voti, chi è professore ordinario?
per i neolettori che non hanno il tempo di sciropparsi tutto il thread, riassumerei così:
del romanzo è rimasto il manzo
Non leggerò Scurati. Ho letto le sue interviste, ascoltate, lette recensioni e quant’altro e non mi ha/nno convinto. Mi volterò da un’altra parte, verso cose più interessanti. Sono un lettore. Ho seguito i vostri sfoghi dalla classifica snob fino ai pompini, e altre cazzate. Certo lo stato di questi intellettuali è sconfortante, deprimente. Vado a rileggermi i classici, ‘fanculo!
Da lettrice: ho letto i tre romanzi più importanti di scurati; li ho trovati interessanti; a volte un po’ comici (nel senso che è vero che ha la fissa per il “sesso facile che allegramente dilaga”); comunque con un contenuto, soprattutto Il Sopravvissuto; Una Storia Romantica mi è sembrato un gran divertimento, un puzzle di luoghi comuni culturali, un gioco di società.
Questo mi basta per decidere di acquistare e leggere anche il prossimo, perché so che non mi annoierò; perché, vedete, purtroppo è la noia del lettore che dovete cercare di combattere quando scrivete; tutta la discussione su autofiction (e allora?); romanzo vivo o morto come il gatto di Schroedinger; autore che sta dentro, che sta sopra, che sta di lato, che sta vicino o che sta lontano è molto bella ma sapete che serve solo a voi stessi che la fate? Passate il tempo a chi sa fare l’elenco più autorevole di capolavori contemporanei: più titoli di nicchia riuscite a tirare fuori e più fate bella figura. poi vi telefonate per ringraziarvi a vicenda e intanto il livello culturale della gente là fuori è definitivamente sotto lo zero, anche grazie a questa spocchia.
E poi queste critiche che ho letto qui trasudano un livore verso la persona scurati che non capisco; a me interessano i libri; di lui come persona non me ne frega niente; certo che è un pallone gonfiato: tutti quelli che scrivono lo sono, altrimenti dove lo troverebbero il coraggio di mettere su carta se stessi (e le dimensioni del proprio pene) pretendendo di essere letti? E’ banale.
Tornando un po’ a monte, all’ articolo di gilda policastro e al titolo assegnatogli da domenico pinto: credo che le due cose si sposimo e non confliggano, né il secondo sia fuorviante rispetto al primo, si tratta invero di una sintesi (o considerazione) effettuata, in senso lato “giornalisticamente”, sulla base di alcune considerazioni critiche sul libro di Scurati, che mi sento di sottoscrivere, per quello che vale la mia sottoscrizione, dall’ultima alla prima riga. E respingo, ci tengo a farlo pubblicamente perché la questione riguarda l’etica di tutti noi che militiamo criticamente su giornali e riviste, ogni insinuazione, pure avanzata in post precedenti a questo mio, sulle motivazioni che hanno spinto un critico, gilda policastro, a recensire, negativamente, come ha ritenuto di fare, il libro di scurati. Il nodo sta appunto nell’etica della pratica critica, oggi troppo spesso marginalizzata e ridimensionata da insinuazioni di questo tipo, sempre più di frequente avanzate in caso di “stroncature”. Ora, a prescindere dal fatto che sarebbe interessante capire il perché lo stesso meccanismo non venga denunciato con la medesima solerzia quando si tratta di lodi o apprezzamenti, il problema sta proprio nell’eccessiva disinvoltura con cui si confuta, senza argomenti, il fondamento di un pezzo come quello in esame, esemplare invece per come, pur affrontando in limine questioni generali (penso alla volgarizzazione dell’autofiction, di cui in troppi parlano senza conoscere storia e portati del concetto), resti aderente all’oggetto di cui si occupa. Che da questa aderenza, dal merito delle valutazioni che ne vengono tratte, come è dovere di un critico, si evinca poi un giudizio che, richiamandosi anche allo scenario, al contesto editoriale, intellettuale e giornalistico in cui inevitabilmente si inscrive una recensione (ancor più nel caso di un personaggio costruitosi come scrittore proprio sulle pagine dei giornali), venga tradotto nella formulazione di un titolo come quello apposto qui da domenico pinto, è non solo giusto, legittimo e corretto, ma anche esatto. Per coloro che male pensano, poi, e che non sono convinti, provino loro a ricordare nei confronti di quale scrittore italiano (tra i molti che fortunatamente non mancano) scurati, con un ampio articolo, abbia manifestato un debito letterario. La risposta, come in una sciarada della settimana enigmistica, è nella paternità della fondazione che presiede allo Strega. Insomma, se tutto si tiene, non è proprio, o non solo per colpa dei critici.
@ helena: no, su Siti non siamo affatto tutti d’accordo. O noi che non siamo d’accordo – e lo abbiamo spiegato scrivendone – contiamo meno degli altri? E poi “le cose vanno guardate un po’ più da lontano perché la letteratura ha tempi e neccessità diversi dai trend e dalle mode”. Appunto, non è Stendhal che ha scritto i Ricordi di egotismo?
Avevo letto Una storia romantica, leggerò anche questo. Amo Celìne, e non dovrei leggere Scurati? C’è di peggio, e di meglio.
Secondo me, in molte prove recenti si confonde l’io narrante con l’io estetizzante. Mi piace citare una frase tratta da “Il responsabile dello stile”, un saggio di Antonio Pascale, uno che non ama le masturbazioni ma la narrazione vera: “In sostanza, la questione è: non devo mettere il mio ombelico in primo piano, ma al contrario chiedermi: il mio ombelico (non quello degli altri) che posto occupa nel mondo?” Questa nuova narrazione dell’io (quella di Pascale) è un modo per avere un punto di vista sulla realtà che possa garantire concretezza e autenticità, l’io come carta assorbente ma anche come osservatorio. Ma il personaggio-io di cui si narra, secondo Pascale, deve nelle pagine fare esperienza morale, deve, davanti al lettore, scegliere la sua strada e sviluppare un conflitto. E questo è alla base della distinzione tra realismo autoriale e inchiesta, in quanto in quest’ultima ci si concentra sulle condizioni esterne che rendono possibile il conflitto, bypassando lo sguardo del narratore. Al contrario nella scrittura narrativa avviene una identificazione morale tra narratore e lettore. Il problema, sostiene Pascale, è che i lettori (e gli scrittori, aggiungo io) sempre più spesso, non si identificano moralmente con i personaggi ma diventano i personaggi stessi. Al posto della rappresentazione c’è la teatralizzazione del sé, ed è una bella differenza. Si tratta di una posa per la quale si perde di vista non solo la realtà ma anche lo stesso io, del quale resta una scoria (preziosa come un souvenir) teatrale che gioca sulla retorica della falsificazione. L’io esibito è troppo spesso un’invenzione, una deriva estetizzante che perde di vista il punto di partenza.
Noto tutto ciò nei libri di Scurati, ancor più nei suoi interventi televisivi. E per consolarmi mi vado a rileggere “La manutenzione degli affetti”.
con tecniche purtoppo ottocentesche di calcolo combinatorio, il cervellone del Baghetta sta incrociando i dati della soffiata-cortellessa: la rosa degli elettori-timidi-associati/ricercatori s’è ridotta a 3. per sera speriamo di fornirvi il risultato finale.
quanto al pornografo Scurati, accettiamo le critiche, ma non i refusi:
a “La manutenzione degli affetti” leggere “La manutenzione degli attrezzi”.
Insomma, dov’è il problema? Scurati vuole lo Strega a tutti i costi? Diamoglielo. Così sarà tutto più chiaro.
@ aldo nove
Solo per puntualizzare, non essere suoerficiale, non esercitare solo la tua memoria corta; discuti il merito delle opinioni letterarie di Cordelli, che le ha espresse sempre sui giornali, dove non lancia strali ma pubblica articoli (recensioni, pezzi critici etc.) di letteratura. Lo ha fatto abbastanza spesso da riempire due volumi (per Le Lettere; La religione del romanzo e Lontano dal romanzo, per un totale di più di settecento pagine). Ma, appunto, dicevi, te, chi li legge più i libri….
Antonio Scurati l” ho incrociato al festival della letteratura di Gavoi. Non lo conoscevo, all’ epoca, e me ne ricordo perché lesse al pubblico un passo di Houellebecq, non mi ricordo se tratto da “Piattaforma” o da “Le particelle elementari”. Però ricordo distintamente che, finito il suo intevento, si scostò dalla folla e si mise in disparte. Non troppo in disparte, in realtà, ma a circa 30 metri dal palco, in finta/perfetta solitudine, dove io -e altri- potemmo scorgerlo mentre osservava le rondini con una digicam in mano, ma senza usarla.
Guardava, era guardato, poteva fotografare, era lì lì per fotografare, non fotografava. Mi ricordo che mi avvicinai a Marcello Fois, che chiaccherava con Faletti e De Cataldo (mi pare), e gli chiesi se aveva visto Scurati mettersi dietro le quinte (ma in realtà -davanti- alle quinte) e fare l’ assorto. Fois fece un risolino bonariamente sornione e, posato lo sguardo d’ intesa sull’ interlocutore scrittore (che ovviamente non ero io) disse qualcosa come: “Eh, sì, lui è così, è un poeta”.
C’ era anche Aldo Nove, l’ anno dopo. Mi piace ricordarlo, perché lesse sotto una calura allucinante davanti a un pubblico da post/pre-pranzo (a seconda di), comunque benevolente, e fece libero sfogo di dignità.
(Scurati era invece rinfrescato da getti di acqua nebulizzata sotto un tendone bianco, quello degli incontri con le star. Forse anche per questo non te lo da, Aldo. Tu scrivi, lui scrive. Ma la star è -a quanto pare- lui. E i pompini si fanno solo verso l’ alto).
Mi sfugge il senso del titolo dato (qui su NI) all’articolo di Alias. Se della giuria dello Strega mi fido, lascio che faccia il proprio lavoro: non sta a me dire cosa devono e cosa non devono selezionare. Punto. Se della giuria dello Strega non mi fido, non credo nella credibilità del premio strega: e allora perché devo intrigarmi nella disputa su chi merita e chi non merita? Lo Strega si occupa di libri? Bene, lo faccio anch’io. Se il libro dell’autore S. (o A., o G. , ecc.) non mi piace, lo stronco indipendentemente dalla sua relazione con il Premio Strega. Il che, mi sembra, ha fatto Gilda Policastro.
Poi, certo, si potrebbe discutere sul complesso da “Invidia del pene dei Quaderni Piacentini” che affligge Alias (e non solo), con la mania di stilare le liste dei libri da non leggere accanto a quelle dei libri che “se non li leggi sei una caccola”: ma dopo il post di Biondillo cos’altro aggiungere? E comunque, perché NI eve cercare di mettere sul serioso andante un tema (chi NON deve vincere lo Strega, e perché) già trattato con la giusta ironia da FK?
bè allora quanto è lungo sto pisello di scurati che fa così gola a nove? le cose interessanti ve le tenete per voi? ma lo strega non è un liquore giallo giallo?
ok, non leggerò Scurati: me ne ero già convinto leggendo la stroncatura su Alias, che mi pare sia nel merito, onesta. Però insomma, va bene l’ironia, ma certi commenti con presa per il culo sull’autore-personaggio mi sembrano ridicoli e volgarotti, a volte fate l’effetto di sbirciarvi l’un l’altro dal buco della serratura per beccarvi nelle pose più oscene, Voi Autori.
Credo che l’intenzione di Pinto fosse quella di lanciare una discussione sui meccanismi della legittimazione letteraria. La forma provocatoria che ha scelto può aver fuorviato la discussione – e mi dispiace intervenire solo adesso, perché sarebbe stata – e forse è ancora – una buona occasione per mettere a fuoco alcuni aspetti dello stato delle lettere oggi in Italia.
Dunque, provo a riepilgare: Scurati (non importa ora con quanto narcisismo) si auto-candida allo Strega. Il suo gesto equivale grossomodo a dire: I premi letterari sono corrotti, asserviti alle logiche mercantili dei grandi gruppi editoriali, ora gliela faccio vedere, mi candido io, che invece sono fuori dai giochi e rappresento la vera letteratura.
Qualche giorno fa Franz Krauspenhaar, su NI, lo pende in giro, dice: Mi candido anch’io (con foto e paralume sulla testa). La beffa trova consenso: a giudicare dai commenti “indiani” (e non) sono d’accordo.
Potrebbe finire qui. Ma Pinto non è soddisfatto: vuole (credo, interpreto) che si dica esplicitamente e che si discuta il fatto che Scurati non ha i numeri, per fare un gesto del genere. Per due motivi. Il primo è che Scurati è (forse un buon critico ma certo) un pessimo scrittore: per questo (credo, interpreto), Pinto ha pubblicato la netta, inappellabile stroncatura della Policastro. Si può essere d’accordo o meno (personalmente condivido, a proposito di Scurati, l’esperienza e i pensieri di Alcor) ma è un bene che su questo primo punto ci sia stata discussione.
Sull’altro, invece, non c’è ancora stata. Scurati non ha i numeri per “denunciare” il “sistema” dei premi letterari, perché (credo, interpreto) è lui stesso parte del sistema, è uno “potente”. Pubblica per Bompiani (RCS), è professore universitario, scrive sulla Stampa, va a presentare il suo libro nel salotto di Parla con me e può lanciare la sua provocazione al “sistema” dalle pagine –nientemeno – che di “Repubblica”. Scurati è la versione contemporanea dello scrittore d’apparato, disposto a suonare il piffero per la rivoluzione (oggi, più modestamente: il timido riformismo della nostra sinistra) in cambio del sostegno delle testate di partito (oggi, in epoca di capitalismo finanziario pienamente dispiegato: il Gruppo). Le cose che dice e scrive sui giornali e in tv sono generalmente di buon senso, condivisibili. Solo, con la letteratura ha poco a che fare.
“Uanema d’o criatorio!” avrà pensato (credo, interpreto) Pinto, anticipando Capone: Proprio Scurati deve venirci a fare la lezione di “purezza”? Va bene Moresco, ma Scurati! Quella che Scurati vuol gabellare per una rivoluzione dei puri (scrittori) contro i corrotti (dal mercato) non è in realtà che un regolamento di contri interno a una camarilla oligarchica. Scurati (credo, interpreto) È il mercato, come dimostra la sconfortante povertà della sua scrittura, la sua subalternità alla cronaca mediatica, ecc. (cfr. Policastro).
Con Scurati la messinscena dei premi letterari, la fiction industrial-pubblicitaria che ha espropriato e continua a espropriare gli scrittori e i critici dei mezzi per legittimare e sostenere la dedizione all’”arte”, a una letteratura che non sia solo prodotto editoriale, non fa che perpetuarsi, erodendo sempre più il ristretto margine simbolico (di riconoscimento reciproco) che dà un senso all’enorme investimento esistenziale degli unhappy few che scelgono di dedicarsi a produrre letteratura coraggiosa, potente, libera.
Ecco perché “Scurati non deve vincere lo Strega”, anche se lo Strega fosse (come probabilmente è) il più condizionato dei premi, l’ostaggio più lucroso della gang editoriale.
Dopodiché sarebbe bene indagare la struttura del campo editoriale italiano, com’è oggi, e proporre e sostenere tutte quelle iniziative (penso ad es. al premio Dedalus, ma anche, eventualmente, discussioni come questa) che consentano, almeno in prospettiva, alla “letteratura” – cito ancora Alcor, che mi sembra abbia colto bene il punto – di riguadagnare alcune posizioni sui “prodotti editoriali”. E questo è un lavoro tutto da fare.
Continuo a credere che sia di natura metodologica la questione e che sia interessante proprio perché oggi non si va più a descrivere e a contestare i meccanismi. Ripeto trovo il pezzo di Policastro utile, prende posizione, afferma senza remore, non si nasconde.
nel Pordenonelegge (che a differenza dello Strega milita in C2 come l’Albinoleffe) stando a cortellessa milita un timidone associato che, pur protetto dall’anonimato, è mobbato da un autore ordinario:
*Uno dei Lettori, il quale insegna in un’Università che non nomino, ha come superiore diretto, professore ordinario, un noto poeta la cui non memorabile opera non ha ricevuto molti voti. E che ha cominciato a sottoporre a mobbing questo Lettore in quanto sospetta di non essere stato da lui votato.*
il cervellone del Baghetta è riuscito a individuare sia l’uno che l’altro – solo le iniziali però: l’uno è D. A., l’altro D. R.
