La natura delle cose
di Antonio Sparzani
Sono stato l’altra sera al Teatro di Verdura, a Milano, Biblioteca del Senato, via Senato 14, dove ho ascoltato con inaspettato piacere Antonio Zanoletti, accompagnato dalle musiche di Salvino Strano, (insieme anche qui, su testi di David Maria Turoldo, tutt’altra ispirazione) recitare con passione ed efficacia una silloge di passi del De Rerum Natura di Lucrezio (Tito Lucrezio Caro, prima metà del I° secolo a.C.). Non riesco a riprodurre qui neppure esattamente i versi ascoltati, perché non sono stati citati gli estremi e non è facile ricordare una silloge molto articolata, ancorché assai bella.
Approfitto però per riscrivervi un passo iniziale del primo libro, nel quale, dopo l’invocazione a Venere, di prassi all’epoca, Lucrezio si scaglia contro la religione praticata dai suoi concittadini e anche contro quella proveniente dalla Grecia, portando, con grande efficacia, come esempio di uso nefando della religione e dei vati (in questo caso Calcante) l’esempio del sacrificio di Ifigenia in Aulide (Ifianassa nel testo lucreziano, sul modello greco).
Tutti sappiamo quanto sia diffuso nell’antichità mediterranea il topos del sacrificio del figlio (Abramo e Isacco nella Bibbia, ecc.); in questo caso la vicenda è quella di Agamennone, capo della flotta greca in partenza per Troia, che ha ucciso una cerva cara ad Artemide: la dea pretende quindi, per lasciar partire le navi, il sacrificio di Ifigenia, figlia di Agamennone. Mito che ha dato spunto a tragedie e rivisitazioni varie e illustri (da Euripide a Goethe, Racine, Alfieri, ecc.). Ecco a voi:
«Per il resto, presta libere orecchie e animo sagace
e lontano da tutti gli affanni alla vera dottrina,
affinché non abbandoni spregiati i miei doni predisposti per te,
con affettuoso zelo, prima di averli compresi.
Comincerò a discorrere per te della suprema norma
del cielo e degli dèi, e ti spiegherò gli elementi primordiali delle cose,
da cui la natura crea tutti i corpi, li accresce e li nutre,
e nei quali torna a dissolverli una volta distrutti,
e che noi nell’esporre la nostra dottrina siamo soliti chiamare
materia e corpi generatori delle sostanze, e semi delle cose,
e denominarli dalla loro medesima essenza corpi primi,
poiché appunto da essi ha origine tutto il creato.
Mentre la vita umana giaceva sulla terra,
turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione,
che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile
aspetto incombendo dall’alto sugli uomini,
per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi
mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro:
non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né il minaccioso
brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono
il fiero valore dell’animo, così che volle
infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo.
E dunque trionfò la vivida forza del suo animo
e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo,
e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo,
da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere,
quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa
ha un potere definito e un termine profondamente connaturato.
Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione
è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo.
In questo argomento temo ciò, che per caso
tu creda d’iniziarti ai principi di un’empia dottrina
e di entrare in una via scellerata. Poiché invece, più spesso,
fu proprio la religione a produrre scellerati delitti.
Così in Aulide l’altare della vergine Trivia
turpemente violarono col sangue d’Ifianassa gli scelti
duci dei Danai, il fiore di tutti i guerrieri.
Non appena la benda ravvolta alle chiome virginee
le ricadde eguale sull’una e l’altra gota,
ed ella sentì la presenza del padre dolente
presso l’altare, e che vicino a lui i sacerdoti celavano il ferro,
e alla sua vista i cittadini non potevano trattenere le lagrime,
muta per il terrore cadeva in terra in ginocchio.
Né in quel momento poteva giovare alla sventurata
l’avere per prima donato al re il nome di padre.
Infatti, sorretta dalle mani dei guerrieri, è condotta tremante
all’altare, non perché dopo il rito solenne
possa andare fra i cori dello splendente Imeneo,
ma empiamente casta, proprio nell’età delle nozze,
perché cada, mesta vittima immolata dal padre,
affinché una fausta e felice partenza sia data alla flotta
Tanto male poté suggerire la religione.
Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti
dei vati, forse cercherai di staccarti da noi.
Davvero, infatti, quante favole sanno inventare,
tali da poter sconvolgere le norme della vita,
e turbare ogni tuo benessere con vani timori! »
qualche nota a margine
‒ si tratta dei versi 50 ‒ 106 della traduzione di Luca Canali (Classici Rizzoli, con introduzione di Gian Biagio Conte, testo latino e commento a cura di Ivano Dionigi, Milano 1990), che mi pare migliore di altre reperibili anche in rete, ad esempio qui; chi voglia vedere il testo latino può andare ad esempio qui (sito perfetto per le opere della antichità classica).
‒ Il filosofo greco cui allude Lucrezio è Epicuro (Samo, 341 a.C. – Atene, 271 a.C.), certamente suo illustre mentore.
‒ la “vergine Trivia” è Artemide, cosi detta perché la sua immagine veniva solitamente collocata nei trivî.
‒ la contraddizione, da molti commentatori rilevata, tra un inno iniziale alla dea Venere (la greca Afrodite) e la convinzione lucreziana che gli dèi stanno per i fatti loro e non c’entrano con la vita degli umani, viene risolta con apposite argomentazioni stilistiche per le quali vi rimando alla citata edizione, molto ben curata.
‒ il passo che comincia con l’amara ironia “turpemente violarono col sangue d’Ifianassa / gli scelti duci dei Danai, il fiore di tutti i guerrieri” [Iphianassai turparum sanguine foede / ductores Danaum delecti, prima virorum] e che prosegue con una dolente evocazione della scena del sacrificio, è a mio parere un pezzo di grandissima commozione.
Versi potentissimi, di struggente disperazione.
Quanto al topos del sacrificio del figlio anche i momenti della Passione in Getsemani e almeno due invocazioni del Cristo, l’ultima sulla croce, vanno ad esso ricondotte. Qui ne cito due: “Padre, se puoi allontana da me questo calice”, e “Eli Eli lama sabctani”.
Credo però che il salto energetico fra antico e nuovo mondo stia nel fatto che nella classicità l’eroe è il padre ubbidiente, messo alla prova da un dio narcisista, mentre nel nuovo scenario è il figlio che vive un dramma di cui non coglie alcuni contorni o che addirittura rigetta.
Confesso, caro Antonio, di aver sempre nutrito intima attrazione per i versi di Lucrezio, non tanto per l’interpretazione materialista dell’essere quanto per il senso di compiuta angoscia che pervade il De Rerum Natura.