La rivolta delle carriole

di Riccardo Pensa

Quando, da molto vicino, ho visto le transenne della zona rossa de L’Aquila aprirsi di botto, mosse dalla pressione della folla che si riversava nell’area interdetta, ho provato anche io, lucchese, un forte senso di riappropriazione.

Era il 28 febbraio 2010, la prima manifestazione delle carriole, un’iniziativa spontanea, fisiologica, con la quale gli aquilani hanno voluto esprimere, in un senso molto materiale, la volontà di riprendere in mano il proprio destino. Da allora, infatti, il ritrovo domenicale in piazza Palazzo, a proseguire il lavoro di identificazione, selezione e riutilizzo delle macerie, è diventato un appuntamento fisso, un rito collettivo.

Per una popolazione colpita da un trauma forte e complesso come un terremoto, serve una terapia adeguata, una riabilitazione graduale capace di far leva su quanto di sano e vitale si è preservato, per valorizzarlo e rafforzarlo e iniziare così a recuperare tutto il resto. A L’Aquila, invece, l’innesto coatto delle 19 new town del piano Case e l’amputazione netta del centro storico, sorvegliato giorno e notte dalle camionette dell’esercito, hanno rappresentato tutt’altro genere di intervento, un’operazione che ha preferito dare per acquisita l’impotenza dei cittadini, senza considerare quanto tale ammissione contribuisse in realtà a procrastinare lo shock del dopo-terremoto.

Dall’entusiasmo, l’affetto e la cura con cui gli aquilani hanno messo mano alle proprie macerie è emerso il senso profondo dell’iniziativa delle carriole, quasi una rielaborazione del lutto per troppo tempo repressa, ed anche la verità di un’altra prospettiva, quella per cui si riesce davvero a uscire dalla crisi solo riattivando le proprie forze, per magari sviluppare, come avvenne in Friuli, un nuovo percorso di crescita.

A L’Aquila, dal sisma del 6 aprile, riecheggiano le parole di Silone che, ricordando il terremoto della Marsica, scriveva: “A quel tempo risale l’origine della convinzione popolare che, se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in un dopo-terremoto o in un dopo-guerra.” Per questo, il futuro de L’Aquila riguarda, comunque, da molto vicino, anche chi aquilano non è.

Il testo è stato pubblicato sulla rivista VolontariatOggi, n. 1 Aprile 2010. Le foto complete sulla manifestazione de L’Aquila del 28 febbraio 2010 sono visibili qui.

6 COMMENTS

  1. Sono felice di ritrovare un articolo postato da Maria Luisa. E’ importante di dare uno spazio a l’Aquila, dopo il fracasso del terremoto, il silenzio diventerebbe un vuoto di solitudine per il paese delle Abruzze. Mi chiedo
    come vivono gli abitanti senza casa, senza il punto familiare e nobile dei monumenti, dove ha finito l’aiuto straniero. Un paese che ha perso la sua terra di tradizione non ha più gli occhi per sguardare. Mi accade di leggere articoli trattando della camorra nelle Abruzze. Quello che aveva annunziato Roberto Saviano si verifica: è una maggiore ferita, peggio di tutto che è accaduto in questa terra, perché la crudeltà spinge a fare dell’infelicità un territorio da divorare.

  2. Grazie Véronique!
    “la crudeltà spinge a fare dell’infelicità un territorio da divorare” è un’espressione che rispecchia bene la sensazione che ho provato, quando mi si è svelato quanto stava accadendo a L’Aquila. Qui gli abitanti sono volutamente tenuti lontani dalla possibilità di riappropriazione del territorio, dal recupero della memoria, dalla ricostruzione simbolica prima che fisica delle forme urbane. Quando ho compreso veramente questo, pochi mesi fa, mi son resa conto che uno spazio mio mentale non l’aveva recepito perchè fuori da ogni logica responsabile e di tutela degli esseri umani (cittadini, abitanti o altro che siano) che abbiano subito un trauma così forte. Hanna Arendt diceva che gli ebrei tedeschi non avevano “visto” quanto stava accadendo nei campi di sterminio, perchè era “impensabile”. Se questo “stallo” de L’Aquila fosse un laboratorio voluto per fare qualche esperimento, direi che “mò basta”. Se invece è uno stallo voluto per lasciare indisturbati chi nella infelicità altrui si insidia crudelmente e spietatamente a creare affari che vanno ben oltre la sola ricostruzione, che terribile reato contro l’umano.

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