Pur non avendo letto il libro di Scurati, che fino ad oggi non sapevo chi fosse, penso che l’uso della prima persona c’entri poco con la recensione negativa di un libro, che dovrebbe mantenere le sue motivazioni entro i margini che ne delimitano i fogli, senza la necessità di farlo dipendere, in qualche modo, dalle intenzioni dell’autore, che quasi sempre non bastano a spiegare il valore di un’opera.
Del resto, Moravia nel passato e Marias oggi, usano molto la narrazione in prima persona, in un modo che ci rende difficile immaginare le stesse storie raccontate da una voce diversa.
Non dubito che la critica letteraria odierna sia abbastanza deficitaria in Italia, almeno io come lettore vorrei capire di più dei libri che leggo, ma anche di quelli che non leggerò (e non per giustificare le mie rinunce, ma per il bisogno di conoscere anche ciò che siamo costretti a tralasciare), e, ad esempio, rimpiango le stroncature di Cotroneo sull’Espresso, forse perché, ogni tanto, mi viene da pensare che la sua capacità di leggere libri sia superiore al suo talento di scriverli, o forse perché penso che il suo libro più bello sia un libro che racconta le storie di altri libri.
Quando la critica trascende le parole di un libro raccontandomi le virtù o i difetti del suo autore per tentare di convincermi della sua più o meno bontà, ho sempre l’impressione che non sia una buona critica, perché è come se io da lettore fossi costretto a subire un’imposizione persuasiva con argomenti che non ho riscontrato nella lettura che ho fatto.
Il diritto di critica è intoccabile, tuttavia il lettore non dovrebbe provare mai la sensazione che le ragioni di chi la esercita possano stare al di fuori della letteratura, come se fossero contaminate da un astio che ne avvelena le parole, e che insuffla in chi legge il tarlo del sospetto che sempre sminuisce ciò che di per sé potrebbe avere un valore.
Tutto quello che può dire o fare Scurati non penso possa diventare un accredito sulla qualità della sua opera, almeno per chi crede che gli avvoltoi volteggiano solo su ciò che sentono sta per morire.
Ma sono solo pensieri di uno che vi ha letto di passaggio.
db ci tiene sulle spine? o forse non vuole definitivamente sputtanare il povero lettore vittima di mobbing?
tutto questo parlare di giurie mi ha fatto venire la febbre, 3 volte in 3 settimane. l’idea che mi sono fatto io dei premi letterari (Baghetta di db in primis, né è anzi l’esempio più deleterio) si avvicina a quella della Casa delle libertà: si fa il ca**o che pare, e non c’è molto da discutere, accettare o fare peggio.
per rimanere OT:
in ogni caso db è pure fuoristrada, nessun poeta in classifica ha le iniziali D. R. e nemmeno D. A.
@helena
Concordo con Gallerani: su Siti non siamo tutti d’accordo. Anch’egli s’appoggia all’autofiction per mancanza di spinta creativa (a battig non ripeto quanto ho già detto nel mio primo post a proposito del genere e dell’autore che se ne serve). I libri di Siti sono scritti meglio di quelli di Scurati, ma sono vacui, opachi: tant’è che l’ho sempre assaggiati a spizzichi e bocconi e mai letti in toto, pur essendo di stomaco forte. Ciò che manca a Siti è la credenza, lo slancio di fede per produrre una vera grande opera: egli beccheggia qua e là, ma alla fin fine dov’è il suo nerbo? Dove stanno carne e sangue e voglia di aprire la realtà, voglia di rischiare? Forse in quella profluvie di palestrati, in quella tristezza acida, in quel cinismo illuminato da una luce da sala operatoria? Siti ha confessato apertamente in un’intervista a Fazio di non amare il mondo: dai suoi romanzi ciò si coglie appieno, dato che il mondo da lui proposto è a due dimensioni (una e mezza?). Grandi scrittori sono stati e sono nichilisti, o tentati dall’abisso del nichilismo, e penso a Conrad, Cèline, Bernhard, Greene, Roth, McCarthy, solamente per citarne alcuni vicini o contemporanei: ma anche da atei, da disperati della fede essi, quando fanno arte, fremono e CREDONO in qualcosa: nell’arte appunto. Ciò che Scurati, Siti e tanti altri non riescono, temo, nemmeno a concepire. Quanto a Saviano, l’ho già detto e lo ripeto: la forza di GOMORRA, l’intuizione valida è stata quella di presentare un potere mafioso economico globalizzato. Ma il libro non è necessariamente un grande libro perchè sfugge alle classificazioni, oppure perchè il suo autore rischia la vita; si tratta d’un’opera scritta male, e che non ha alcunché di memorabile COME ROMANZO (qua mi toccherebbe spiegare cos’è il romanzo, ma non lo faccio per due motivi: uno perchè lo sappiamo tutti; due perchè molta gente salterebbe su a dirmi che il romanzo non è ciò che dico io e non possiede confini già delimitati – che poi è esattamente ciò che anch’io penso, ed è la dimostrazione che tutti sappiamo su tutto cose assai diverse); COME REPORTAGE invece presenta delle originalità di notevole impatto, vedi l’oramai celeberrimo incipit, oppure la scena in cui il narratore passa il dito attorno ai fori delle pallottole sul vetro (naturalmente non m’interessa se Saviano abbia assistito o meno allo scarico dei morti cinesi dal container, e se abbia o meno passato il dito attorno ai buchi delle pallottole; ciò che conta è che quegli episodi posseggono un’intrinseca forza inventiva, esercitano un potere dinamico sull’immaginazione e non si limitano a ingozzarci di dati, statistiche o fatti di cronaca, come parecchie altre parti del libro). Ma sono bagliori creativi troppo tenui nell’arco di cinquecento pagine per definire Saviano un romanziere, e GOMORRA un romanzo.
C’è un libretto, molto meno recensito dei libri di Siti e Scurati e Saviano e via dicendo, che a mio avviso mostra una maggiore forza creatrice: ed è SIRENE di Laura Pugno. Quando lo leggi, non stai leggendo un articolo di giornale, e nemmeno ti stai facendo i cavoli dell’autore: è una buona, vecchia, sana storia, dotata di energia, ritmo e linfa. Oppure penso a LA RAGAZZA DI VAJONT di Avoledo o IO NON HO PAURA di Ammaniti: niente di eccezionale, ma buone storie sì. Anzi storie, direi.
Un’ultima cosa a helena: lo stile è un po’ il carattere dello scrittore; e deve aderire alla perfezione al contenuto per realizzare un’opera seria. La quale opera seria può essere di una semplicità disarmante, e però toccare vertici di assoluta poesia: un esempio per tutti, il primo che mi viene in mente su due piedi: I SILLABARI di Parise, lui sì un grande scrittore che possedeva uno stile straordinario, terso come un vetro lavato di fresco.
la cosa peggiore in effetti è che a questi premi ci si fa il ca**o.
autocandidarsi è tautologico, nec laudetur nec damnatur
yembi ha ragione, scusate, è la prima volta che usiamo il cervellone per questo tipo di sondaggi e non ci siamo accorti che D. = demand, i.e. è l’input non l’output. dunque vale:
associato A.
ordinario R.
ma yembi ha torto marcio altrove: ché noi miriamo a sputtanare il mobbing, mica il mobbed.
@db
ho il sospetto formicolante invece che l’imputato baronetto sia U.P., e che il suo fiero scudiero precarietto sia S.R.; ma le scommesse sono aperte, chi tiene il banco?
@ tutti
ho letto su wikipedia che skurati ha fatto un documentario prendendo spunto dall’arcinota inchiesta casarsdeliziana; chiedo a voi, gente studiata: sarà che per vincere un premio in italia, da un po’ di anni a questa parte, bisogna necessariamente aver riesumato in qualsivoglia salsina il vecchio pierpaolo? no perché se è così, vi prego, ditemelo, che mi metto subito a studiare, corbezzolina!
adoro lo stile di diamante
detto per inciso, il vero aldo nove si firma A9.
@ db
post-migration
il tema mobbing di UP è migrato , cambiando post-o
da classifiche di qualità: una risposta
a PERCHÉ SCURATI NON DEVE VINCERE LO STREGA
perchè?
Kurz tiene Banquo da mo
sputtanato il mobbing saranno ca**i per il mobbed
Un quasi OT (ai lettori vispiteresi): non mi interessa Scurati (per mia ignoranza), né tantomeno mi interessa il suo io, sia che si trovi dalla vita in su che da quella in giù. Ma sono molto interessato all’io nella letteratura (romanzo e poesia). E, bordeggiando l’OT, ricordo che la letteratura è, insieme, testo e tendenza, o, altrimenti detto, scrittura e poetica. Non a caso, le storie letterarie, quando c’è materia (e quasi sempre c’è), raggruppano le scritture in scuole, tendenze, correnti, poetiche, ecc. Ovvero, tendenza realista, sperimentale, postmoderna, ecc. Per questo, trovo che il “risveglio” dell’io (prima persona singolare, io narrante) che si affaccia sul mondo oggi si configuri, non certo in assoluto ma relativamente a specifici risultati (o poetiche), sia un’operazione di restaurazione rispetto all’io narrante frantumato, lacerato, decentrato, esploso lasciato in eredità dalla grande letteratura novecentesca, E la lettura politica della poetica dell’autore fa parte del giudizio critico. E’ una sua responsabilità.
@Michele Sisto
Verrebbe fatto di sbagliare altri mille titoli, se quelli infelici muovessero più spesso interventi come il tuo.
@db
Sei fuori luogo; so che non te ne importa nulla, ma almeno imbavaglia gli altri tre quattro pseudonimi con cui vai ciangottando per NI.
“Verrebbe fatto di sbagliare altri mille titoli, se quelli infelici muovessero più spesso interventi come il tuo”
condivido in pieno.
mi arrendo, ma prima spiffero i nomi:
associato ABBONDIO: se non ce l’hai, il coraggio non te lo puoi dare
ordinario RODRIGO: questo concorso non s’ha da fare
fiat iustitia, pereat mundus! = la c’è, la provvidenza!
@dp
mo provo a fare il tema: mi puoi ridire il titolo? e posso copiare da sisto?
Perché se leggo Michele Sisto, o Diamante, o Helena, o altri, e mi sembra di hapire tutto, o quasi, e se e leggo db e mi sembra di un hapire nulla?
Ora e dice che s’arrende. Speriamo.
Leggo solo ora e non ho la forza di rispondere distesamente a tutti, ma voglio almeno ringraziare chi abbia offerto la propria opinione in modo argomentato e civile, senza ammicchi, battutine, sottintesi, allusioni, etc. etc. Mi colpisce l’intervento di Rask, l’ennesimo commentatore che mi spiega come avrei dovuto recensire un libro che però dichiara di non aver letto, imputando dunque le critiche che muovo all’autore-eroe (è Scurati stesso a contaminare i piani, imponendo l’identità una e bina e l’esibizione costante e indigeribile del suo narcisismo) al mio risentimento. Non è la prima volta che scrivo stroncature, né sono la sola. Ma non mi è stato mai chiesto, prima d’ora, se ci fossero dei motivi personali di risentimento dietro/sotto/intorno: penso, ad esempio, alle riserve che espressi a suo tempo sull’etica pascaliana (di Antonio, qui citato, intendo) della “manutenzione degli affetti” (quelli piccoli-piccoli, a scapito del Mondo con la maiuscola). Mi vien da assecondare il complottismo e la dietrologia a mia volta: che Scurati sia proprio davvero un intoccabile, che non si possa parlare liberamente dei suoi libri, che si debba considerare la sua autoinvestitura a scrittore-intellettuale come un dogma senza possibilità di discussione? Mi viene da sorridere nel constatare come Rask abbia de facto compiuto la medesima operazione che ho compiuto io, e di cui molti fedelissimi di questo blog mi accusano: si assume la responsabilità del giudizio negativo (io del libro di Scurati, lui della mia recensione) e di proporre un modello diverso (io Aldo Nove, lui Cotroneo: e pace…). Si tende a dimenticare, nella democrazia del blog in cui tutti hanno letto tutto (tranne, a quanto pare, il libro di cui parliamo), si esprimono, approvano, bastonano, condannano, che il critico di mestiere fa questo (e che il critico sia ormai figura assolutamente marginale per non dire inesistente, non è un buon motivo per rassegnare le dimissioni, come diceva, provocatoriamente, Sanguineti già qualche decennio fa): si assume la responsabilità pubblica del giudizio, che non siano le stelline, i pallini o il pollice verso, e nemmeno un impressionistico ”mi piace/non mi piace”, ma un’argomentazione distesa e un discorso sociale. Sì, un discorso non autoreferenziale, ma rivolto ad altri, lettori più o meno colti, più o meno interessati. Quelli che al critico chiedono, dopo lo Strega, ma lo devo leggere, Giordano? E la Mazzucco? Ho provato a rispondere in anticipo, stavolta, perché purtroppo, se Scurati è un poeta, come osservava qualcuno poco fa, Manganelli diceva che persino i poeti “si vendono”.
Non ho ri.commentato ieri notte.
Sarebbe parso strabiliante anche a me, dare per due volte ragione a Policastro & Diamante nella stessa giornata.
Lo faccio stamattina.
ma che Scuti! ma che Sirati! arridatece Manzo Alessandroni!
Non ho letto tutti i commenti e però mi consento lo stesso una osservazione a margine.
Come già qualcuno qui ha detto in altra occasione, si può valutare una recensione anche (soprattutto?) non avendo letto il libro di cui tratta.
Si può non essere d’accordo col metodo critico del recensore, col piglio, con la struttura della recensione, anche senza aver letto l’opera cui si riferisce, di cui riferisce.
Il giudizio sull’opera può avvicinarsi o addirittura coincidere con quello del recensore, ma il giudizio sulla recensione può restare autonomamente negativo, o critico.
Insomma esiste una cosa che forse si chiama critica della critica, nella quale ci si può esprimere anche in assenza di fruizione diretta dell’opera o del gruppo di opere.
In-somma se la critica rivendica una sua autonomia dal testo ponendosi come testo a sé, appartenente ad un insieme preciso e specializzato, con i suoi sotto-insiemi, eccetera, allora deve anche essere pronta ad accettare obiezioni anche in assenza di percezioni dirette del testo da parte del contraddittore.
In genere, diceva qui qualcuno, una recensione si legge prima di leggere un libro.
E una recensione è buona non solo quando parla bene del libro, ma anche quando ne parla male facendolo bene, anche quando non se ne condivide il giudizio.
E viceversa può darsi il caso di una cattiva recensione, di un testo critico inutile e cretino, che tuttavia osanna un libro e magari con-dividiamo l’osanna, ma non la recensione.
Dette queste ovvietà, aggiungo di aver apprezzato la recensione di Policastro, anche se la domanda finale (che sento porre da decenni) su dove sia finito il romanzo non mi coinvolge più di tanto.
@Diamante
Scusa, sarà mattina, ma non ho trovato il tuo primo post che citavi per non ripeterti.
Comunque, in linea di massima sono abbastanza d’accordo su quello che dici…meno sui libri che hai segnalato come buon storie (Ammanniti? Una sceneggiatura ora è un buon romanzo?).
E, per amor di chiarezza, dato che io non ragiono per autori ma per libri preciso che non ho citato a caso “Scuola di nudo” di Walter Siti. Primo, adesso recensiscono tutti i suoi libri e lui li fa anche a pagamento (vedi l’ultimo reportage per Rizzoli che francamente trovo abbastanza nauseabondo, più che altro per come l’ha presentato il venerdì di repubblica facendogli un pessimo servizio..) ma nel 1995 nessuno lo leggeva Siti.
Hanno cominciato a recensirlo e a blandirlo da Troppi Paradisi, un pessimo libro scritto male che però parlava di tv e personaggi culturali…… E in tutti i libri di Siti anch’io riscontro più o meno i difetti che dice Diamante.
Ciò non toglie che la sua opera prima “Scuola di nudo” per me rimane un capolavoro di enorme forza e di grande letteratura. Poi sarà accaduto qualcosa che non ha a che vedere con la letteratura. Ma visto che nella vita di uno scrittore scrivere un capolavoro è anche troppo continuerò ad ammirare quello scrittore che ha scritto “Scuola di nudo” anche se non ho letto il Contagio e probabilmente non prenderò più altri suoi libri a meno che sfogliandoli non veda altro.
Tutto qui. Per amor di precisione.
“In genere, diceva qui qualcuno, una recensione si legge prima di leggere un libro”.
il problema, tashtego, è che su nazione indiana nessuno legge libri.
ecco allora un piccolo florilegio dello stile scurati:
si trattò di una pestilenza delle anime e delle menti.
a bergamo, come altrove, il bacillo giunse da fuori – nemmeno bram stoker
ma il cerchio dell’infamia , o dell’abiezione, si allargò ben presto – 1800 o giù di lì
il rischio della soppressione del Male totale – caspitina.
rilasciando simili dichiarazioni mi stavo comportando come un cretino – eggià!
cercavo di commettere goffamente un delitto che mi fornisse un pretesto per la soprressione del mio fidanzamento – magari la soppressione della lingua italiana e questo nonostante gramellini, vicedirettore del la stampa: si badi bene, rassicuri il nostro sempre tra le pagine del romanzo: tu sai scrivere.
la commozione strisciò in me al primo colpo – qui in questo strisciare si riconosce uno scurati purissimo.
da quando poi cristina parodi la nota conduttrice… assieme al marito giorgio gori, il potente produttore – qui siamo nel dilettantismo più atroce: se la parodi è così famosa e il marito così potente che bisogno c’è di specificarlo?
ora, che per stroncare un simile cane ci sia bisogno di tirare in ballo il solito repertorio da bacthin a pasolini la dice lunga sullo stato della critica italiana.
@alcor
Grazie!
@battig
Tutto chiaro. In effetti SCUOLA DI NUDO non l’ho letto. Quanto ad Ammaniti, è in effetti uno sceneggiatore, ma IO NON HO PAURA mi sembra avere un qualche potere fabulatorio.
@soldato blu
Ehi, ma non starai esagerando a darmi tutte queste volte ragione? :)
Premio Strega? Cos’è, quel concorso letterario che negli ultimi 23 anni è stato vinto undici volte da Mondadori, quattro da Einaudi, tre da Bompiani, due da Feltrinelli e Rizzoli e una da Garzanti? Ah ah ah…
Ah, scusate, ‘Ninfa plebea’, vincitore nel ’93, era pubblicato da Leonardo…
Puah! :-j
Io non riscontro affatto nella scrittura di Siti i difetti che vedono diamante o battig, non ricordo adesso cosa ne avesse scritto gallerani anche se concordo sul fatto che è uno scrittore controverso. Ma non starò a difenderlo qui, era solo per ribadirlo, perché vedere associato uno scrittore di rango e sul quale vale la pena di discutere a uno scrittore come Scurati mi dispiace per la comunità dei lettori, perché vuol dire che la letteratura à la Scurati ha già fatto danno, creando quella broda indistinta in cui non si capisce più cosa va tirato fuori e cosa deve andare a fondo.
Ieri sera, cercando un’altra cosa, sono capitata sul programma della critica letteraria di benjamin – non dite subito no, guardate cosa scrive al punto 3:
“Una critica onesta, basata su un giudizio di gusto imparziale, non è interessante, ed è in fondo priva di oggetto. Il fatto decisivo in un’attività critica è se essa ha alla base un disegno obiettivo (un piano strategico), che ha quindi in se stesso una sua proprio logica e una sua propria onestà”
Molto sano.
Questo disegno obiettivo e questo piano strategico li ho trovati sia nel titolo che nella recensione. Li approvo, li approverei paradossalmente anche se si rivolgessero a un autore che magari giudico positivamente. Potremmo discuterne.
Sisto ha detto chiaramente che Scurati è un progetto (autoprogetto e progetto industriale) mediatico ed editoriale, “non ha i numeri per denunciare il sistema” e però assume quella postura. A me non interessa il personaggio, e soprattutto vorrei sempre tener fuori la persona. Ma nel caso di Scurati, come si è potuto capire dai commenti, almeno il personaggio va tenuto presente, perché personaggio e prodotto, sono molto profondamente intrecciati.Questa doppiezza è inquinante. Inquina la lingua, l’immaginario, la mente, ottunde a forza di additivi la capacità di guardare criticamente il mondo, il paesaggio, ché non c’è mica solo il paesaggio naturale.
La critica – e non mi riferisco ai meri recensori dei giornali, che in fondo dicono mi è piaciuto non mi è piaciuto esattamente come noi lettori- la critica nel senso che dice Benjanim, è prima di tutto critica culturale e persino economica, se non ha un progetto culturale che critica è?
Criticare Scurati è cruciale da questo punto di vista, Scurati è quello che Virginia Woolf chiamava middle brow, è la zona grigia, la zona del farlocco, dell’artefatto, non la vera buona letteratura popolare, che non fa mai danno.
Sottoporlo a critica non è solo una questione di estetica, ma soprattutto di etica, come ha detto anche Gallerani, anche se forse più riferito all’etica personale del recensore, che però a questa dovrebbe legarsi. O anche, di pulizia, manutenzione dell’ambiente, chiarezza, quando mi mettono davanti un piatto vorrei sapere non solo com’è fatto, ma anche di cosa, dove sono stati presi gli ingredienti e che effetto avranno sul mio organismo.
Questo solo per i due o tre (pochi in verità) che hanno detto lo leggo lo stesso e mi piace, leggetelo, ma leggetelo almeno criticamente, sapendo cosa leggete.
@ diamante
sono in imbarazzo
@Gilda Policastro
Io che a malapena riesco a scrivere un commento, non potrei e non saprei dirti (posso darti del tu?) come scrivere una recensione. Magari inconsapevolmente l’ho fatto, e questo dimostra come spesso le intenzioni non bastano alla scrittura, e quanto sia importante il feedback della lettura per conoscere cosa percepisce chi ci legge. Il mio non voleva essere un intervento intellettuale (non ho i titoli, né la forza per poterlo fare su un blog così prestigioso), ma il ritorno di una sensazione che potrebbe non avere nessuna attinenza con ciò che l’ha provocata. Capisco quanto poco possa interessare l’impressione di un singolo lettore per giunta poco informato delle cose di cui discutete, tuttavia mi è sembrato opportuno scrivere i pensieri che mi erano stati suscitati dalla lettura dell’articolo, perché le mie perplessità non nascevano dal diniego del valore di Scurati che non ho letto, ma dalla polemica, non tanto sottointesa, di come egli intenda e viva la letteratura. Forse il mio disagio dipende dalla mia abitudine di tenere separati il libro e chi l’ha scritto, e se le biografie possono farci comprendere, talvolta, meglio i morti, spesso costringono i nostri giudizi sui vivi. E’ una mia opinione, opinabile come tutte le opinioni, però sappiamo come i detrattori di qualcuno (e non solo in letteratura) quando non riescono a demolirne l’operato professionale, ricorrono a denigrarlo sotto tutt’altro aspetto, come se queste allusioni avessero il potere di inficiarne l’opera. E, purtroppo, molte volte riescono nel loro intento. Sicuramente non sarà il tuo caso, ma rimango convinto che le recensioni migliori siano quelle che, senza troppa enfasi e con un tono distaccato, sfuggono l’equivoco di una possibile interpretazione faziosa a tutto beneficio di quel lettore che vuole misurarsi solo sulla scrittura.
Probabilmente non leggerò il libro di Scurati, dato che non credo ai libri che si lasciano invadere dalla cronaca, perché il rapporto tra letteratura e realtà è così indissolubile che i buoni romanzi possono solo celarlo tra le loro righe.
Non ho letto l’ultimo Scurati, ma ne avevo subodorato le pagine leggendo qualche recensione e assistendo a una trasmissione televisiva in cui era invitato.
Scurati è uno che si prende molto sul serio.
In generale direi che uno dei problemi di alcuni scrittori italiani sia quello di prendersi troppo sul serio. Da qui lo slittamento da narratore ad autore stesso. Chi dice “Io” non è un personaggio, non è un narratore extradiegetico o intradiegetico, ma spesso in molti romanzi è l’autore stesso. O anche quando non lo è, c’è puzza che lo sia.
Quasi come se il documentarismo, l’aderenza alla realtà, la cronaca abbia dato a questi scrittori la possibilità di poter finalmente uscire allo scoperto e dimostrare, non so come dire, il loro narcisismo.
Di conseguenza (siccome a causa della cronaca è più importante cosa si dice di come lo si dice) la scrittura si è come appiattita. Non solo, ma a essersi appiattita, quasi congelata, nullificata, è la narrazione.
La scrittura è divenuta un susseguirsi di enunciati.
La scriitura dice, non racconta; delinea un mondo già preeesistente, non ne inventa un altro, giacché la realtà in cui le storie accadono è data per scontata: è la realtà che ci circonda è che tutti conosciamo.
Pure, se ci pensiamo bene, la Letteratura nella Storia, pur nelle sue diverse fasi, ha sempre lavorato in maniera diversa. Voglio dire: anche i Demoni di Dostoevskij prendeva spunto da un fatto di cronaca, no? Eppure, eppure quello che ci racconta lui, il modo, l’ironia anche che utilizza, sembrano creare qualcosa che prima non c’era.
Perché poi vogliamo parlare di ironia? Grottesco? Surreale?
C’è troppa drammaticità nel registro di molti libri italiani contemporanei, molta, troppa, come nelle fiction televisive, come in alcuni film, come se la realtà, la tragicità della realtà non possa essere raccontata se non con toni drammatici…
Non saprei come dire, non so: io vengo dalla lettura di Bolano, di “2666” e de “I detective Selvaggi”, ma anche de “La scopa del sistema” di Wallace, e mi chiedo: ma ci rendiamo conto della straordinarietà di certa scrittura contemporanea o no? E dovendo scegliere come lettore tra un libro di Bolano e uno di Scurati, visto che non posso leggere tutto (dovrò pure vivere, o no?), perché dovrei leggere Scurati e rinunciare a Bolano?
Bolano non era uno che si prendeva molto sul serio.
@alcor
Perchè sei in imbarazzo? Siamo in allegro disaccordo su Siti: evviva. Però io non ho messo Siti sul medesimo piano di Scurati; ho premesso, e qui lo ripeto, che Siti scrive meglio di Scurati, molto meglio; il che è già qualcosa.
@Minotti
Condivido il tuo pezzo totalmente. Hai messo il dito proprio nella piaga: utilizzare l’io autobiografico per sbarazzarsi del racconto e illudersi che tale autobiografia (e/o tale cronachismo) possano risultare interessanti, quando non addirittura importanti, cruciali. Azzeccatissimo l’esempio de I DEMONI di Dostoevskij; la letteratura vera, si sa da dove parte, mai dove può arrivare.
@lcor, ti correggo il refuso: a *Criticare Scurati è cruciale* leggere *Ignorare Scurati è cruciale*.
Censurare Dal Pra oggi 25 aprile è invece esiziale. mi spiego: alle h 07:29 ho segnalato sotto il post di sparzani sulla resistenza la prima pagina di
http://www.radiopopolare.it
dove parlo del volume “La guerra partigiana in italia” (Giunti 2009) scritto da Dal Pra nel 1947 e censurato dalla DC di allora. Sparzani ha avuto la bella idea di censurare la segnalazione, e io ora ho la bella idea di segnalare il fatto in varie sede telematiche e alla mailing-list dei docenti della Statale di Milano, dove Dal Pra insegnò una vita ( a meno che entro 1 ora sparzani o chi per lui non rimetta il mio commento di stamane)
La recensione di Gilda Policastro mi sembra veramente convincente, per quel poco che posso avere letto di Scurati su http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=17398 …sono banalmente sinistroidi, la sua cultura arriva fino a omettere il nome del graqnde scriuttore russo suicida in albergo come dire lo sappianmo tutti chi è? O bravo!
Quoto: ”
IO NON HO PAURA mi sembra avere un qualche potere fabulatorio.”
è cosa rara…
ringrazio dp della correttezza democratica e della solerzia, ma quando prometto di segnalare il fatto alla mailing-list dei docenti della Statale di Milano a meno che entro 1 ora sparzani o chi per lui non rimetta il mio commento di stamane, intendo ovviamente che la segnalazione compaia sotto il post *25 aprile* di sparzani, dove la inviai (e non in coda a un thread di frivolezze)
@db
i tuoi commenti vengono moderati automaticamente, per ovvi motivi. l’autore del post può decidere se sbloccarli o meno. ma dovremmo passare la vita a metterti panni freschi sulla fronte?, fammi capire. basta pestare i piedi! le dinamiche, dopo anni di frequentazione di NI, sono le solite: tu non accetti regole, e va bene, sei libero di non accettarle; i redattori ti moderano quando superi il segno.
se ti rassereni, e non danneggi le discussioni e le persone, se non crei stuoli di pseudonimi che ti tengano bordone, allora puoi commentare. altrimenti no.
@ Riccardo stracuzzi
(cui non ho ancora risposto)
stia comodo, non sono dottoressa, ma la mia diserzione delle aule cattedratico- asfittiche non mi affligge con complessi d’inferiorità nei cofronti delle più onorevoli cariche. dunque, fumo per fumo, non mi sembra luogo adatto ad esaminare argomenti di una certa complessità quali l’identità, che so benissimo, essere esito incerto e mutevole di progressive costruzioni e altrettante metodiche decostruzioni, che ciò che rende il gioco ancora più vivace è quanta parte e quale ci veniamo, di volta in volta, raccontando. ragion per cui ogni posa assunta, nella migliore delle ipotesi, è un compromesso precario e contingente non destinato a durare o invece, piuttosto, una menzogna, tutta intera, come la letteratura, o, guarda caso, proprio come la vita…
ma non è questo quanto tutti ci tocca in sorte, tutti riguarda, al punto da desumerne proprio qui il tratto che tutti, indistintamente, ci “identifica?”
Saviano, con Gomorra, ci ha offerto solo uno specchio, per farlo è dovuto passarci attraverso e, guarda caso, non ne è ancora uscito…
per me si tratta di un’opera davanti alla quale, la critica, può solo concedersi un atto di umiltà e ammettere, onestamente, i suoi limiti come la storia insegna
La polemica sul premio non m’interessa perché non credo ai premi, ma m’interessa la questione della critica e dei suoi limiti,
Niente di personale con i critici, la critica mi affascina pure, quando è ben fatta, ne condivida o meno giudizi e postulati, ne leggo e ne leggerò, è necessaria la critica di cui parla Alcor, ad esempio, non quando diventa un’appendice, non la tollero come sostitutiva, di un’opera, intendo, non può essere così arrogante da dispensare consigli, su questo punto dev’esserci un equivoco:
il mestiere del critico NON può essere quello di insegnare ad uno scrittore il suo mestiere. ridicola la posa del gobbo, del suggeritore, un critico non è, salvo rarissime eccezioni, uno scrittore o un poeta, più spregiudicatamente Baudelaire: “sarebbe prodigioso che un critico divenisse un poeta, ed è impossibile che un poeta non contenga un critico”
aggiungo solo che, qui come altrove, il mio pieno appoggio va ad helena che , come sempre mostra doti non comuni, prodigioso equilibrio tra dottrina e sensibilità.
Mi sorprende molto arrivare, alla fine di questo dibattito (fine per me, che i doveri chiamano a occuparmi d’altro), a constatare che la querelle aperta dal mio articolo su Scurati mi annoveri, tutto sommato, tra i suoi meno aspri detrattori. Mi spiace non concordare in pieno con Alcor, e in una certa misura con Tashtego: certo che si potrebbe arrivare a criticare il mio pezzo o approvarlo senza aver letto il libro, se il mio pezzo fosse un esercizio di stile, che non vuol essere. Chi viene da una formazione accademica (che non rinnego, in questo caso, anzi, rivendico come base per una militanza più consapevole e fondata) rimane per fortuna saldamente ancorato all’idea che la critica non possa scostarsi mai troppo dai testi (da Spitzer in su, se è possibile) e che la vera critica, come diceva qualcuno, altro non sia che un collage di citazioni. Il libro, per criticarlo, bisogna averlo letto (e questo è Lapalisse), e una recensione si legittima solo nella sua coerenza interna, nella sua autoevidenza: dunque per criticarla (la critica della critica, cioè, o critica al quadrato) si può non aver letto il libro, però certi equivoci nascono proprio dall’ostinazione a parlare del recensore e della sua buona/cattiva coscienza, tendendosi a distanza dal recensito. Allora, la critica della critica per essere attendibile a sua volta, deve dire dove sta la contraddizione, dov’è l’anello che non tiene, dov’è il difetto, nel pezzo criticato. Invece qui talvolta si continuava banalmente a dire che ce l’ho con Scurati, perdendo di vista che nel mio pezzo si parlava del libro, e poi dello Scurati che si mette volontariamente in scena: lo Scurati auctor-agens, non il suo modo di vestire, il suo accento, il suo conto in banca, il suo cane, se ne ha uno.
Mi veniva poi in mente che il problema del panorama culturale italiano contemporaneo è forse, a mio parere, che i veri scrittori che abbiamo si siano messi a fare i critici, dove la critica dovrebbe rimanere anche nei suoi momenti più alti un’offerta di servizio, rivolta da un interprete alla comunità che si riconosce nelle lettere, più che nei modelli televisivi. A questa comunità io mi rivolgo non per parlare dello Scurati-macchina da guerra (che poi alcune cose degne le fa, come la collana “Agone”, che ha ospitato libri di alcuni dei nostri migliori critici, da Daniele Giglioli a Gabriele Pedullà, per tacere del pamhplet dello stesso Scurati, che sebbene contestabilissimo ha avuto il merito di proporre alla discussione pubblica una delle poche idee critiche, e nel senso benjaminiano cui si richiamava Alcor, degli ultimi anni); quello che mi premeva proporre all’attenzione dei lettori di Alias e poi di Nazione Indiana era l’idea che se Scurati è arrivato a pubblicare il suo quarto romanzo con un grande editore, e la narrativa italiana contemporanea è ai suoi minimi storici (prova ne sia la difficoltà con cui i Grandi Lettori del Premio Dedalus hanno individuato i libri da votare, comunque con una sufficienza risicata), e nemmeno lo scrittore che, piaccia o non piaccia ad alcuni di noi, è forse il solo, al momento, cui si possa riconoscere uno statuto intellettuale unito alla qualità della scrittura (sia pur non uniforme), cioè Walter Siti, può competere minimamente con le grandi vette della letteratura internazionale (ma nemmeno con i picchi più bassi, come McEwan), forse dobbiamo ripartire esattamente dal commento ai libri: leggerli, innanzitutto, specie prima di scriverli, e leggerli postillandoli, correggendogli pure i refusi (un editore, se non sbaglio Fazi, aveva uno spazio apposito nel proprio sito): perché se vogliono vincere lo Strega, e vogliono i miei 18 euro, almeno “il bambino e sparito” (Scurati, p. 47), devono obbligatoriamente emendarlo.
@policastro
su cosa in particolare non sei d’accordo con me?
perché se siamo d’accordo su Siti, sul fatto che si debba partire dai testi (e tu lo fai) e su Benjamin (e le due ultime cose non sono in opposizione, al contrario) mi sembra che siamo d’accordo su tutto.
*i tuoi commenti vengono moderati automaticamente, per ovvi motivi.*
i motivi sono così ovvi che non ne vedo alcuno: non dico volgarità, non minaccio, non ricorro nemmeno a uno pseudonimo (in quanto db sono le iniziali di dario borso)
*tu non accetti regole*
io accetto tutte le regole della netiquette di NI
*i redattori ti moderano quando superi il segno.*
?
*crei stuoli di pseudonimi che ti tengono bordone.*
se creassi persone viventi che poi con uno pseudonimo ecc., sarei dio.
il problema serio invece è questo: sparzani è libero di censurare dal pra, e io sono libero di segnalare la cosa ai docenti del dipartimento di filosofia, dove sparzani compare a volte quale correlatore con giorello. (intanto è rimasta 1/2 ora di tempo per postare il mio commento di stamane)
Ah, ho capito, credo, no, ti davo fiducia primo sulla base della mia esperienza di lettura precedente e secondo, ma più importante, perché nella costruzione del tuo pezzo vedevo un attenta lettura del testo.
@db
da ora i cahiers de doléances puoi inviarli alla posta di NI.
quelli da cui è partita la riv. francese?
(se invece alludi ai piagnoni, hai sbagliato regione – parola di dionisotti)
il mio secondo commento era sempre per @Policastro, ovviamente.
Devo dire che m’è venuta voglia di leggere – e apprezzare – il libro di Scurati…
;-)
@ db
va bene inventare pseudomini, ma firmarti gianni biondillo!
109 commenti a questo post; 109, più o meno, intellettuali interessati all’argomento sempre vivo “romanzo”. C’è ancora qualcuno che scrive romanzi? ci si chiede. Ho scritto due romanzi (inediti), uno visionario e uno policentrico, per essere molto sintetici ma per dare l’idea. Entrambi vorrebbero essere non convenzionali (infatti sono inediti). Qualcuno avrebbe il coraggio di leggerne almeno uno, o almeno l’inizio di uno (con tutto il diritto di piantarlo lì se non gli piace)?
Capisco che la domanda è alquanto sfacciata e a qualcuno può parere indisponente. Comunque questa è la sfida.
Ringrazio Alcor che ha già scritto gran parte delle cose che avrei detto anch’io. Pur con un “quasi” messo fra parentesi, forse mi è sfuggito che coloro che trovano criticabile Walter Siti sono più di quanto non pensassi. D’accordo. Mi pare però che in ogni caso si parta come da un altro livello di critica, ossia che non si metta in dubbio la qualità dello scrittore, il fatto che ciò che scrive appartenga alla letteratura (cosa che invece avviene per Scurati).
@Diamante: non ho mai sostenuto che Gomorra sia un romanzo. E non credo neppure che sia il suo ibridismo in sé che lo faccia rientrare nell’ambito della letteratura. Tu trovi che sia “scritto male” e va bene, teniamoci le nostre opinioni, che a volte si incontrano, altre no. Per esempio, anche a me “Sirene” è sembrato un libro molto bello.
@ Stefano: Benissimo Stendhal. Però quella, diciamo, è una brillante battuta finale. Capisco che uno possa non amare un certo tipo di letteratura perché troppo egotistica, autocentrata ecc., però non mi pare un criterio che pertiene alla critica letteraria. Lo diventa quando riesci a mostrare che caio ti sta raccontando o mettendo altrimenti in scena i cazzi suoi e se stesso – detto in francese- col presupposto che questi siano rappresentativi di qualcosa che lo oltrapassi, mentre questo salto non avviene affatto sulla pagina. Quindi, alla fine, si tratta sempre di guardare libro per libro, o no?
@stefano gecchele
Non ho capito se sei ironico – anche se credo di sì. Comunque: se ho detto che IO NON HO PAURA ha un qualche potere fabulatorio non significa che lo ritenga un buon romanzo. Ritengo però che sia un romanzo, il che in una discussione come questa può avere una sua importanza. In altri termini, e dato che il romanzo equivale alla mela: IO NON HO PAURA è una mela o un’arancia? E’ una mela. Guasta e col bruco, ma ALMENO è una mela. Possiede, del romanzo, uno spessore affabulatorio, uno spessore minimo magari, ma nel quale si può entrare; in quella calda estate, in quel grano, in quel sudore polveroso e spaventato si può entrare e rimanere; anche se per poco, il gioco regge. E’ un gioco futile e sbrigativo, ma SI PUO’ giocare. Ci si può ALMENO lasciar distrarre per un paio d’ore. Cerco ancora di farmi capire: il romanzo di Ammaniti può non piacere, può fare schifo, ma Ammaniti l’ha estratto dalla sua immaginazione, laddove mi pare che Siti, Scurati, Covacich, Piccolo, Saviano, ecc. ecc., ognuno a modo proprio, si preoccupino innanzi tutto di bandirla, l’immaginazione. Come se immaginare fosse una colpa, di fronte a questo mondo scrutato da miliardi di miliardi di telecamere, vivisezionato, traumatizzato, congelato e al tempo stesso moltiplicato dalla cronaca, dai giornali, dalla televisione. Mi sembra che oggi l’immaginazione alzi le braccia e biascichi: fate voi, io vado troppo piano ormai, lascio il campo al rimbambimento coatto delle immagini ripetute, degli slogan, della pubblicità, dello spot elettorale (inteso in senso ampio: life is now, perchè voi valete, ecc. ecc.) Nel mio primo post a questo mi sono riferito, non fregandomene un accidente dello Strega: all’afasia creativa oggi dilagante – secondo me la spia d’un malessere profondo, perchè la creatività è futuro. Poi, ha ancora una volta ragione la Policastro quando sottolinea la drammatica distanza fra la nostra narrativa attuale e quella straniera. Non dico una Alice Munro o un McCarthy o un Wallace o un Roth (del quale fra l’altro molti libri non mi piacciono) o un Saramago o un Marquez, ma anche un Auster o un Franzen ce li sognamo. Infine, se devo dirlo lo dico: Ammaniti non mi piace neanche un po’. Amen.
Ammanniti mi fa cagare, Io non ho paura? roba da salotto, come uno stupido quadro per signori attempati.
@Diamante e per tutti.
Alla fine si arriva sempre lì. A dire che qui ce li sognamo certi scrittori. Io non sono d’accordo.
Io sono il primo a dire che molte colpe del basso livello culturale in genere del nostro sistema letteratura sono da attribuire ad una vastissima fascia di scrittori che oggi come oggi scrivono come impiegati della letteratura un libro l’anno etc etc…..ma non sottraiamo colpe ai lettori.
Se in certi paesi certi libri vengono letti e idolatrati è perché ci sono i lettori di quei libri.
Qui, per pregiudizio, e basta entrare in una biblioteca o in una libreria, editori, lettori e librai emarginano gli scrittori che non stanno alla ribalta del quotidiano chiacchericcio e la critica fa altrettanto.
I lettori NON leggono libri che non siano una sorta di blandimento e rassicurazione del lettore, appena hanno davanti qualcosa di diverso virano subito verso qualcosa che li rassicuri….e questo accade proprio riguardo il discorso dell’immaginazione in particolare…..ma è troppo lungo il discorso…
Non abbiamo Mccarthy? Io direi che gli altri non hanno Morselli.
Roth? mah….e libri come Piccolo karma e davide di Coccioli?
Wallace…perchè? dobbiamo scimmiottare le altre letterature? Noi abbiamo per quante vite o Che chiamiamo anima di marosia Castaldi….e così via dicendo..
Se poi uno entra in libreria, virtuale o reale che sia, e trova l’80% dei libri che vengono dall’estero pagati profumatamente è chiaro che ha l’impressione che qui ci siano “solo” certi scrittori. E’ un vecchio problema.
Io posso essere anche il primo a criticare gli scrittori ma non esageriamo, noi scrittori che valgono li abbiamo eccome, basterebbe leggerli o rileggerli, almeno nei loro libri fondamentali. Invece qui il circolo vizioso si è ormai installato e i lettori sono di una chiusura mentale impressionante a dirla tutta. A dirla tutta sembra che il loro immaginario sia sia fermato all’immaginario anglossassone tra gli anni ’50 e ’80…..(vedi il successo di un libretto abbastanza palloso come Revolutionary Road…) insomma andrei cauto nel cominciare i soliti paragoni con scrittori stranieri…ognuno ha i propri scrittori e la propria cultura con cui dialoga con le altre culture. Noi sembriamo invece, come comunità di lettori, una comunità di pigri “uditori” degli altrui dialoghi. Come sempre si spera nelle nuove generazioni di lettori….
Sono d’accordo con te @simone battig
lagna inutile quella del confronto con la tradizione narrativa angloamericana o spagnola o portoghese o sudamericana.
Paesi diversi, enormi bacini d’utenza, lingue diffusissime, anzi, le due o tre più diffuse nel mondo occidentale, culture differenti.
Tra l’altro tutti gli scrittori elencati da diamante sono vecchi o vecchiotti, a parte wallace.
E lettori pigri, anche se non sempre è colpa loro, perciò ho trovato assurda la polemica sulla classifica di Pordenonelegge, di cui si sono amplificati i difetti senza sottolinearne i pregi.
@Alcor
Volevo dedicarmi ad altro, ma visto che non si parla più di Scurati…lagna inutile fino a un certo punto, quella del confronto con le altre letterature. Fino a Volponi, Pasolini, Calvino, la letteratura italiana è stata al passo, ora è indubitabilmente in retroguardia. Alcor, ammettilo: sul comodino hai “Il fantasma esce di scena”, e non “Stabat mater” (due titoli a caso: non il migliore il primo, non il peggiore il secondo). Perché leggi Roth e ne hai un’idea del mondo, dell’uomo nel mondo, dell’uomo in questo mondo, del trauma dell’11 settembre, dei giovani, dei vecchi, del non ancora, del non più. Poi d’accordo, caso per caso. E rispondo con ritardo a Forlani che mi chiedeva “quali scrittori”? Io credo che pochi scrittori italiani dell’ultimo decennio, al di là di qualche buon libro che indubbiamente mi è capitato di leggere (“I quindicimila passi” di Trevisan, “Il circo dell’ipocondria” di Franco Arminio, “Sirene” di Laura Pugno, “Cinacittà” di Pincio, tra i più recenti) abbiano conquistato una fisionomia imperitura (perché è a questo che guarda, soprattutto, o dovrebbe, la critica: alla lunga durata, ai libri che restino, alle proposte per il prossimo millennio, leopardianamente). Forse Aldo Nove ha la voce più originale ed esportabile, ma il miracolo di Woobinda e Superwoobinda (un successo di qualità, per dirla così) non s’è ancora ripetuto con un suo romanzo, auspicabile a questo punto. E poi, mi domando, a proposito delle responsabilità dei lettori, ma ancora una volta dei critici, che dovrebbero stanare all’interno della enorme messe di ciò che si pubblica (il mercato, dunque), ciò che è destinato a durare (il museo: per riprendere ancora una volta Sanguineti, che ha detto quasi tutto lui, prima di noi…), perché mentre altrove, ad esempio in Francia, si discuteva di un libro fondamentale come “Le benevole” (e fondamentale proprio per i temi che a partire da Scurati si sono affrontati in questa discussione: la via del romanzo, il rapporto tra autore ed eroe, le responsabilità della letteratura nei confronti della storia, i diritti dell’invenzione e tanto altro), da noi si stavano a contare i famosi morti ammazzati di Saviano? L’acquiescenza alle tendenze di mercato qui la fa da padrone non c’è che dire. E la questione dei premi, non mi pare affatto marginale, in quest’ottica, perché è la via attraverso cui passa al grande pubblico una proposta culturale alternativa alla propaganda televisiva. Qualcuno diceva qui che Scurati è andato dalla Dandini. Ci andò Giordano prima di vincere lo Strega. È il salotto televisivo, che consacra lo scrittore? Ridiscutiamone, dei premi, prassi e modalità. Non diamo per acquisito che vincano i peggiori e amen, sosteniamo gli scrittori fuori dai circuiti, gli editori marginali o semiclandestini, le proposte, tantissime, dell’editoria di ricerca, da fuoriformato, a Sironi, a deriveapprodi. Ma possiamo farlo realmente, o rimane tutto confinato in una discussione tra blogger, e poi quello lì il premio se le intasca, le sue copie le vende, e nulla cambia?
“Qualcuno diceva qui che Scurati è andato dalla Dandini. Ci andò Giordano prima di vincere lo Strega. È il salotto televisivo, che consacra lo scrittore?”
Totalmente d’accordo sul fatto che da noi l’acquiescenza alle tendenze di mercato la faccia da padrone. E’ curioso in fondo che i pochi spazi che la tv dedica ai libri siano riservati a chi non ne ha bisogno, cioè agli autori di successo, e questo a partire da conduttori (come la Dandini, o il Fazio incensatore di Erri de Luca e Saviano) c.d. di sinistra, che si considerano “contro”. C’era un bel pezzo di Cristiano de Majo su “Diario” di aprile che parlava proprio di questo. Forse un timido tentativo controcorrente è proprio quello tanto bistrattato dei 100, che pur usando il medesimo linguaggio dei bee-jay (la classifica, i voti), lo fa però puntando sulla qualità (“il tempo materiale” di Vasta l’hai letto Gilda?).
Scusate, ma non trovate strano che nessuno abbia raccolto la mia sfida, o almeno commentato o dimostrato di aver letto o letto o finto di aver letto il mio intervento? Va bene che sfida fa rima con sfiga, che qui in qualche modo c’entra, non v’è dubbio…
@
POLICASTRO
Sul comodino ho (sono andata a guardare per metterli tutti):
Austen, Mansfield park
Federico De Roberto, La paura
Belpoliti La foto di Moro
Mari, Tu sanguinosa infanzia
Stephen King, Stagioni diverse
Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno
Zeev Sternhell Contro l’illuminismo
Insomma, leggo e rileggo, Scarpa è in attesa, ma lo leggerò sicuramente, perché non dovrei? E ho letto Arminio e anche Trevisan, sono sempre un po’ indietro, la letteratura italiana non è la mia professione perciò non mi precipito, ma prima o poi arrivo.
Di Roth, a parte Pastorale americana, che ho letto con attenzione, ho un paio di titoli a testimonianza delle mie buone intenzioni, ma non è un autore che mi prenda, mentre ho letto tutto il Naipaul saggista su cui sono riuscita a mettere le mani,
Scusate, io sono italiana, posso non essere soddisfatta di esserlo, ma lo sono, perciò sia pure con lentezza, leggo gli scrittori italiani con l’interesse particolare che ho, prima di tutto come cittadina, per le forme, i sintomi, i nodi, le slavine di questo paese.
Ribadisco, lagna inutile, non è mai successo che dicendo lui è meglio di me io diventi meglio di lui o come lui.
Io concordo con te sull’importanza del testo, Curtius l’ho letto anch’io, e leggo per varie ragioni anche professionali con un occhio da amanuense certosina, ma per me la letteratura non è un orto chiuso, questi nostri scrittori sono figli del paese e dell’epoca e ne pagano il prezzo.
La critica è anche critica culturale, questo mi aspetto da lei, a partire dal testo. Nel testo, e più ancora nel corpo dei testi di uno scrittore si vede la magagna anche del paese.
@salardi
non ti viene in mente che altri cento lancino più o meno in pubblico la stessa sfida che lanci tu?
leggimi leggimi grida tutto il paese. calmina.
ecco, ora che ci penso mi viene voglia di contraddirmi, quasi credo nei premi: non “le benevole”, che pure intrapresi su sollecitazione di recensioni di wu ming e chiara valerio, mi pare, ma che comunque, dopo poco deposi un po’ delusa, un po’ annoiata, forse troppo barocca per i miei gusti, non so, quanto la magistrale Necropoli di Boris Pahor, davanti a quella mano così esitante, così contraddittoria, che tornava a riscriversi sempre da capo, mai riconciliata con se stessa e il suo passato, senza tregua tormentante e tormentata, il colosso di Littell, ai miei occhi, sfigurava.
Il cazzo si indurisce, si erge, sullo sfondo delle figure che si spostano sempre piu’ fitte giu’ nella strada, verso il punto di massima concentrazione e d’annuncio. Si indurisce sempre piu’, si scappella. Il ginecologo spastico comincia a dare i primi colpi, con la mano che scatta da una parte e dall’altra, anche il cazzo scatta disarticolatamente da una parte all’altra, tutto il suo bacino e il suo corpo compiono ogni volta un’improvvisa torsione. Anche dal basso riescono a vederlo da ogni angolazione, quelli che stanno convergendo verso l’annuncio, se solo provano ad alzare gli occhi verso il balcone, dove e’ in atto la cerimonia che precede l’annuncio. Il cazzo si erge sempre piu’, il ginecologo deve spostarsi violentemente sul balcone per assecondare gli scatti improvvisi del suo braccio e della mano che tiene saldamente la presa. Il cazzo e la mano si sfuocano improvvisamente, quando la velocita’ di scatto della mano coincide con lo scatto della torsione che sposta nello stesso tempo il suo bacino e il suo cazzo e il suo corpo come in un passo di danza. Getta indietro la testa, una spalla, deve scattare in su contemporaneamente col braccio, per non strapparlo, deve scegliere in una frazione di istante tra perdere la presa o strapparlo. Le saette delle sue gambe lo trasportano irresistibilmente da un’altra parte, mentre il cazzo continua a crescere, a dispiegarsi, a metallizzarsi. Cominciano a salire dal basso i primi applausi, di quelli che non smettono di marciare irresistibilmente verso l’annuncio, con la testa girata da un’altra parte per vedere cio’ che precede e rende possibile l’annuncio. Il ginecologo spastico non li vede, non li sente, e’ tutto concentrato sulla sua erezione e sulla sua missione. Si torce da una parte, dall’altra, getta indietro la testa, sale sempre piu’ col bacino, iniettando la sua spastica bandiera muscolare nel cielo. Il ritmo della sua mano aumenta sempre di piu’, geme, rovescia gli occhi, emette dei versi di dolore rauchi, ululati, quando il movimento improvviso del suo braccio e della sua mano contraddicono le esigenze ritmiche del crescendo. Deve mollare per un istante la presa, quando il braccio e la mano scattano troppo incontrollabilmente da una parte, per non svellere il cazzo dalla sua sede. Lo si vede sbattere, sempre piu’ disarticolato nell’aria. Se lo riafferra al volo, un secondo dopo, quando la mano viene di nuovo a trovarsi a non molta distanza. Si afferra anche le palle, se il bacino era salito nel frattempo troppo in alto, deve fare attenzione a non strapparsi anche quelle quando la mano serrata ricomincia ad andare sempre piu’ forte attorno al cazzo metallizzato. Sbarra gli occhi, le palpebre scattano verso l’alto, la sua bocca si spalanca, si richiude, si torce, va a finire spasticamente da un’altra parte, vicino a un orecchio.
Poi, all’improvviso, parte il primo schizzo. Lungo, disarticolato, increato. Altri schizzi salgono spasticamente nella notte, bianchi, fosforescenti, traccianti. Il ginecologo sposta cosi’ disarticolatamente le braccia nell’orgasmo che sembra svellere il cazzo dalla sua sede, e lanciare anche quello attraverso lo spazio. I traccianti si levano sempre piu’ intermittenti nello spazio, si iniettano nell’aria piu’ separati, piu’ densi, sparano segmenti sempre piu’ disarticolati, piu’ brevi, quando il ginecologo deve mollare per un istante la presa, poi di nuovo piu’ lunghi, quando riesce a serrare bene il cazzo alla radice, in un momento in cui il suo cazzo e la sua mano si trovano per un istante nella stessa intersezione di tempo e spazio immobilizzati, e ad accumulare piu’ sperma nei canali, per liberarlo poi improvvisamente nell’aria, nello spazio. Le linee intermittenti, bianche, fosforescenti si innalzano sempre piu’, sparate nello spazio dal suo idrante spastico. La mano del ginecologo spastico inietta sempre piu’ il suo alfabeto Morse nello spazio.
@ Alcor
A me risulta che il 65% di tutto il Paese non sia in grado, non per sua colpa, né di leggere né di scrivere… A me non capita infatti di trovare così tanti appelli di lettura scritti pubblicamente. Comunque, se tu hai sentito la necessità di fare tuo lo spirito del gruppo per mettermi a tacere, dimostri una grande anima, non c’è che dire… Non temere, non ci sarà nessuna piazzata da parte di nessun signore Nessuno che non sia stato invitato. Me ne tornerò al mio posto come succede nei migliori salotti: fuori dalla porta.
Ciao
Scusate: qualche anno fa collaboravo a tempo determinato nella redazione di in una casa editrice e un pomeriggio, mio malgrado, andando in bagno, ascoltai una telefonata. Contenuto: il Premio Strega di quell’anno. Il destinatario della telefonata, non lo so. Ma la persona che parlava si stava assicurando che quella all’altro capo avrebbe votato per il loro romanzo, sebbene, da quanto ho carpito io, non lo avesse punto letto.
Oggi cii sono ancora logiche culturali in base alle quali i premi importanti sono assegnati?
Concordo pienamente con Diamante. L’immaginazione è scredidata. Basti pensare alle fiction televisive che vengono presentate come “storie vere”, quasi come se un racconto (filmico, letterario, etc, etc) traesse il suo valore intrinseco e ontologico solo perché “vero”.
Che significa “vero” in letteratura?
La letteratura è artificio, un racconto, qualsiasi forma di racconto, anche quellla che vuole essere più aderente alla realtà, è un artificio.
Mi vengono in mente le prefazioni ai romanzi settecenteschi. quando gli scrittori, per mettere le mani avanti, dicevano che quanto andavano a raccontare era una storia vera. Ma era una bugia. E il lettore lo sapeva. Era un gioco, un gioco che paradossalmente, negando l’artificio alla letteratura per darle dignità di “reale”, ne celebrava in verità la sua natura “sovversiva”.
D’altronde, qui, sotto il cielo non mi pare si stia dicendo molto di nuovo. Questo è un antico dibattito tra Novel e Fiction, tra no fiction novel e narrazione pura.
Possono esistere diversi modi di raccontare la realtà. Quello che non è accettabile è piegare la letteratura a semplice mezzo per raccontare la realtà. Voglio dire: anche Parise faceva l’inviato di guerra, ma Parise ha scritto I Sillabari, e ne I Sillabari c’è un racconto, “Fame” che dice molto di più di qualsiasi reportage sul Biafra. Perché?
Sul ritorno ossessivo al realismo, a raccontare i fatti tragici della nostra storia (per favore basta con i romanzi che ci parlano degli anni ’70!), all’esigenza di ridurre l’arte a pura documentazione del reale, mi viene in mente un paradosso di Derrida, il quale rifletteva sul fatto che “Una imitazione perfetta non è più un’imitazione”, e che quindi il massimo trionfo dell’arte in quanto mimesi del reale coinciderebbe con la sua stessa morte.
@salardi
io non ho anima, ma senso pratico sì: chiunque sia minimamente noto nel mondo delle lettere viene sollecitato a leggere da chiunque abbia pulsioni espressive di qualsiasi tipo e riesca a mettere le mani sulla sua mail o il suo indirizzo.
Tu lo fai in pubblico, perché dovrebbe essere una modalità rivoluzionaria?
Inoltre chiunque accetti di leggere se la deve poi vedere con quelli che si piccano per il giudizio o per non essere stati letti a tambur battente. Tu mi sembri piccata ancor prima di aver avuto una risposta positiva all’invio.
E poi scusa: “Me ne tornerò al mio posto come succede nei migliori salotti: fuori dalla porta.” su:-)
Mi piace, questo gioco del rimandarsi titoli e autori tra Policastro e Alcor. Se continuassero, e se qualcun altro, altrettanto affidabile, si aggiungesse a loro, correrebbero il rischio di dare vita a l’unica critica, pratica e credibile, al Pordenonelegge.
Anche se è chiaro che la cosa funzionerebbe soltanto in Nazione Indiana.
Comunque mi pare che l’estrema difficoltà della discussione non sia tanto nella definizione “del” canone quanto nella definizione “di” canone. Su cui – come rappresentante di quel famoso 30% di lettori che poco capiscono degli articoli dei critici – mi piacerebbe leggere di più in un linguaggio un po’ libero da certi tecnicismi veramente fastidiosi.
*
O.T
A proposito di canone, in generale, se mi è concessa, un’osservazione.
Solamente da poco, ma pochissime volte in totale, ho visto citato: Roberto Bolaño, 2666.
A fronte di numerosissimi richiami ad autori decisamente inferiori.
Se non ho commesso sbagli:
-la ricerca del nome Roberto Bolano non dà alcun risultato in N.I.
-su Google nessuna pagina italiana, finché sono potuto andare avanti.
Eppure, a parer mio, non si può parlare di “Gomorra” o di NIE o delle “Benevole”, oggi, senza tener conto di quest’opera.
usa questa query di ricerca su Google:
Roberto Bolaño site:nazioneindiana.com
Cara Gilda,
Leggo questo tuo articolo soltanto oggi – sono stato via, senza Alias e Adsl – e ne approfitto per discutere, con te e con altri, alcune note a cui sto cercando di dare una forma compiuta. Quel che più mi interessa, di quanto hai scritto, sono le tue riflessioni attorno alla “distanza”.
Usi parole molto chiare a proposito
“[Il romanzo contemporaneo] Ha bisogno di ritrovare la distanza dalle cose, di parlare di ciò che accade da lontano, con l’eccedenza di visione garantita all’eroe in misura inversamente proporzionale, teste Bachtin, alla sua identificazione con l’autore.”
Per te distanza è sinonimo di “distanza lontana”. Io voglio invece prendere una strada diversa e divergente. Un’interessante riflessione sul concetto di distanza la troviamo nella storia dell’arte. In Hildebrand, ma soprattutto in Riegl, che elabora due concetti: ottico e aptico ( li riassumo brevemente, ma senza nessuna pretesa di farti un antipaticissimo “spiegone”).
Ottico: indica una “distanza lontana” rispetto all’oggetto, che ce ne offre una rappresentazione nella sua interezza, come se fosse su di un piano.
Aptico: non ci permette questa distanza, ma obbliga l’occhio a muoversi continuamente, come se fosse una mano che tocca. Deleuze lo avrebbe definito un “visivo tattile”.
Spesso questo binomio è stato considerato una norma su cui valutare un’opera: la buona arte è quella fatta da lontano, la buona arte è quella fatta da vicino. Tu sembri propendere per la prima ipotesi, io invece credo che questi due concetti ci dicano un’altra cosa, ossia che in ogni rappresentazione è inscritta una distanza nell’osservazione che mette in campo uno sguardo che coglie la scena.
Ma forse le tue considerazioni sono più complesse, ed io rischio di banalizzarle. L’impressione è che la distanza, così come la intendi tu, sia molto simile alla “buona distanza” dell’antropologo.
Secondo Levi Strauss (lo scrive in “Razza e Storia”) la buona distanza ha a che vedere con il fatto che la rappresentazione dell’altro, per essere veritiera, impone che lo sguardo – da cui quella realtà viene colta – abbia una certa distanza rispetto all’oggetto. Per Strauss l’osservatore non può essere estraneo alla cultura o all’oggetto descritto, perché non saprebbe coglierne le articolazioni, non deve però essere troppo vicino, perché l’eccessiva prossimità non gli permetterebbe di mettere a fuoco l’insieme rappresentato. Dunque bisogna stare abbastanza vicini, da vedere i particolari, ed abbastanza lontani, da non perdere di vista la scena complessiva.
L’idea che il punto di vista ben controllato sia una buona scelta per produrre effetti di realtà è stata messa in discussione da un filosofo come Paul Ricoeur (in La memoria, la storia, l’oblio).
Quanto sostiene Ricoeur è che una rappresentazione del reale legata ad un punto di vista definito, per quanto “buono”, non può tenere insieme la grande scena, ossia il grande racconto storico, con la piccola storia, ossia la storia testimoniale.
La storia testimoniale è infatti legata ad uno sguardo soggettivo, personale, localizzato, che non può mai posarsi sul grande evento nella sua interezza. Allora il reale è quello situato di chi lo vive tutti i giorni, davanti a sé e può raffigurarci quel che ha davanti, oppure quello del grande affresco, che ci racconta le storie importanti, gli eventi che cambiano la storia?
Lontano o vicino? Un punto intermedio è difficile immaginarlo.
Ricoeur ci suggerisce di andare a rileggerci Pascal. In Pascal c’è l’idea che un stesso paese visto da vicino o da lontano possa sembrare due paesi diversi, ed è dunque indecidibile stabilire quale sia l’immagine vera. L’idea è che una rappresentazione veritiera, più che derivare dalla scelta del punto di vista migliore, sia il risultato della capacità di incorporare nella rappresentazione non uno, ma una molteplicità di punti di vista.
Da questo angolo prospettico tutto il discorso sulla distanza e sul punto di vista, richiama in causa ciò che tu , una volta, hai definito “ritorno alla realtà”.
Secondo molti la “televisivazione contemporanea” ha preparato il terreno del reale rendendolo completamente assimilabile ad un territorio finzionale. Secondo altri è la realtà che dovrebbe irrompere sulla finzione, spazzando via le apparenze e facendosi sentire nella sua sostanza. Entrambe le posizioni discriminano un al di là ed un al di qua, ossia ciò che è davvero reale da ciò che non è per nulla reale. Mi pare un’opposizione difficile da sostenere. Noi non siamo in grado di riconoscere il reale in quanto tale, perché esso si da sempre come un fenomeno costruito; costruito dagli sguardi che ce lo presentano. Il nostro reale non è interamente “nel” nostro sguardo diretto, ma è inserito nel panorama mediatico e spettacolare. Ma panorama spettacolare e mediatico non sono né interamente finzionali né del tutto reali (perché non esiste qualcosa che sia completamente reale o finzionale).
Ed è così, a mio parere, che ci troviamo dinanzi a testi come “Gomorra”, “Asce di Guerra”, “Dies Irae” “SLMPDS”, “Cibo” e, forse, “Il bambino che sognava la fine del mondo”. Romanzi metadiscorsivi che pensano ad un realismo che non è più il realismo dell’oggettivazione, quanto un doppio binario del racconto storico.
Da una parte il metodo “narrativo”, che cerca di riproporre nei termini del racconto una verità storica documentata. Un realismo attivo, della presa di rischio da parte del soggetto che denuncia la realtà e in qualche modo ne fa saltare i meccanismi. Dall’altra un metodo di carattere “analitico”, che anziché cercare di raggiungere la verità dei fatti, lavora sulle modalità attraverso cui i fatti sono stati veicolati; lavora sui documenti che attraversano e circondano il fatto nel tentativo di rinvenirvi non tanto un indizio quanto una “traccia” testimoniale delle forme attraverso cui ci rappresentiamo, o ci siamo rappresentati.
La peculiarità di certi romanzi (di Genna, Scurati, Wu Ming ed altri) consiste, secondo me, proprio in questo carattere metatestuale e metadiscorsivo. Non si tratta tuttavia di quell’intertestualità ludica e gratuita che oggi i critici del postmodernismo, così come ieri i suoi cantori, vanno cercando ovunque. Questi romanzi ci invitano ad osservare qualcosa di diverso, e cioè uno di quei “punti notevoli” in cui la letteratura sembra costretta ad interrogare se stessa per riuscire a porre domande al presente ed al passato.
@Alcor
Cara Alcor, non so chi tu sia, non so se sei una potenza dell’editoria o qualcosa di simile, comunque il mio appello non era rivolto precisamente a te, mi pare. Dici che mi sono offesa senza motivo. Perché ti sei subito affrettata a dirmi ‘calmina’: la mia era solo una proposta dopotutto. Ho ansieggiato qualcuno? Vi ho ossessionati con ripetute richieste? Ho mandato troppe e-mail? Aspiravo a prendere il potere? Dicono che chiedere è lecito… Ho formulato questa domanda una volta sola, mi pare, e non a caso. L’ho formulata perché ho l’impressione che ci si strappi i capelli di fronte allo spettacolo sconfortante dell’attuale produzione italiana, che resta comunque quella promossa e divulgata in larga scala, però si faccia fatica a guardare un po’ più in là. Come ha testimoniato Moresco già una decina d’anni fa, è difficile superare certe barriere di classe o altro (sostanzialmente di classe, secondo me). Potevi ignorare la mia domanda se ti sembrava inopportuna, ma hai dimostrato una certa generosità nel concedermi una risposta. Pur nella sua stringatezza ed efficacia, contiene molto d’interessante. Sostieni che tutto il Paese grida a gran voce “leggimi leggimi” mentre il 65% non può farlo per mancanza di preparazione. Può darsi che inconsciamente tutto il Paese in effetti aspiri a una qualche forma d’espressione che gli è negata. Può darsi che ciò che non perviene sulle scrivanie degli editori contenga proprio quella visionarietà o complessità di cui si lamenta la mancanza. Mi pare che il divario sempre maggiore fra chi detiene certi saperi-poteri e chi ne è escluso (oppure possiede un’adeguata preparazione teorica ma non pratica, come fare tutti i percorsi necessari, rivolgersi alle persone giuste ecc.) abbia il suo peso anche in questo ambito, quello dell’arte.
La critica nuda e cruda che cos’è? Incontrarsi con il diverso, leggere l’inedito, il non ancora codificato, l’alieno. Altroché salotti, bisognerebbe uscire e da qualche parte vedere i marziani, magari invitarli per un té…
@Low
Ammaniti a te “fa cagare”, a me non piace neanche un po’. Al di là dello scarto stilistico, siamo perfettamente d’accordo.
@battig
Affermi: “Io sono il primo a dire che molte colpe del basso livello culturale in genere del nostro sistema letteratura sono da attribuire ad una vastissima fascia di scrittori che oggi come oggi scrivono come impiegati della letteratura un libro l’anno etc etc…..ma non sottraiamo colpe ai lettori. Se in certi paesi certi libri vengono letti e idolatrati è perché ci sono i lettori di quei libri. Qui, per pregiudizio, e basta entrare in una biblioteca o in una libreria, editori, lettori e librai emarginano gli scrittori che non stanno alla ribalta del quotidiano chiacchericcio e la critica fa altrettanto.” E io che ho detto? Poi: nemmeno noi abbiamo più Morselli, dato che è morto nel 1973, 36 anni fa. Poi: non ho detto che dobbiamo scimmiottare Wallace, ho detto che ce lo sognamo, il che è ben diverso (uno che è abilissimo nel dipingere le ragnatele della mente è Giulio Mozzi, a mio avviso; ma se non erro è stato citato in un solo post, e mi dichiaro correo). Poi affermi: “Io posso essere anche il primo a criticare gli scrittori ma non esageriamo, noi scrittori che valgono li abbiamo eccome, basterebbe leggerli o rileggerli, almeno nei loro libri fondamentali.” D’accordissimo, se ce ne fossero! Infatti non ho affermato che la letteratura italiana contemporanea è povera di libri validi, ma che quella di oggi (degli ultimi quindici/vent’anni, suppergiù) è povera di libri validi. Tant’è che io leggo e rileggo, e disperatamente rileggo. Ma aspetto anche qualcosa di nuovissimo e croccante, ADESSO, non ieri o l’altro ieri.
@alcor
Gli scrittori stranieri che ho citato saranno pure “vecchiotti”, come li hai definiti tu, ma parecchie loro opere sono vive e vegete; invece le opere dei nostri giovani virgulti nascono già anzianotte. Ancora: io non faccio la “solita lagna”, ma osservo i fatti. Non è colpa mia se il bacino d’utenza italiano è inferiore, se gli editori italiani operano male e se il pubblico dei lettori italiani è ignorante (al massimo è un mio cruccio, dato che anch’io scrivo, e scrivo in Italia e in italiano); quel che rilevo è una spaventosa mancanza di creatività della narrativa italiana attuale che va per la maggiore, di quella narrativa che è facile o perlomeno possibile procurarsi nei limiti della propria curiosità, intraprendenza e fortuna. Non nego ci siano grandi menti annidate alla periferia dell’intellighenzia italica. Anzi ne sono certo. Ho anche detto che ogni tanto mi capita d’imbattermi in qualcosa di buono, in qualche rara perla, ma in linea di massima il paesaggio è desolante, perchè desolante è lo stato generale della cultura in questo Paese. Spostando il campo d’osservazione: gli americani hanno LOST e noi I CESARONI, loro DESPERATE HOUSEWIFES e noi ELISA DI RIVOMBROSA, loro DOCTOR HOUSE e noi CRIMINI BIANCHI. A me pare, al di là della maggiore disponibilità economica e del maggiore bacino d’utenza, che loro riescano a mettersi in sintonia con la sensibilità e persino con l’inconscio collettivo attuali (che sono complessissimi e delicatissimi, apocalittici in un certo senso), mentre noi tiriamo le cuoia, allegramente fieri del nostro cortiletto malmesso dove l’aria stagna e le piastrelle vanno in malora. Dopo di che, se devo essere più preciso, a me di Roth è piaciuto davvero soltanto EVERYMAN, di McCarthy soltanto MERIDIANO DI SANGUE, LA STRADA e in parte CITTA’ DELLA PIANURA, di Ellis LUNAR PARK E AMERICAN PSYCHO, di Auster TRILOGIA DI NEW YORK, mentre DeLillo, Franzen e Pynchon non li sopporto (ma ciò non m’impedisce d’apprezzarne la bravura). Ma: le opere citate vogliamo metterle accanto ai romanzi italiani di cui qui si è parlato? Ne dubito davvero.
Un’ultima considerazione (l’argomento mi coinvolge più di quanto pensassi, dato che questo è il mio quarto post se non vado errato, un record): in Italia il romanzo non è MAI stato all’altezza del romanzo estero, cioè americano, russo, tedesco, inglese e francese (e anche latino-americano). E’ una tara genetica. Noi italiani siamo più scrittori che romanzieri, viriamo dal poetico verso il prosastico con gran fatica e strascichi di lirismo; basti pensare alle OPERETTE MORALI, alla fatica immane di Manzoni per scrivere I PROMESSI SPOSI (che lo prosciugò), alle opere stranianti di Gadda, agli sperimentalismi favolistici di Calvino, alle stranezze di Flaiano o Arbasino, alla magia da fiaba della Morante, e potrei continuare molto a lungo. Faccio tre eccezioni: Svevo, Verga, Moravia, loro sì romanzieri puri, capaci di produrre più di un’opera romanzesca – ma attenzione: non sto esprimendo alcun giudizio di gusto, soltanto di genere.
@salardi
hai fatto la domanda due volte, una alle 9.31 e una alle 14.06. e la seconda era di troppo, lascia passare almeno 12 ore per dire che il salotto buono ti esclude, lo dico per te, dai aria alle stanze.
Quanto al potere, io non ne ho, non so gli altri, ma non mi sembra, a leggerli.
Dici: “Incontrarsi con il diverso, leggere l’inedito, il non ancora codificato, l’alieno.”
Spedisci agli editori, o fanno solo ristampe e opere terze?
Tra l’altro, io sono curiosa e ho visto che il primo amore ti ha pubblicato dei pezzi, e allora, di cosa ti lamenti? Continua a scrivere, continua a mandare, se sei brava prima o poi ce la farai.
Poi però basta che siamo OT
@Pinto
non sono uno pseudonimo di db ma una persona vera in carne e ossa identificabile facilmente. Trovo molto interessante questo dibattito e ringrazio tutti coloro che vi hanno partecipato. Solo un appunto su Dal Pra. La riflessione sul romanzo infondo, a ben pensarci, non si distacca molto da quella sul destino del saggio. Troveremo un’analoga evoluzione. Solo che in materia di analisi storica e sociale tendiamo ad avere la memoria corta, perciò caldeggerei un intervento di db sul saggio di Dal Pra sulla resistenza, di cui avremmo bisogno come il pane in questi giorni
@Diamante
lo stesso anche per te, dici che scrivi; sei più bravo degli altri scrittori italiani? hai più immaginazione? spedisci agli editori, se sei così buono prima o poi uscirai, anche se operano male come dici uno magari microscopico che opera bene ci sarà pure.
Scusate, non posso trattenermi dal dirlo, siete veramente tanto noiosi.
@helena
scusa se lo faccio pubblicamente, ma non voglio tediarti con libri e nomi, oltre che con battute ad effetto come quella sui souvenirs, e in proposito (libri e nomi) ti rimando a un saggio apparso altrove ma anche qui su NI, da me scrittto e intitolato “Scritture private”. non credo che dopo averlo scorto, o letto, se vorrai , potrai rimproverare la mia omertà. Un saluto.
s
Grazie, Alcor, dei tuoi consigli, ma non ne avevo bisogno poiché, come dici tu, ho alcuni spazi su cui pubblicare articoli. La mia domanda infatti era un’altra: a proposito di visionarietà, qualcuno per caso ha voglia di leggersi un romanzo visionario o, in alternativa, uno la cui voce narrante attraversa fasi schizofreniche? Senza offesa per nessuno.
Non l’avevo ancora data per dispersa comunque. Avevo qualche presentimento, non dico di no…
Un’altra cosa, non sapevo che tu facessi parte del “salotto buono”, sei tu che lo dici. Pensavo che questo fosse un luogo d’incontro uguale per tutti.
@helena
comunque, per economia di tempo, può bastarti sapere che è proprio perché amo quella letteratura autocentrata etc. che lì faccio nomi e spiego quando e perché mi piace – in ottemperanza (spero, almeno ci provo) a tutti i requisiti di una buona critica – il tale libro e il tale altro: libro per libro cioè. Ti saluto di nuovo, resistendo alla tentazione di una battuta finale,
s.
@roberta salardi
li invii alla posta di NI
@ jan
ma mi scuso con tutti
avevo scritto, direttamente, bolano, al posto di bolaño
(questo lo so fare solo con ‘inserisci’ di word e copincolla)
pensando che per i motori di ricerca fosse indifferente,
come per le ricerche nei data.base delle librerie per cui lavoro
d’ora in poi starò più attento: si può fare la
figura dell’imbecille anche a causa di un’inezia,
e, siccome le inezie sono infinite, si corre il rischio
di fare l’imbecille per tutta la vita
madonnina
@soldato, anch’io cercavo la tilde, come hai fatto a trovarla?
@ alcor
chissà cosa penseranno di noi gli esperti, a vederci parlare di queste cose
come ho fatto io l’ho scritto: in word > ‘inserisci’ > ‘simbolo’
ma sei tu che mi fai un dono prezioso. avevo dovuto pensarci un po’ per
dirne senza nominarlo. ora tu mi ricordi che quel segno si chiama “tilde”,
se mai io l’abbia saputo
@ Pinto
perché non fai rispettare qui la netiquette, che esige commenti “brevi e sintetici”? e perché non ritiri l’accusa vagamente infamante per cui io creerei *stuoli di pseudonimi*? (sempre che tu sia un uomo tutto d’un pezzo e non un incrocio di personalità multiple) per e-mail ti ho dato le prove che quelli che ritieni miei pseudonimi sono uomini reali e addirittura come traduttori dal tedesco almeno al par tuo – e se fai finta di non averle, sei un criptofascista (come sparzani)
sì, tilde, sembra un po’ il nome di una zitella:-)
roberta salardi mi hai fatto venire voglia di leggere il tuo libro. non è che è roba tipo moresco eh? che già lì m’hanno fregato una volta con la visionarietà.
Io ho scritto Bolano, non per ignoranza, ma per praticità.
Tilde, sì, avevo una zia, la zia Tilde. Ma lei Bolano non ha fatto in tempo a leggerlo, temo.
@alcor
Perdona, mi sono forse lamentato al MIO riguardo? E cosa succede, se sono parte in causa non posso più lamentarmi? Mi permetto di ricordarti che la letteratura è piena di malintesi che hanno riguardato grandi artisti. Lamentarmi non è nel mio stile, possedere una visione critica della situazione in cui mi muovo, sì. Quanto alla noia, trovo noioso chi sostiene che sia noioso chi attacca la noia. E’ troppo comodo. Forse ho sprecato il mio tempo a scrivere quattro lunghi post, dal momento che non ho la credibilità di una pubblicazione importante a suffragare ciò che dico? Battig mi ha “rinfacciato” Morselli, alcuni post fa; ebbene, Morselli è stato vittima d’un certo modo di fare. La storia è piena di vittime. Dopo, però. Sempre dopo, quando è facile.
Non hai sprecato tempo diamante, per esempio sono totalmente d’accordo con te con la comparazione narratori americani contro italiani. non c’è storia. saviano avrà anche scritto un libro importante, ma stilisticamente è nullo, e in italia quello è IL LIBRO. capisci. però se lo dici ti dicono sei bravo tu. quindi ho glissato. tanto sono tutte opinioni.
@Dario Borso = db
è sempre stata tua abitudine inscenare dialoghi fra pseudonimi, e ogni lettore di NI conosce i tuoi divertissement, i tuoi travestimenti, i tuoi farnetichi. Nelle mie parole non c’era alcun riferimento alle persone che hai indicato via mail, persone che non conosco e i cui gesti vengono letti unicamente per quello che sono: atti linguistici (se alcuni commenti sono stati moderati dal sistema, dateci il tempo di ripescarli, o di valutare se sono pertinenti alle discussioni). fra te e NI non è più ormai solo questione di quello che scrivi, ma della tua ciclica, feroce caparbietà a sfondare i limiti del dialogo. Sei un dirottatore, ilare, lepido, ma pur sempre un dirottatore.
ti invito seriamente a lasciare la colonna dei commenti a chi ha argomenti da aggiungere alla discussione in corso; a contribuire, se vuoi, ai temi che ti interessano maggiormente; a spedire le tue perplessità alla posta del blog.
Circa l’accusa di fascismo che muovi, a me e a Sparzani, vorrei solo ricordarti che continui a imperversare in questo spazio da tempo immemorabile, tanto che le tue lagnanze sono consustanziali al blog: se ci fosse un problema di autorità, i tuoi commenti, or è gran tempo, non sarebbero più apparsi.
triangolare Strega/Baghetta/Pordenonelegge
Pordenonelegge-Baghetta 1-2
Strega-Pordenonelegge 0-0
Strega-Baghetta 0-2
classifica finale
Baghetta 4
Pordenonelegge 1
Strega 1
@ soldato blu,
cioè, cioè, per la tilde, fammi capire: hai aperto un file word, hai scritto lì il tuo commento dove hai inserito anche la tilde, poi hai fatto un copiaincolla e l’hai trasferito sullo spazio commenti di NI? se così, troppo macchinoso (per me)
@ alcor,
il tuo insistere su “invia a un editore” nelle risposte a salardi e altri, non fa onore alla tua sapienza
bis x soldato blu:
Bolano… hai detto strina – si dice dalle mie parti per dire con litote di una cosa eccezionale. Ma i Bolano non nascono mica come i funghi. E la pioggia che li fa nascere non è quella acida dei nostri cieli.
@macondo
Hai ragione, chissà perché ho avuto questa idea così stupida
Scusate se torno al tema, ma vorrei riportare l’attenzione sul “sistema letterario” e su un problema che mi sembra importante mettere (e tenere) bene a fuoco: quello dei “livelli di lettura” o più precisamente delle “zone di pubblico”.
Leggo su “Lo straniero” di questo mese una recensione di Costantino Cossu al Bambino che sognava la fine del mondo. Positiva. Niente lodi sperticate, ma per Cossu “i due livelli del racconto di Scurati, quello sociologico […] e quello psicologico […] s’intrecciano in maniera convincente”. “Lo Straniero” è una rivista autorevole (e non sono molte), ma al tempo stesso non è una rivista letteraria in senso stretto.
Questo pone un problema: un romanzo che – su questo, mi sembra, siamo in gran parte d’accordo – ha valore letterario assai scarso può avere rilevanza per altri aspetti e – soprattutto – presso altri lettori.
Mi spiego: Cossu, culminando la sua recensione, definisce il libro “uno sguardo lucido sul disastro del mondo, disastro già avvenuto”. Probabilmente ha ragione, e in effetti Scurati, come critico dei mass media dice cose, scusate se mi ripeto, forse scontate, ma generalmente corrette e condivisibili, e il fatto che le riproponga in forma romanzesca potrebbe far arrivare il messaggio a un pubblico più ampio, per il quale quelle cose sono tutt’altro che scontate.
Lo spettatore della Dandini, leggendo Scurati, potrebbe arrivare a riflettere su questioni che Adorno poneva sessant’anni fa. E non sarebbe affatto un risultato malvagio.
Non mi interessa ora (lo scrivo per prevenire eventuali reazioni di lettori che si sentano relegati tra gli “incolti”) fare a gara a chi ha letto quanto Adorno o vantare che qui su NI tutti tengono Minima moralia sul comodino. Non è questione di accesso o meno a saperi esoterici. Ma dovremmo forse cominciare a pensare in modo non episodico che la platea dei lettori è molto differenziata, e che quello che è ovvio per alcuni, per altri non lo sia; e allo stesso modo che ciò che ad alcuni suona insopportabilmente retorico (ad es. le ultime due righe del romanzo, citate da Cossu nella recensione: “Non piangere, bambino, non piangere. Non hai nulla da temere del futuro. La fine è già arrivata. Tanto tempo fa”.) ad altri possano suscitare un brivido sincero.
Uno dei problemi del sistema letterario italiano oggi è, mi pare, la scarsa distinzione delle sedi e delle pratiche della critica letteraria. Come lettore vorrei poter capire se la recensione che sto leggendo è rivolta a me, o a chi altri. È del tutto legittimo presentare un libro solo per il suo contenuto, senza porsi il problema se sia scritto bene o male; ed è altrettanto legittimo soffermarsi sullo stile, sulle strutture narrative, sulla postura dello scrittore, sulla posizione che occupa nel sistema letterario, ecc.
La lettura di Cossu, voglio dire, è legittima quanto quella di Policastro: ma le due recensioni si trovano su due differenti “livelli di lettura” e si rivolgono ad altrettanto (almeno in larga misura) distinte “zone di pubblico”. Oggi però in Italia la confusione delle sedi è estrema, e la stessa prassi recensoria molto impressionistica. E questa circostanza – in sé, senza aggiunta di ulteriori aggravanti o complicazioni – nuoce molto alla letteratura “letteraria”, quella che chiede di essere letta innanzitutto per la scommessa stilistica che propone e rappresenta.
Recensioni valide se ne possono leggere ovunque, basta avere la pazienza di inseguire le firme: sono apparse cose molto belle di Cortellessa su quello che una volta era Tuttolibri, da tempo ormai ridotto a un collage di marchette; ci sono le recensioni della Benedetti sull’Espresso, e potrei citare molti altri casi di recensioni “letterarie” apparse nei luoghi più improbabili.
Ma quali sono i luoghi in cui, oggi, si può essere certi di trovarsi di fronte a una recensione “letteraria”? Luoghi dove il libro di Scurati non sarebbe neanche preso in considerazione o rapidamente rubricato come “da non leggere”, non per supponenza o “odii” personali ma semplicemente perché non rilevante ai fini del discorso che in quel luogo, su quella rivista, si svolge?
Sarebbe una rivista così noiosa, per quattro gatti? Non credo. Si può recensire con sguardo “letterario” anche un libro che letterario non è: lo ha fatto ad es. Paolo Nori sul “manifesto” di oggi, demolendo un brutto libro sulle brigate rosse solo a partire da come è costruito. Mi sembra, il suo, un buon esempio di come uno sguardo “letterario” sulle cose possa rivelare molto sulle cose stesse, e non solo sulla letteratura.
Allo stesso modo, un premio “letterario”, come lo Strega, dovrebbe essere conferito per meriti “letterari”. Alla fine della gara, nella motivazione, questo dovrebbe risultare evidente, e la motivazione stessa, sottoscritta dai giudici, dovrebbe essere un testo che assomiglia più alla recensione di Policastro (con tutti i limiti che può avere, e su cui si può discutere) che a quella di Cossu. (So che è roba da mondo dei sogni, ma non si potrebbe provare, almeno, a sostenere la dignità e autonomia del giudizio “letterario”, almeno nei luoghi in cui dovrebbe essere di casa?)
Alcuni esempi di questa pratica critica si possono trovare, a volte, su NI, il primo amore, Alias, lo Straniero, l’Indice, su Nuovi Argomenti, su Allegoria e su alcune altre riviste semi- o para-accademiche che solo pochissimi leggono. Ma costruire un luogo in cui questo avvenga sistematicamente, o anche solo “mappare” i luoghi in cui (e i critici grazie a cui) questo avviene, potrebbe essere un grande passo avanti per riannodare i fili di un discorso critico (e di una prassi critica) che appare fatalmente sfilacciato (con la conseguenza che si finisce spesso per fraintendersi o parlarsi addosso) e – come già si diceva – per far recuperare alla letteratura “letteraria” qualche posizione sui “prodotti editoriali”.
Mi sembra quantomeno curioso, ad es., che in questi 150 post si sia discusso appassionatamente di canone contemporaneo, citando da Wallace a Bolaño, da Franzen a Houellebecq – segno che tutti noi abbiamo un gruppo di autori di riferimento, neppure troppo eterogeneo – e non si riesca a farne l’oggetto di una riflessione condivisa, in cui mettere a fuoco i non molti modelli “letterari” che rappresentano una novità e una caratteristica della contemporaneità.
Delimitare il campo, chiarire che in una certa sua zona l’attenzione è concentrata in particolare di aspetti strettamente letterari, credo possa servire non solo ad evitare discussioni in parte sterili (ad es. su quanto valga Scurati o Saviano o Siti, che hanno valore ovviamente diverso, a seconda di quali aspetti si vogliano considerare: lo stile, la fantasia, il realismo, l’autobiografismo, la postura, dello scrittore, il coraggio civile, ecc.) ma anche a rafforzare il punto di vista “letterario” sulle cose, la sua dignità, il suo portato di “verità”, se crediamo ne abbia uno.
(Chiedo scusa per la prolissità dei miei post, ma non riesco proprio a sintetizzare in minor spazio questo tipo di questioni, che sono “strutturali” e richiedono – ad evitare il fraintendimento – di essere presentate in modo articolato. E chiedo scusa anche per l’eventuale “saccenza” del tono: non è intenzionale).
Forse un aspetto (rilevante) del commento di Michele Sisto si potrebbe riassumere così: la c.d. ricezione dell’opera è un settore (“sociologico”) della critica letteraria, ma non esaurisce la stessa, anzi, il giudizio sul valore stilistico-letterario dell’opera si gioca altrove, su altri livelli ermeneutici.
Costantino Cossu non è mio parente.
@ macondo
Grazie (anche per il tentativo di sintesi ;-). Certo, è importante sottolineare che ci sono diversi livelli ermeneutici. Ma più importante ancora è, secondo me, sforzarsi di tenerli distinti, sia nella prassi che nelle sedi, altrimenti si fa un sacco di confusione.
Da una parte sarebbe auspicabile costruire (o mappare) sedi per la critica “letteraria” in senso stretto (nell’accezione del post precedente). Questa critica, in Italia, esiste, ma è disperatamente dispersa. Tanto che Goffredo Fofi, sullo Straniero di maggio (di cui proseguo la lettura) può intonare l’ennesimo epicedio “In morte della critica”. E ha ragione, in una certa misura, quando dice che la critica, come gli scrittori e il pubblico, è stata “invasa e mutata dalla logica della merce, fa più che mai parte del ciclo delle merci, del mercato”. Però, se non si fanno i nomi, se non si prova almeno a individuare chi in Italia fa critica “letteraria” e dove, e chi invece pur avendo posizioni nel campo critico non la fa, la svende e figura tra i suoi “assassini”, se non si fa questo lavoro, sine ira et studio, si rischia di non far altro che rinnovare lamentazioni come quella di Lavagetto di qualche anno fa, sull’”Eutanasia della critica” (laddove il critico che lamenta la dolce morte della critica è fortemente sospetto di aver contribuito a preparare l’iniezione letale).
Dall’altra mi sembra che la critica “letteraria” goda, tutto sommato, di miglior salute di quella “sociologica”, qui da noi abitualmente diffamata e snobbata. Credo anzi che una critica “sociologica” degna di questo nome, a parte i lodevoli tentativi di Spinazzola e di pochi altri, sia, in Italia, pressoché terra incognita. Penso, come termine di confronto, a quanto si fa in Francia e in Germania sulla scorta degli studi di Pierre Bourdieu, ma anche in casa nostra avremmo modelli di tutto rispetto, come Verifica dei poteri di Fortini. Chi ha più tentato una “verifica dei poteri” dopo gli anni sessanta? E quanto sarebbe utile, farla?
Trascrivo un lacerto del (breve) articolo di Fofi (del quale mi chiedo quale sia stata la causa prossima, scatenante), perché mi sembra costituisca un appello interessante, pertinente a questa discussione. La principale preoccupazione di Fofi non è certo la critica “letteraria” (e va bene così: si è detto che Lo straniero non è rivista letteraria in senso stretto), ma il pezzo contiene aperture non banali nei confronti della critica “sociologica”.
“Da dove si può mettere in crisi il meccanismo di cui si è diventati ostaggio? Non certo dal pubblico, che è la più condizionata delle tre parti. Gli artisti dicono, più o meno in buona fede, dall’arte. I critici (ma non illudiamoci, non lo fa quasi nessuno) potrebbero dire dalla critica. Ma far critica a questo punto non è soltanto spiegare e discutere un libro un film un concerto una mostra, è ampliare il quadro, è ricollocare le opere nel loro contesto (anche di mercato), è vederne e svelarne quasi sempre la superfluità e serialità e la funzione di anestetizzante dei bisogni veri del fruitore, è porsi domande molto più generali a monte della ‘semplice’ recensione, è spiegare a se stessi e al lettore (e all’autore) la ragnatela del contesto. Capire, qualcosa di più della singola opera, e spiegare, dandosi anche, necessariamente, una funzione ‘pedagogica’, che ridesti il fruitore e anche l’autore…”
Ecco, tornando a bomba, perché è utile dire che “Scurati non deve vincere lo Strega”. Serve a ricostruire almeno una piccola porzione della “ragnatela del contesto” (anche di mercato, sottolineo). Ammetto che può essere un lavoro noioso, ma finché non si comincia a farlo la critica rimarrà, inevitabilmente, “ostaggio” del “meccanismo”.
È un lavoro del genere che ci potrebbe mettere nella condizione di dire, ad es., a Belpoliti: Ma tu, che sei un critico “letterario”, perché scrivi che Il bambino che sognava la fine del mondo è un libro “importante”? Non hai visto che è scritto male? E di porre, poi, magari, la stessa domanda anche a Walter Siti. (Non a Costantino Cossu, che evidentemente nel libro cercava altro, non il valore “letterario”).
È un problema “sociologico” e va affrontato, di conseguenza, con gli strumenti forniti dalla critica “sociologica”: il critico, come qualsiasi altro professionista, deve rispondere a qualcuno. Ed è meglio che questo qualcuno siano i colleghi (e rivali) critici piuttosto che il mercato, no? Non sarebbe un passo avanti, verso la “salubrità” della critica e del sistema letterario tutto?
@stefano, io dopo anni di frequentazione della rete non capisco ancora perché sia così facile pestarsi i piedi nei commenti, così difficile parlarsi senza tutto questo genere di equivoci. Non avevo nessuna intenzione di rilevare polemicamente la tua battuta finale, né tantomeno accusarti di omertà (e mi fa lievemente impressione che tu usa questa parola). Il tuo pezzo su NI l’avevo letto, in ogni caso….
@per Diamante (e per tutti)
Mi scuso caro Diamante se non sono stato chiaro.
Il mio appunto era semplicemente per non far partire l’assurdo discorso della comparazione di letterature e per far tornare il discorso sui singoli libri e non su gli autori che magari scrivono un bel libro e poi libri bruttini (ho fatto l’esempio di Siti).
Ed era anche perché se parte un discorso generale sulla “letteratura” viene fuori solo un gran casino come infatti sta succedendo.
Non ti ho rinfacciato Morselli….ma visto che anche tu hai citato scrittori di ieri (Roth per me è già ieri…) mi è sembrato giusto ricordare che quando si parla di scrittori contemporanei dal punto di vista critico non si può restringere il campo agli ultimi due lustri ma perlomeno criticamente vedere quello che è accaduto dal dopoguerra ad oggi….
Io ho citato libri precisi di Coccioli e Morselli, contemporanei di calvino, ho citato Scuola di Nudo e che chiamiamo anima e per quante vite di marosia castaldi che sono libri degli ultimi due lustri appunto, ti potrei citare Piero Chiara o Passavamo sulla terra leggeri di Atzeni che è un capolavora degli anni ’90 e della letteratura italiana contemporanea. Tu citi Mozzi per quanto riguarda il suo primo libro sono d’accordo (per inciso io devo a Mozzi la pubblicazone del mio primo libro tanto per chiarezza….quindi lo conosco bene come scrittore e un po’ come persona). Un altro libro importante è cargo di Galiazzo…etc etc…ma te ne potrei citare altri…..dico solo che i libri importanti ci sono, basta avere la pazienza di superare le pile di camilleri ;) o del Giordano di turno…..
Come scrittore poi non posso sottointendere che la mia voce sulla letteratura italiana non la devo certo spiegare qui, chi vuole se la può andare a leggere nei miei libri che, faccio notare, a seconda della scelta del titolo (essendo tutti abbastanza diversi) possono essere tacciati ognuno dei difetti e dei pregi che qui sono stati tirati in ballo sulla letteratura italiana. Ciò personalmente mi rassicura almeno del fatto che come scrittore un percorso lo sto facendo e che non mi limito a riprodurre lo stesso libro vita natural durante, cosa che spiazzerà anche i miei pochi lettori (con un libro come Neogenesis ad esempio..) ma per uno scrittore è la vita stessa della sua scrittura. Almeno secondo me.
Quindi rinnovo l’invito a parlare di singoli libri e non di teorie generali e ad abbandonare la pessima abitudine di voler classificare tutto o ammucchiare scontri di categorie culturali tra libri italiani e stranieri. Semplicemente perché i grandi libri sfuggono a tutti questi discorsi e si trovano ovunque uno abbia voglia di cercare con pazienza. Che poi è uno dei “divertimenti” più grandi che può agognare un lettore: ricerca, scoperta e condivisione del piacere di una lettura.
@ michele sisto,
l’occaso della critica letteraria in Italia è fenomeno complesso, più complesso del fatto di essere stata “invasa e mutata dalla logica della merce, fa più che mai parte del ciclo delle merci, del mercato”, secondo le parole di Fofi. Vi sono altre specificità, a mio avviso, da tenere in conto. Una di esse è la scomparsa della critica militante, dovuta alla nuova temperie politica, teorica e culturale dei nostri temporamores. Oggi la critica o si è arroccata nell’accademismo (la commistione tra figure: docente universitario, critico letterraio, poeta-narratore è oggi “preoccupante”) o di è diluita nella “gazzetteria”, e qui la fanno da padroni le cricche editoriali e/o le consorterie regionali. A fronte di ciò va anche registrata la totale terra di nessuno di elaborazione e produzione teorica in cui attualmente si muovono i critici superstiti. I libri di critica che escono oggi in Italia sono sempre più congerie di “letture” critiche e sempre meno elaborazioni teoriche di più ampio respiro sulla letteratura.
In chiosa alle consorterie regionali, per quanto riguarda la poesia, sarebbe interessante analizzare la provenienza regionale dei poeti ancora pubblicati dalle grosse case editrici. Mi pare che vi siano grosse case editrici che pubblicano in prevalenza poeti milanesi, e altre romani. Il resto, ciccia.
Sì, c’è anche la questione della scomparsa della critica militante. Ed è vero che è dovuta, in parte, a un crisi politica, teorica e culturale. Mi chiedo però come se ne possa uscire, come si possa rilanciare il discorso critico. E, sarà una mia fissa, mi sembra che il punto di partenza possano essere i luoghi.
Dove si può fare critica militante? Fino a una trentina di anni fa il luogo deputato erano le riviste letterarie o politico-letterarie, che funzionavano al tempo stesso come laboratorio di teoria critica e come veicolo di legittimazione canonica.
Oggi quali sono i luoghi della critica? I blog, in maniera nuova e ancora confusa, hanno ereditato, in parte, questa funzione. E poi? (La domanda non è retorica: la risposta potrebbe essere un elenco, molto concreto, di riviste, ecc.)
E, vorrei insistere anche su questo, frammenti di un discorso critico “militante” si possono ancora trovare nel sistema letterario attuale: su giornali, inserti settimanali, riviste accademiche, siti internet, libelli pubblicati da case editrici con poca o punto distribuzione, ecc.
Bisognerebbe cominciare a metterli insieme, questi frammenti, questi critici, queste elaborazioni teoriche. Perché uno degli effetti (questo sì) del mercato è la polverizzazione degli spazi della critica, che oggi si può esprimere, pare, solo in assenza di contesto, in piccole enclaves, siano esse le rivistine per pochi o i pochi articoli e recensioni ben fatti che affondano nel maremagnum di una pubblicistica distratta e distraente.
Allarghiamo le enclaves! Facciamo uscire gli indiani dalle riserve e invitiamoli a unirsi in una nazione! ;-)
Gilda Policastro scrive: “Al romanzo contemporaneo serve una lingua, una voce. Ha bisogno di ritrovare la distanza dalle cose, di parlare di ciò che accade da lontano, con l’eccedenza di visione garantita all’eroe in misura inversamente proporzionale, teste Bachtin, alla sua identificazione con l’autore”.
Queste affermazioni sono vere? Se sì, dove sono le prove? Dove sono gli argomenti?
Portare come “teste” il povero Bachtin, che sicuramente non è più “contemporaneo” da un bel pezzo (cioè: che ha costruito la sua teoria studiando romanzi diversi da quelli a noi contemporanei, pubblicati in un momento storico diverso da quello a noi contemporaneo, ecc.), è sensato?
L’espressione “distanza dalle cose” ha senso? E se sì, quale?
La mia provocazione di ieri (qualche post sopra) è da collocarsi nel contesto di un articolo che stavo scrivendo per “Il primo amore”/sconfinamenti dal titolo “Psicopatologia della vita democratica (2)” di prossima apparizione sulla rivista on line o sul blog.
Viene infatti riportata in calce all’articolo come piccolo esperimento. Ma sì, ogni tanto facciamole, queste cose, tiriamo sassolini a qualche finestra, usciamo dalle riserve…
Comunque grazie per le risposte. Terrò presente.
@helena,
non ti impressionare per l’uso della parola omertà, c’è contesto e contesto (altra parola chiave e “siciliana”). E non si tratta nemmeno di pestarsi i piedi. Il riferimento alla battuta finale era, ovviamente…una battuta, nulla più. E quanto al resto, se avevi letto il pezzo su NI, mi sfugge il senso delle parole che mi hai indirizzato: “Capisco che uno possa non amare un certo tipo di letteratura perché troppo egotistica, autocentrata ecc., però non mi pare un criterio che pertiene alla critica letteraria. Lo diventa quando riesci a mostrare che caio ti sta raccontando o mettendo altrimenti in scena i cazzi suoi e se stesso – detto in francese- col presupposto che questi siano rappresentativi di qualcosa che lo oltrapassi, mentre questo salto non avviene affatto sulla pagina. Quindi, alla fine, si tratta sempre di guardare libro per libro, o no?”. Un abbraccio e un saluto. Non pestiamoci i piedi,
s.
@ diamante,
che scrive: “A me di Roth è piaciuto davvero soltanto EVERYMAN […]”: ellamiseria! Nemmeno il “Lamento di Pornoy” le è piaciuto? Ma lo sa che lei ha davvero un cuore di pietra?
E che, dopo, scrive anche: “In Italia il romanzo non è MAI stato all’altezza del romanzo estero, cioè americano, russo, tedesco, inglese e francese (e anche latino-americano). E’ una tara genetica. Noi italiani siamo più scrittori che romanzieri, viriamo dal poetico verso il prosastico con gran fatica e strascichi di lirismo; basti pensare alle OPERETTE MORALI, alla fatica immane di Manzoni per scrivere I PROMESSI SPOSI (che lo prosciugò), alle opere stranianti di Gadda, agli sperimentalismi favolistici di Calvino, alle stranezze di Flaiano o Arbasino, alla magia da fiaba della Morante, e potrei continuare molto a lungo. Faccio tre eccezioni: Svevo, Verga, Moravia, loro sì romanzieri puri, capaci di produrre più di un’opera romanzesca – ma attenzione: non sto esprimendo alcun giudizio di gusto, soltanto di genere”.
Sono d’accordo con lei che i romanzieri contemporanei (quelli che su NI sono definiti tali, quindi di oggi, di ieri o tutt’al più di ier l’altro) dovrebbero ripensare un po’ alla famosa questione della lingua. Lo so, fa tanto anni ’80 dell’Ottocento: con i manzoniani di destra, quelli di sinistra, carducciani che imprecano su Manzoni ecc. Ma è solo per effetto di cattiva visione scolastica della questione, che invece è essenzialmente ideologica e politica. Rimuovendo il problema della lingua, e delle sue articolazioni storiche, si finisce a scrivere nell’italiano abulico e immoto di maggior parte della prosa di oggi (Calvino e Moravia sono stati due maestri mica da scherzo di questa pochezza a venire: poi, si sa, i figli estremizzano).
Quindi capisco la posizione analitica, e non valutativa, del suo sconfessamento del romanzo italiano. Però mi sembra che lei banalizzi un po’ troppo il genere romanzo: che non è mica quel genere di scrittura in cui si racconta una storia, e bona lì. Sennò che fine fanno Sterne, Diderot e – prima di loro – nientemeno che Cervantes. E poi Proust, Joyce, Musil e Céline (e il Roth di “Portnoy” che, varà capito, io vedrei bene di salvare)? Forse il romanzo – dai suoi primordi sino a quella modernità che ancora non s’interrogava sul dilemma seguente: son più moderno se vado e sto in disparte, o se non vado proprio? – non ha così tanto a che fare con il raccontare una storia. Se la mette in questi termini, la via italiana al romanzo è senz’altro eccentrica, ma per questo anche più interessante di quella di altri paesi. Le dirò una cosa che parrà bestemmia, in questi lidi tanto contemporanei: ma se lo scrittore d’oggi leggesse un po’ meno scrittori stranieri, ossia se consumasse un po’ meno la lingua spesso fungibile e inane dei traduttori di romanzieri stranieri, e un po’ più gli italiani (di qualunque epoca)? Forse sarebbe attraversato anche da qualche idea in più su cosa narrare. E magari cesserebbe di anelare o rifuggire alla realtà e alla società come cose esterne, da captare per mezzo di una lingua recipiente.
Non dovrei intervenire ancora in questa discussione, perchè, le poche cose da dire che posso avere, le ho già dette – oltrettutto gonfiandole per farle apparire più grandi di quanto non siano-.
Ma non riesco, quasi mai, a non far sapere quanto mi entusiasmi potermi indentificare, completamente, nelle parole degli altri
Non sapevo chi fosse Riccardo Stracuzzi, ma ora, dopo aver un giro in internet, capisco anche perché, queste sue – ah queste sole per carità – sono parole che potrei aver detto io:
” Nemmeno il “Lamento di Pornoy” le è piaciuto? Ma lo sa che lei ha davvero un cuore di pietra?”
“Rimuovendo il problema della lingua, e delle sue articolazioni storiche, si finisce a scrivere nell’italiano abulico e immoto di maggior parte della prosa di oggi (Calvino e Moravia sono stati due maestri mica da scherzo di questa pochezza a venire: poi, si sa, i figli estremizzano)”
Scusa Diamante, non è che tu ti aspettasi che ti dessi ragione più di due
volte, vero?
due refusi, scusate:
aver fatto un giro
Portnoy
@riccardo stracuzzi
Ho necessariamente corso nelle mie valutazioni, ma posso adesso con più calma dire che non so definire il genere romanzo, nè lo desidero; quello che però voglio affermare, è ciò che romanzo non è. Non è romanzo un libro che non mi permette di entrare in esso per mancanza di spazio, perchè è troppo “piccolo” (magari conta mille pagine), perchè non possiede vita propria, perchè mi lascia tale e quale a prima d’averlo letto, perchè non dilata la mia coscienza (non dirò la mia intelligenza), perchè non mi fa volare il tempo, perchè non accende la mia creatività (quando un romanzo accende la nostra creatività proviamo una sensazione fantastica, come se ci avessero letteralmente regalato una splendida e sino allora opportunità), perchè in definitiva rappresenta un tradimento estetico, e quindi anche etico. Un romanzo non deve possedere tutte queste caratteristiche, ma almeno una sì – possederne almeno una è già tanto. Difatti, quasi mai m’imbatto in un romanzo che mi piaccia totalmente, e non sono di bocca difficile come potrebbe sembrare dalle mie affermazioni. Ho finito oggi di leggere IL TEMPO MATERIALE di Vasta, e dico convinto che si tratta di un vero romanzo; benchè la prima metà mi abbia annoiato, AVEVA SENSO andare avanti, e infatti la seconda metà si è rivelata potente, a tratti indimenticabile. Lo sentivi, IL SENSO, nell’aria, nelle pagine future, a chiamarti. L’autore ha raccontato una storia, il che non significa “e bona lì”; per me vuol dire che ha costruito identità nuova per il mondo, nuova dimora psichica e spirituale da abitare; da abitare col magone, soffrendo e disperando, dato che il libro è duro, ma da abitare. E da Vasta mi collego alla tua obiezione sui libri stranieri e quelli italiani, dichiarandomi abbastanza d’accordo con te. E’ senz’altro vero che leggere romanzi nella propria lingua madre rappresenta una palestra migliore; ma è altrettanto vero, a mio avviso, che la letteratura italiana attuale (non tutta, non sempre come Vasta dimostra) è priva di spunti, non opera creativamente; essa ricicla la cronaca e la tv e l’autobiografismo, la qual cosa non è tout court negativa; ma come ho più volte ripetuto, sono gl’interpreti a steccare. Non condanno aprioristicamente alcun genere, anzi non definisco aprioristicamente alcun genere, dato che le gabbie mi fanno orrore. Mi fa orrore chi in gabbia ci si mette, o cerca di mettere me. Quanto alla letteratura italiana passata e contemporanea, l’ho letta abbastanza da poter dire di conoscerla; e la rileggo pure, quando vale la pena – la necessità e il piacere della rilettura ritengo siano sintomi certi di grande opera.
Infine, su Roth non cambio idea, Joyce non lo sopporto (!!!!!!!) pur riconoscendone la grandezza, e gli altri da te citati sono veri e titanici romanzieri.
Ti saluto e mi scuso se ti ho dato del tu, mentre tu mi hai dato del lei, ma me ne accorgo ora.
ps: dato che ho spesso parlato nei miei post di autofiction, voglio sottolineare che io sono un appassionato di biografie, ho un talento innato per le date e gli eventi di grandi personaggi storici e artistici, mi ricordo tutto e di gusto; e che una delle opere che amo di più è un’autofiction, UNA STAGIONE ALL’INFERNO. Concludo dunque con quella splendida frase di Rimbaud: “Intanto è la vigilia. Cogliamo ogni influsso di vigore e di reale tenerezza, e all’alba, armati di ardente pazienza, entreremo nelle fulgide città.”
perché stregati non deve vincere lo scuro.
sarà perché gli stregatti amano lo scuro, già
perché non sarebbe chiaro, lo scurato stregato
@macondo
pro-ponevo un post con quel titolo, magari ne uscivano altri 170 commenti nel tentativo di definire dov’è romanzo il finito.
L’ho trovato, il finito!
E’ sotto il romanzo della zia Ersilia!
Rispondo a Simone Ghelli per esperienza diretta. Secondo me, è raro che un editore piccolo disponga di un proprio servizio di editing per la revisione dei dattiloscritti prescelti. Di solito (parlo per esperienza diretta) capita che sia l’autore a doversi preoccupare di presentare un testo pulito, riveduto, editato alla bell’e meglio, avvalendosi di amici, librai, insegnanti, persone che anni e anni fa hanno lavorato presso altre piccole case editrici. Qualche volta glielo fanno gratis, in altri casi a pagamento (esistono sulla rete anche associazioni culturali che fanno il servizio di editing agli autori, con tanto di bonifico e reinvio del file word via email). Tutto questo, ovviamente, prima di arrischiarsi di spedire il dattiloscritto alla segreteria editoriale di questa o quella casa editrice per paura della “lettera prestampata di rifiuto”. Per esperienza diretta, posso dire che fortunatamente non capita sempre così: oltre a questo tipo di editori, ce ne sono altri che invece ritengono di intervenire con un editing appropriato in collaborazione con l’autore.
Tutto questo, insomma, per dire che l’editing vale anche nella piccola editoria, in certi casi praticato all’interno delle case editrici, in certi altri all’esterno su iniziativa dell’autore.
Grazie per l’accoglienza.
Dopo tutti questi commenti c’è poco da aggiungere. Ho provato a leggere il libro di Scurati anche se – colpevolmente – mi sono fermato a pagina 50. Il tempo è poco ed è meglio consumarlo in altro modo. Siamo oltre l’autobiografismo, oltre la docu-fiction letteraria, la manipolazione cronachistica, ci troviamo di fronte al narcisismo più spudorato di chi non sa bene cosa scrivere, cosa inventarsi per alimentare la fama da scrittore di moda ottenuta in passato, e dunque un po’ rubacchia dall’attualità e un po’ dalla sua vita. L’autocandidatura allo Strega è un paratesto ancora più patetico, con la scusa di sovvertire le regole in realtà si ha solo voglia di incensarsi e di alimentare un sistema che poi è uguale a Sanremo (basato anziché sull’accordo tra case editrici su quello tra case discografiche). Ma vorrei fare i complimenti a Gilda Policastro per la sua stroncatura. E’ un’ottima recensione, scritta con la verve della pamphlettista navigata e scontrarsi con i “poteri forti” dell’editoria in tempi come questi, bui e conformisti, è davvero meritorio. Certo la Policastro non rischia la vita come Saviano, ma la carriera magari quella si e tra i tanti inetti che circolano nel mondo universitario (mi verrebbe da includere Scurati, ma non lo conosco come professore solo come scrittore) ci sono persone come lei che meriterebbero di avere almeno un posto da ricercatore, mentre non mi risulta che ce l’abbia, evidentemente proprio perché non è una persona che scende a compromessi.
[…] di Antonio Scurati. Qualche esempio? L’acceso botta e risposta che era sortito su Nazione Indiana. E l’articolo pungente che Massimiliano Parente aveva scritto su Libero. Voi a chi dareste il […]